La mia sincronicità assente. Appunti su Luigi Aurigemma.

Ho conosciuto Luigi Aurigemma che ero una ragazzina, in vacanza con la famiglia a Parigi. Sua moglie era molto amica di mia madre, e all’inizio della nostra amicizia, lui non era nient’altro che una sorta di zio capace di una benevolenza comica, perché per me allora, difficile da decodificare. Ma ricordo benissimo, è un ricordo che ho molto caro e che ha il sapore di un sogno, che mi rubarono la borsa che conteneva un diario e che lui fu molto colpito da questa cosa, tributando al mio diario, un’importanza, una sacralità, che nessun adulto aveva mai dimostrato alludendovi, che io stessa pure non avevo mai davvero considerato necessaria. Il tuo diario? E’ davvero terribile! disse. Il che voleva dire: qualcuno ha leso il tuo spazio intimo e privato? Qualcuno ha leso la porta dei tuoi legittimi segreti di persona che sta diventando crescendo?
E mi comprò una borsa nuova, che conservo ancora.

Per molto tempo – un tempo che io ho giudicato eccessivo, e il cui protrarsi mi faceva scalpitare – il nostro rapporto è ruotato in questo gioco dello zio vecchio con la bambina giovane, i cui passi nella vita andavano sorvegliati, e aiutati. Ed era certamente molto bello avere per amico un pozzo di affetto e di saggezza, e anche l’icona di un mondo complicato prestigioso, e devo dire quell’amico, quelle telefonate, quei consigli ancora mi mancano molto, e certo anche quell’umorismo. Figlietta, diceva alla me adolescente che raccontava travagliate vicende amorose, noi maschi abbiamo il problema del manico. Così come mi piaceva la sua presenza esoterica e misteriosa, quasi iconograficamente volutamente altra, rispetto al mondo attuale: mi capitava di andare a Parigi e camminare con lui vestito in maniera elegante e preziosissima, gli occhiali cerchiati d’oro, i bastoni ricercati, e percepirlo come curioso, misterioso, astruso. Collezionava baffi di gatti, aveva un bellissimo salotto molto francese, pieno di finezze e di riti borghesi, che aveva un suo aggraziato affetto, ancorché molto pudico.
Ho visitato quella casa per circa vent’anni, e non ne ho mai vista la cucina.
Tuttavia, facevo fatica a farmi prendere sul serio. Aurigemma era cresciuto negli occhi della Von Frantz, ossia una delle più importanti e acute maestre junghiane, e soltanto questo – oltre che la meravigliosamente carismatica moglie che aveva assai amato – doveva bastarmi a non considerare come una forma di semplice maschilismo la sua resistenza a prendermi sul serio sia quando gli comunicai che desideravo laurearmi in psicologia che in un primo lungo periodo, in cui lottavo con lui per parlare di pazienti e di teorie e di tirocini e ne ottenevo una frustrante sordità. Piuttosto quando ci sentivamo, insisteva con grande affetto e convinzione sull’importanza delle mie urgenze terrene, rivendicava uno sguardo affettuoso e paterno, e mi ripeteva in continuazione e anche con un certo biasimo, scellerata figlietta che non sei altro, che l’importante nella vita di una donna sono la caverna e i cuccioli, e perché mi parli di libri e tirocini che non mi importa niente e non mi parli di queste cose serissime che dovrebbero essere la tua priorità? E questo mi faceva molto arrabbiare. E mi raccontavo che dipendesse da quella remota radice meridionale che l’eleganza parigina e il prestigio della società psicoanalitica occultavano, ma che certo doveva essere viva se una giovane donna ai suoi occhi non poteva permettersi il lusso di un’ambizione professionale, e intellettuale.
Per molto tempo ho annaffiato questo fraintendimento, perché non mi metteva in discussione, non metteva in luce ciò che non avrei mai voluto vedere, e che riesco a vedere solo ora forse perché lui, a un certo punto cambiò idea.

Mi mandò in analisi da Gianfranco Tedeschi, il quale invece mi prese subito molto moltissimo sul serio, con un atteggiamento che per altro col tempo avrei imparato a capire come persino patogeno e collusivo, ma a cui in fondo, sarò sempre molto grata – mi sentii vista, vista tutta intera e non solo nella mia mezza identità di carne, e la mia analisi andò benissimo. Ma in quel tempo non ci sentivamo tanto spesso. Un po’ perché credo che lui non volesse interferire con il lavoro del collega, molto perché io ero, ora che l’inconscio era sotto la lente di un altro, arrabbiata, arrabbiatissima per quel falso riconoscimento.
Sul finire dell’analisi, il mio analista morì, lasciandomi il giorno prima di una seduta, di una terapia che non voleva finire da tempo.

Era un periodo in cui, mi sentivo orfana di maestri.

Scrissi un brano letterario allora, che uscì su la rivista di psicologia analitica, e che raccontava della mia analisi con Tedeschi, delle mie ambizioni, di quello che gli leggevo dall’altra parte del tavolo, della relazione tra analista e analizzando. Con Luigi non ci sentivamo da molto tempo – e io me ne stavo nell’ombra di un attrito inespresso, e fu perciò con una commozione indescrivibile che aprii la lettera che mi inviò – una lettera di carta e di penna, dove scoprivo quello che non avevo voluto vedere, e nello stesso tempo la sua correzione. Quella lettera ammetteva un errore sul mio conto, una svista, uno stereotipo. Sei così spumeggiante, e solare che non credevo invece potessi capire le persone così, come hai capito il mio amico. Puoi fare questo mestiere. Ti devo dire, che mi sono sbagliato su di te. Coraggio, comincia.

Ci aprimmo a un secondo periodo, in cui ci si parlava, finalmente un po’ più tra pari. Riprendemmo a sentirci, mi arrivarono delle confidenze nuove – la morte cominciava a occhieggiare seppure ancora in una sorta di baluginare, e Luigi ci ragionava, si staccava dalle cose, portava per mano i pazienti che ancora erano con lui, ma si ritirava dalle sfide, dai nuovi dolori. Mi raccontò dei sogni che lui stesso leggeva come acclarate prove di impotenza di stanchezza rispetto le nuove sfide. Curava con fatica e l’angoscia di essere sorpreso prima della fine, l’ultimo volume delle edizione italiana delle opere di Jung, ma si cimentava nella sua maniera saturnina e sciamanica, con questa faccenda sgradevole del doversene andare. Parlavamo delle mie esperienze cliniche di allora, e conservo ancora alcuni suggerimenti che per me sono un tesoro – e certo ci stimavamo e certo ci volevamo tantissimo bene.

Tuttavia, intorno a quella lettera, intorno a quella separazione si era giocata la battaglia di una differenza taciuta – io allora ero troppo giovane professionalmente e diciamo esistenzialmente, per potermene anche solo rendermene conto di sfuggita. E non ho mai avuto il tempo di sapere se lui avesse mai letto le cose tra noi, il confronto, in questo modo. Forse può aver letto le cose sulla doppia costa di un simbolismo clinico – per usare le parole che a uno junghiano solitamente provocano orrore e raccapriccio – io potevo essere la giovane afflitta da una fascinosa maniacalità ma che poteva correre il rischio di costringerla alla superficie, lui poteva essere il vecchio votato a una saggia depressione, iconograficamente più portata alle intercettazioni dell’inconscio altrui ma che alle volte ci si poteva chiedere, se non costringessero al protrarsi di un clima cupo. Ma questo, doveva essere stato superato, come avrei imparato col tempo, ogni analista ha una cifra di partenza, legata a questa o a quella abitudine della personalità, a questa o a quella codifica genetica dell’ego, e questo non impedisce una certa flessibilità nell’affrontare le note da ascoltare e da restituire. Lavorerà la sua vita e la sua onestà intellettuale ed emotiva a cercare di rendere duttile quella codifica di partenza, così come a intuirne gli eventuali limiti.

No, non credo che fosse questo. Era altro sul quale forse lui aveva le sue ragioni. Non tanto rispetto al mio eventuale e tutto da dimostrare talento analitico, ma a quale tipo di ispirazione mentale appartenessimo. Lui non era soltanto uno dei padri dello junghismo in Italia, un allievo di prima generazione. Lui era profondamente junghiano anche nel modo di abitare la vita, e di sentire. era certamente intellettualmente sofisticato e rigoroso – molto di più di tanti colleghi dell’epoca, ma utilizzava certi costrutti e categorie in un modo diverso di come li avrei pensati io anni e anni dopo, una volta in cui sarei riuscita forse ad afferrare – forse, perché si tratta pur sempre di un campo vasto e minato – il perimetro di certi concetti, come gli archetipi e le figure archetipiche. La costa che mi sembrava ci separasse era la costa che divide la montagna tra il lato essenzialista e il lato costruttivista, il lato che concepisce certe narrazioni come strutture dell’essere e il lato che invece le guarda come sue forme narrative, e quindi il lato che scommette di più e sta con tutto se stesso in quella organizzazione mentale e quello – invece che lo abita in una maniera per quanto affezionata e disinvolta più provvisoria. Io avevo addosso lo scetticismo procedurale di una certa sinistra del novecento, a cui lui aveva reagito con stizza, e mi si aggiungeva a coronamento il positivistico edificio della ricerca psicologica recente, delle sue urgenze, dei suoi linguaggi. Nel frattempo avevo trovato altri maestri, per esempio il professore con cui mi ero laureata, e questo mi aveva provocato una tensione alla lettura postmoderna delle categorie di questa o quella scuola, che non mi avrebbe mai abbandonata. In fondo davvero in un certo modo, viveva in lui una certa sofisticheria tutta mediterranea e meridionale come all’inizio avevo afferrato, ma in una maniera meno banale di quella che avevo congetturato. Credo che ci fosse questo attrito intellettuale tra noi, anche se non ci è mai stato il tempo psicologico più che materiale di farlo emergere, perché io per prima avevo bisogno di altri anni di confronto e di lavoro.
E probabilmente questo attrito, si sarebbe anche ricomposto, in un confronto sulle prassi di cura. Questa ricomposizione insieme a quella discussione, è la cosa che mi manca di più.

12 pensieri su “La mia sincronicità assente. Appunti su Luigi Aurigemma.

  1. E’ un post bellissimo. Vi traspare tutto, sei una narratrice eccezionale… Non so perché, più che a un confronto generazionale, ho avuto l’impressione di assistere anche a uno “scontro”fra titani, che si fronteggiano a livello intellettuale, pur se si amano e rispettano. Forse perché si leggono , fra le righe, caratteri fortissimi, e particolari!
    La descrizione della sua figura è magnifica. Credo ne sarebbe molto orgoglioso, a me , pur non conoscendolo, è apparso vivido come se lo avessi di fronte. Bello, grazie Costanza!

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  2. Non entro nel merito perchè non ne ho i mezzi scientifici ma mi sembra una riflessione e un tributo molto bello, interessante e per nulla noioso. Mi ricordo quando, prima che nascesse tuo figlio ti suggerii di mettergli come nome Luigi e tu mi rispondesti che era già stato un tuo caro amico, un maestro.

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  3. Mi piace questo racconto di un’amicizia, e allo stesso tempo mi “spaventa”.
    Metto le virgolette perché forse non di vera paura si tratta, ma di quel timore che credo avrei se vivessi nel tuo mondo, il mondo che vedono gli occhi di chi riflette sulla mente umana e, seppur in modo limitato, conosce il modo in cui si rapporta con la realtà.
    A me piace riflettere sulle capacità del mio cervello, ma mi piace farlo in modo del tutto dilettantesco, senza alcuna solida base scientifica. Mi piacerebbe praticare anche la tua professione, se fosse solo l’arte di affabulare, una tranquilla messa in scena basata sull’istinto e sul linguaggio.
    Invece mi inquieta un po’ il pensare di vedere il circostante con la tua consapevolezza e la tua capacità di analisi.
    Ma, probabilmente, come tutte le paure anche questa deriva dal non sapere. 🙂

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  4. che meraviglia – una volta di più – cara Costanza!
    “Così come mi piaceva la sua presenza esoterica e misteriosa, quasi iconograficamente volutamente altra, rispetto al mondo attuale: mi capitava di andare a Parigi e camminare con lui vestito in maniera elegante e preziosissima, gli occhiali cerchiati d’oro, i bastoni ricercati, e percepirlo come curioso, misterioso, astruso. Collezionava baffi di gatti, aveva un bellissimo salotto molto francese, pieno di finezze e di riti borghesi, che aveva un suo aggraziato affetto, ancorché molto pudico.”
    sincronicità mancata, ma anche no.
    troppo brava!

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  5. oltre al valore narrativo-evocativo mi piace perché partendo dall’individuale racconta di un’evoluzione storica di un pensiero (nel senso sistematico), un progredire che, se non è necessariamente di tutti/e, è certamente universale.

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  6. Io posso valutare solo l’aspetto narrativo , perché quelli legati alla professione richiedono esserne parte. certo il secondo influenza il primo, perché certe esperienze umane richiedono un lessico diverso se, ad esempio, è una concertista emergente a raccontare l’amicizia (perché di vera amicizia si tratta) con un grande musicista. E forse vale anche in contesti meno elevati dal punto di vista intellettuale , o artistico. Ecco, l’aspetto narrativo riflette – personalissima percezione – un formidabile autocontrollo emotivo ( cifra stilistica?)per ricostruire razionalmente quel tipo di barriere che non possono spiegarsi solo con l’elemento generazionale. Il bello però è che non riesce, perché non vuole, nascondere un rapporto affettivo che probabilmente si è sempre svolto, quello sì, su basi paritarie, perché reciproco. In sostanza, vi siete voluti molto bene. Che in certe persone tale rapporto nasca dall’apprezzamento intellettuale è normale, secondo me, perché la complessità reciproca ha sempre molteplici punti di contatto, ma solo pochi sono quelli giusti. La figura del “maestro” emerge, quindi, come deve essere per i veri maestri, ben oltre la conoscenza da trasmettere e la disponibilità a riceverla. Riconoscerlo è un segno di grande umiltà, così come lo era da parte del maestro aver detto “mi ero sbagliato su di te”: significava, credo, molto di più che ammettere un errore di valutazione.
    Che questo ricordo sia scritto molto bene è stato già detto, non serve ripeterlo.

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  7. Non c’è molto da aggiungere in verità. C’è un discorso su piani diversi che si intrecciano, come sempre quando non si ha paura di descrivere la realtà a più di un livello. C’è il personale, il biografico, lo sceintifico, la storia tua e sua e quella di un pensiero e di altri pensieri. C’è soprattutto ricchiezza di vita oltre a ricchezza professionale. Come dovrebbe essere. Ma la cosa più bella è la collezione di baffi di gatto.

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  8. E’ un ritratto bellissimo e che incuriosisce. Esiste qualche tomo scritto dal tuo maestro adatto anche ai non addetti ai lavori o magari una sua biografia su qualche rivista di settore?

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  9. barbara temo che la lettura delle cose sue sia tutta un po’ ostica ecco. Però per dire – l’opera di Jung per bollati, lo Jung di edizione italiana, è curata da lui. (edizione che è stata per altro, aspramente criticata, ma non so il poveraccio se avrebbe potuto fare diversamente)

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  10. Un post bellissimo, carico

    di affetto, vivido. Bello sapere che si sia ricreduto in tempo e abbia riconosciuto non solo le ambizioni ma anche le tue conquiste.

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