Questo post risponde a una domanda che mi hanno posto più volte i lettori del vecchio blog. E’ spinosa in effetti, perché nella sua semplicità denuncia il complicato statuto della psicologia e della psicoterapia nella nostra vita, eppure è semplice – perché suona così:
quando è che uno deve capire di avere bisogno di una psicoterapia?
La psicoterapia è quella cosa che utilizziamo quando il nostro modo di risolvere i problemi che ci capitano non funziona. Definizione efficace volendo, ma che evoca diversi fantasmi: il primo è nella definizione di problema – così intrisa di valori culturali del contesto di appartenenza: non so fare questa cosa (essere felice, avere una fidanzata, non avere una fidanzata, smettere di mangiare, mangiare molto – essere triste etc.) – è un problema? Ma per chi? Per gli altri? Per me? Per il me per me, o perché ho fatto mio il modo di pensare che era di qualcun altro? Questo ordine di quesiti ha una sua ragion d’essere oggettiva per la complicata posizione della psicologia rispetto alla cultura in cui si colloca, e una funzione soggettiva quando si vive una paura di affrontare un cambiamento e di affidarsi a qualcuno – paura che possiamo rozzamente tradurre nel concetto clinico di resistenza, e allora la domanda diventa: rimando la psicoterapia perché penso che posso farcela, o perché non mi va di farcela?
Ma a pensarci, questo modo di girare la questione è anche molto avanzato, persino prossimo alla soluzione, perché parte dei guai stanno nell’avere un problema, qualsiasi esso sia, e non pensare di averlo.
A complicare ulteriormente la questione, c’è il fatto che spesso i nodi vengono al pettine quando ci sono delle normali situazioni dolorose o difficili di vita, per cui la persona che vive delle difficoltà può essere incerta tra il giudicare un senso di scacco dovuto alla situazione contingente e il sospetto che ad appesantire il carico ci sia dell’altro che con quella situazione contingente non ci entra niente.
Io credo che per rispondere dobbiamo prendere in considerazione due cose. La prima più filosofica, la seconda più clinica.
La considerazione filosofica riguarda il nostro rapporto con i contesti culturali che abitiamo, nei confronti dei quali siamo dipendenti a prescindere dalla posizione – più o meno eccentrica – che occupiamo in essi. La domanda da porsi non è quanto disto dalla norma dall’esemplareità, dal comportamento socialmente più accettato, ma quanto sto comodo in questa mia collocazione rispetto al contesto in cui vivo, se abito un punto nello spazio sociale che mi si confà se abito delle emozioni e delle reazioni e delle scelte che mi fanno stare bene, e che senso hanno per me. Bisogna uscire un po’ dalla vecchia narrazione per cui l’eccentricità è patologica in quanto tale, ma simultaneamente ammettere anche che certe eccentricità hanno dei costi, perché implicano una riduzione delle risorse disponibili. Tradotto: se sei sposato hai buoni rapporti con la famiglia, ci hai i figli un discreto lavoro e l’hobby del tiro a segno, hai più rete di sostegno e risorse di appoggio che se vivi da solo, litighi con tutti, hai la passione per film cinesi degli anni trenta e ti è scaduto il tuo contratto di lavoro. Il bilancio costi benefici, persino riguardo a certe categorie diagnostiche è un’equazione personale da trattare sempre con grande rispetto e delicatezza. E questo quindi è un primo messaggio per le persone che giudicano che un caro amico un parente o una persona vicina abbiano bisogno di farsi curare: bisogna sempre tenere in grande considerazione l’equazione personale di qualcun altro, e quindi prima di imbracciare la sacra esortazione alla cura – ancora con un uomo sposato! Ma forse ti devi far curare! Es – ricordarsi del rispetto per la vita dell’altro. Se sta abitando quel punto dello spazio, ha i suoi motivi.
Il che però non toglie che – in certe posizioni si può stare più comodi, anche senza cambiarle di molto, oppure ci si può spostare se davvero lo si desidera -sia un pochino più in periferia, che un pochino più in centro.
(In questo senso, un buono psicoterapeuta dovrebbe avere idealmente lo sguardo abbastanza ampio e la testa abbastanza sveglia, da concepire soggetto e contesto come funzioni relative e interdipendenti non assolute, e quindi essere capace di lavorare con qualcuno che appartiene a una cultura molto diversa dalla sua, utilizzando le prospettive relative a quel campo, piuttosto che al proprio).
La seconda questione più clinica, ma di non troppo difficile osservazione su di se, forse l’unica cosa che interesserà davvero di questo post, è nel concetto di flessibilità e nell’ampio spettro delle nostre risposte alle domande ambientali. Ognuno di noi ha una personalità con delle caratteristiche tipiche, dei pregi e dei difetti – e questo insieme di caratteristiche risponde a certe funzioni psicologiche precise che nella clinica hanno anche un nome – per fare un esempio i meccanismi di difesa, o per farne un altro, le capacità adattive e di resilienza. Ognuno di noi ha dei canali preferenziali che corrispondono a pregi e difetti comunemente intesi, ma deve ugualmente avere la possibilità di usarli in modo vario, e di usarne altri meno consueti affrontando certe necessità. Quando ci si accorge che le nostre risposte alle questioni poste dalla vita sono sempre identiche a se stesse, che siamo irrigiditi in certi protocolli di comportamento che sembrano una sorta di protettiva condanna – è ora di farsi delle domande. Questo vale per delle risposte sintomatiche più palesemente disfunzionali – alcolismo, tossicodipendenza, ma anche per delle altre che sembrano molto eleganti e piacevoli nelle pubbliche relazioni: per fare un esempio, l’umorismo è un meccanismo di difesa superiore, un meccanismo adattivo al contempo, considerato segno di una capacità di distacco dalle cose e di saperle vedere nella giusta prospettiva. Ma se si usa sempre, c’è qualcosa che non va. Se ridi delfatto che sei deriso è un conto, se ridi del fatto che ti hanno fatto una brutta diagnosi è un altro. Perché noi disponiamo di tanti stromenti psicologici diversificati, e tutti servono – per esempio a prendere sul serio un brutto evento e a prendere provvedimenti per difendersene.
Questa cosa può essere utile anche a decodificare certi complicati incroci con eventi di vita spiacevoli, che diventano una sorta di ombrello sotto cui far accucciare tutti i dolori. Contrariamente a quanto farnetica la nuova edizione del DSM (ma su questo faremo un post a parte) l’esperienza del lutto è una necessità fisiologica non una deriva depressiva, e non permettersi un lutto, rientra in quella deprivazione delle possibilità esistenziali che poi può presentare il conto in altra forma, ma siccome la perdita fa parte della vita, almeno la maggior parte delle perdite, in un tempo più o meno dilatabile essa va digerita. Se il lutto non si elabora e ci si incaglia in esso, è la prova che ancora una volta, abbiamo un motivo per non usare tutte le nostre risorse, che con quel lutto non ha niente a che vedere.
Mi fermo qui. In realtà l’argomento è molto vasto, ma confido nelle eventuali domande poste nei commenti.