Mattarella presidente

Mattarella presidente mi ricorda gli anni di quando ero bambina e l’Italia era più vecchia che mai, e c’era questo mondo dei grandi che mi pareva già un mondo di morti.
I piedi mi ciondolavano dal divano, mia madre si metteva lo smalto, mio padre si intristiva rapito. La tivvù mi sa che era appena approdata al colore, ma non è che si notasse per davvero.

I politici portavano occhiali grandi e si ficcavano il pollice nell’occhio con pensierosa fatica. Erano tutti maschi. Portavano giacche grigie e si specchiavano ognuno nella onusta mediocrità dell’altro. Sedevano in tribune politiche appannate e oligarchiche, salmodiavano l’agonia di una fatiscente aristocrazia. Erano i notabili di un villaggio di poveri, quelli che sapevano tre parole lunghe e le appuntavano sul bavero della giacca.
Il farmacista il parroco e il becchino.

La vita premeva sugli altri canali della televisione, quando magari proprio in quel momento due americani  slanciati si sarebbero baciati, quattro giovani cretini si sarebbero sfidati su ad azzeccare indovinelli, oppure quel bellissimo telefilm con tanti fratelli, e invece mi toccava stare li a mozzicare fette di pane senza marmellata, a guardare un futuro immoto e pieno di polvere, la prosopopea di un mondo già perduto, il prestigio di un impotente potentato.

Mattarella presidente e non avere nostalgia di quell’Italia e di quegli anni che meno male che ero bambina e il peggio non lo vedevo, meno male che non ero già una donna che lavorava, meno male che il colore delle bandiere era ancora una sorta di ritualistica religiosa e lieve come una festa di Natale.
C’era un odore in quei telegiornali, un afrore di truffa e di immanenza, impercettibile, e incodificabile. L’aroma non riconosciuto di tutto ciò per cui ci saremmo davvero pentiti
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Psichico 14/ Ella, Marilyn e il secondo ciclo di psicoterapia.

Per questo post, vorrei che cominciaste con il guardare attentamente la foto che ho utilizzato come copertina di questo blog. Si tratta di una foto che ritrae Ella Fitzgerald e Marylin Monroe, ed è una foto che amo moltissimo, per la storia che nasconde dietro le spalle e per la simbolica che io ci riconosco riguardo il lavoro della psicoterapia.
Questa foto, è una sinfonia di forze e contrappesi, è l’arte di una diade – così come la sua storia. C’è stato un tempo infatti in cui Marilyn Monroe era molto famosa ed Ella Fitzgerald non lo era affatto. Marilyn poteva tutto ed Ella poteva pochissimo, perché esordiente ad esordiente nera, in anni in cui ai neri certi locali erano preclusi. Marilyn allora, procurò ad Ella un contratto in un prestigioso locale, sfruttando la sua notorietà e promise che se avessero scritturato la cantante che tanto ammirava sarebbe stata nel locale in prima fila tutti i giorni.
Così fece, ed Ella divenne una grande star. Nelle sue intelligenti parole pronunciate nel tempo in cui anche lei era diventata una icona epocale, potete leggere anche una veritiera (per chi la letto certi scritti di Marilyn) descrizione dell’attrice che la riabilita dal cliché dell’oca giuliva, della bionda svampita e presa da se stessa e dalle sue paturnie. Perché Marilyn fece un atto politico generoso e reale, rispondente a una grande apertura mentale, che la poverina – omnia munda mundis – neanche si riconosceva.

Ora, tornate a guardare la foto, e constatate il gioco di equilibri e di forze. C’è una donna bianca e bellissima ed elegantissima, e una nera molto grossa e forse un pochino kitch. Nel momento della foto sono sullo stesso piano, e la foto è piena di un’atmosfera gradevole, una complicità di sintassi, di palcoscenico. Ma la donna nera propone, emana un senso di granitico stare nel mondo. Ha solidi piedi psichici piantati per terra. Canta, conosce il dolore, interpreta il dolore ma è forte nel suo corpo nella sua grassezza, nella sua borghesissima negritudo. La bionda bellissima, la bionda che sarà capace di far vendere un profumo a sett’antanni di distanza, invece anche in questa foto emana un’aria di dolore, un dispiacere, i suoi piedi no, non poggiano benissimo per terra. Nell’ambito dell’interpretazione è costretta a scegliere tra le partiture che evocano le sue corde depressive, e quelle che la inchiodano all’archetipo collettivo.
Pure per la sua cantante nera ha fatto qualcosa di grande.

Una brava cantante, è una buona rappresentazione di un bravo analista. Se ha vissuto tante vite è certamente più capace nell’interpretazione di narrazioni diverse, ma indubbiamente esiste una tecnica dell’interpretazione che prescinde parzialmente dalla possibilità di aver attraversato tutte le esperienze evocate. Tuttavia, grande è il numero delle esperienze emotive, forte è la capacità di avventurarsi in storie che non si sono conosciute. Ugualmente, come per la maggior parte degli scrittori, esistono delle zone di confine le quali non necessariamente combaciano con l’integrità della propria vicenda storica, certe situazioni certe sofferenze per esempio riescono a essere meglio lette e colte di altre perché incarnano il destino di una parte psichica dell’analista, una sua area distinta, e allora come Flaubert ha reso al massimo grado scrivendo di una signora sognatrice che rincorre un desiderio mettendo in scacco la vita materiale, una analista donna può cogliere meglio le vicissitudini umane di un paziente maschio e omosessuale. Certo è io credo, che maggiore è la bravura del clinico più è ampia la corolla psichica delle esperienze pensabili, tangibili psichicamente, a cui arrivi anche con le sue evocazioni parzialmente consce – ma siccome, concretamente ed epistemologicamente l’analista non è Dio, non riuscirà ad esserci sempre nello stesso modo, anche per gli strumenti preferenziali che adotta in virtù della sua equazione personale, il che può voler dire che usa certi meccanismi di difesa più di altri, o che per dirla con Jung che è un certo tipo psicologico piuttosto che un altro. Anche qui, più è bravo l’analista più sposta le mani con agilità sul pianoforte della sua strumentazione clinica, tuttavia, intensive ed extensive non combaciano mai.
A ciò si deve aggiungere la consapevolezza del fatto che, una diade è composta da due persone, e l’altro è una sorta di oggetto chimico che contribuisce al colore ultimo della relazione. Lo stesso clinico, che dice la stessa battuta a due persone avvierà un domino in una direzione diversa. Guardate un attimo Ella mentre parla con Marilyn Monroe, e pensate ora la stessa Ella con lo stesso vestito e lo stesso gesto che parla con un Louis Armstrong, o un Bill Evans. Significanze diverse, che avranno esiti diversi anche nella prossemica tra i due.

Questa lunga riflessione può servire molto a capire la questione della seconda terapia, la cui necessità può verificarsi in tre casi: il primo in cui il paziente interrompe il percorso anzitempo, per una decisione unilaterale, rapito da una coazione a ripetere per esempio, o irretito dalle proprie resistenze – si arriva a un punto di funzionamento della terapia, e il paziente scappa. Alle volte nella genuina convinzione di aver raggiunto gli obbiettivi desiderati. Spesso la frattura di quella terapia è la prova del suo funzionamento ma non in virtù del presunto successo ottenuto, che ahimè di solito è piuttosto superficiale, ma proprio in virtù dell’angoscia suscitata. Non è raro allora il caso in cui dopo un più o meno lungo periodo di benessere, anche diciamo di qualche anno, gli stessi sintomi si presentino come prima, o lievemente modificati. In quel caso, io penso che possa essere saggio ritornare dall’analista con cui si era interrotto un dialogo la cui crisi era la prova della sua funzionalità e ricchezza. Una cosa che per esempio capita frequentemente è che un paziente abbia una serie di problemi piuttosto complicati, che lo tengono lontano dalle relazioni amorose. Poi a seguito di una terapia che funziona riesce ad avere una relazione, il che però non vuol dire che tutto il casino a monte sia risolto. Ma il paziente è felice è contento, ha la sensazione che tutto a posto e chiude la terapia.
Un secondo caso, è quello in cui la terapia non funziona – perché esistono i cattivi cantanti, almeno secondo me – ma anche pazienti che sono delicati e difficili e magari non ci vuole il migliore del mondo ma quello che ha quella particolare vocazione, quella particolare struttura. La terapia allora si rompe, perché il paziente e qualche volta il terapeuta sentono un girare a vuoto, un non concludere e il paziente chiude.
Un terzo caso, è quello in cui la terapia invece, fa il suo dovere. Il paziente si fa tutto il ciclo, e ne guadagna un cospicuo miglioramento. In qualche caso, queste terapie fanno fatica a finire e paziente e terapeuta continuano a vedersi, contenendosi e consolandosi a vicenda, ma ripetendo un concerto da camera che è diventato un caldo e stereotipico salmodiare. Rimane il fatto che la terapia ha fatto il suo lavoro, e la persona sta davvero meglio rispetto a prima. L’ideale è una terapia che si chiude al concludersi di un percorso che pare un incrocio tra una sinusoidale e una parabola, e la fine, almeno per noi analisti, si vede oltre che nella recessione dei sintomi, nelle immagini dei sogni.
Può succedere però che una certa prova esistenziale porti a galla nodi irrisolti, che la precedente analisi è riuscita a sbrogliare solo in parte. E questo è umano e possibile, e quasi ovvio, se consideriamo il discorso dell’inizio del post il quale cercava di dimostrare come il principale strumento di un analista sia stesso, la sua identità la sua morfologia e certo la sua sintassi pragmatica. Può accadere che un primo ciclo con un cognitivista abbia portato a grandi risultati, ma che ci si possa giovare dopo un po’ di tempo di una psicoanalista. Si può andare da una psicoanalista donna – molto materna accogliente ed emotiva, che ti regala il tuo senso di diritto di stare al mondo – e poi permettersi il lusso di far un secondo ciclo con un’analista sempre donna, o uomo, che invece sia tarato su una maggiore freddezza, una maggiore funzione contenitiva paterna e superegoica, che usi meccanismi di difesa e strategie comunicative più cerebrali e razionali. Può accadere, che dopo aver risolto dei problemi gravi e radicali che stavano mettendo a rischio la tua vita stessa ora hai dei problemi dolorosi ma ragionevoli. E’ giusto allora non tornare nella vecchia terapia e tentarne una nuova.

Infine – molta molta attenzione nel giudicare le persone o giudicare i se stessi che, sono sempre nella stanza di qualcuno. Cambiare spesso terapeuta e una cosa che fa male, e che fanno le persone che hanno più difficoltà. E’ facile incontrare un incompetente, ma se gli incompetenti sono tanti forse il problema è nel tenere la relazione, piuttosto che l’oggetto della relazione. Ma è un problema dolorosissimo acui bisogna devolvere grande rispetto. Così come se ci sono persone che stanno in analisi una vita intera, cambiando, ma in qualche caso non cambiando. Queste persone spesso e volentieri non sono pigre, non sono poco volenterose, queste persone hanno davvero bisogno, e fanno benissimo a fare così perché hanno come dire una difficoltà profonda a manipolarsi da soli, e a contenersi e sanno che se mollano non ce la faranno più. Certi pazienti, mi disse Luigi Aurigemma, li devi tenere per mano tutta la vita.
Se mollano una mano e poco dopo ne cercano un’altra – hanno le loro buone ragioni.

Gaza e il tradimento delle nostre icone.

(questo post è stato scritto nel novembre del 2012. siccome me lo chiedono un po’ di persone lo riposto oggi)

In questi giorni in cui l’opinione pubblica è tornata a seguire le vicende di Gaza, un antico tormentone – è tornato alla ribalta. Esso conosce diverse possibili varianti – ma sostanzialmente recita: non capisco come mai un popolo che ha tanto patito e tanto sofferto, ora proprio quel popolo da vittima si trasforma in carnefice. La variabile meno affettuosa è: io trovo che gli israeliani si comportino come i nazisti. E’ un fenomeno interessante, e trovo che parlarne sia una cosa utile. Non apprezzo affatto, e l’ho detto più volte, il voyeuristico interessamento che l’Italia ha nelle vicende israeliane, ma possiamo anche tranquillizzarci sul fatto che esso non ha il minimo effetto: ossia l’opinione pubblica italiana e occidentale incide a un livello pari allo zero nella percezione delle parti in conflitto: suscita al massimo un blando interesse nei più colti, ma non credo si vada oltre. Allo stesso tempo, questa accesa discussione, questa tifoseria calcistica sui corpi stecchiti, mi prenderete per cinica, potrebbe essere una buona palestra per riflettere sui nostri modi di pensare politicamente o meno, per i nostri modi di approcciare le cose – giacché il manicheismo è un tipo di atteggiamento che se si riserva ad un contesto – si riserva anche altrove.

Non tutto è antisemitismo, bisogna chiarire questa cosa, e prendere posizione è anche una scelta naturale e spontanea che anche ai migliori capita di fare – in fondo, ha il merito di dimostrare un interessamento alle cose che non riguardano immediatamente la quotidianità – è il sintomo di un pensare politico che non si tira indietro. Non è che se uno perciò condanna la politica di Israele è tout court antisemita – ma ,come disse Gad Lerner in una vecchia puntata dell’Infedele, il richiamo al Nazismo è una specie di scorciatoia emotiva più che intellettuale, un colpo scorretto per cui si decide di toccare l’avversario dialettico nel suo punto critico, non tanto per correttezza di inferenza quanto per qualcosa di più viscerale, che vuole azzittire l’avversario con i suoi nodi personali. Quando sento il richiamo al Nazismo nella questione di Gaza, aldilà del qualunquismo che dimostra un paragone storicamente improprio, io sento che si presenta il conto della fatica psicologica che ha per i non ebrei l’elaborazione dell’Olocausto, una sorta di colpevolizzazione per aver costretto tutti quanti a prendere atto di quello che era stata la Shoah: nell’impossibilità di negarla da parte dei più onesti, nell’impossibilità di poter ridurre a qualcosa un esperienza che arriva a essere innominabile, rimane questa fatica dolorosa che non sembra aver riscatto. Non è solo perciò per l’antipatia che le persone di destra nutrono verso il mondo arabo, che questo tipo di comparazione alligna molto di meno sui loro portali e giornali: digerire la connivenza esplicita con una colpa, l’obbligo a farlo è stato quanto meno liberatorio, rispetto all’esperienza di coloro i quali si trovano a dover elaborare una colpa storica di cui non sentono di avere colpa.
Forse allora, è bene prendere sul serio questa frase – non capisco perché un popolo che ha tanto subito oggi da vittima si trasformi in carnefice – e interloquirci seriamente, anziché gridare all’anatema come a me, è più volte capitato di fare. Perché si dice questa cosa? Cosa si cela dietro di essa?

Lasciamo da parte l’esame della situazione concreta. Per quanto mi riguarda – esattamente come contesterei aspramente l’arrivo di una destra fascista in Italia benché possa capire le cause politiche del suo arrivo – io non faccio fatica a pensare quanto di peggio ci sia a disposizione sull’attuale governo in carica in Israele. Non considero le decisioni di Nethaniau difendibili, non tanto nella reazione al conflitto in atto – perché la guerra è guerra – quanto per aver collaborato attivamente al peggioramento delle cose. Anche se, sono tristemente convinta che un governo moderato o più vicino al mio desiderio di mediazione e convivenza civile, avrebbe sortito effetti pressoché analoghi.
Piuttosto mi interessa constatare che, quando si dice: “possibile che chi è stato vittima ora diventi carnefice” non si sottolinea la derivazione per lo più capitalistica europea e occidentale, degli israeliani, ma la loro natura di essere ebrei. Sono ebrei prima di tutto, sono ebrei prima di essere europei. I loro errori e le loro cattiverie sono perpetuate in quanto ebrei non in quanto occidentali. E a nulla valgono i paragoni di comportamenti davvero immorali di altri occidentali nelle diverse occasioni di colonialismo. Essi sbagliano come ebrei.

In questa scandalizzata perorazione, precipitano diverse cose, che confluiscono in una apprezzata mescolanza. Prima di tutto, c’è la segreta e talora sinistra convinzione che gli ebrei sono migliori di altri, un traguardo che l’Olocausto dovrebbe aver contribuito a raggiungere, ancora più fortemente. Sono sempre stati, dice il clichet talora segretamente antisemita talora semplicemente problematico al livello psicologico, più intelligenti, più colti, più razionali di noi. Con l’Olocausto diventano quelli che sono più consapevoli di noi del dolore, coloro i quali insegnano un’esperienza indicibile. Sono quelli che vengono nelle scuole dei nostri bambini, i vecchi venerabili col tatuaggio sul braccio a raccontare quello che altri non possono inventare. Non possono quindi tradirci, perché sono la nostra occasione di catarsi. Sono state le nostre vittime e ora devono diventare i nostri eroi. Essi devono abitare la categoria del simbolo. Per questo non possiamo concepire ora gli Israeliani come occidentali, gente come noi, non possiamo pensare alla questione israeliana come una grana che riguarda l’Europa, perché si perderebbe la valenza mitica che ha l’ebreo meraviglioso e saggio che imperversa nelle pagine culturali del manifesto, lo stesso che poi è stato sostanzialmente discriminato nelle pagine di politica estera.

Se si riconducessero gli ebrei israeliani alla normalità dell’umanità, se si riconoscesse Israele come una terra dove sono andati degli occidentali, uomini e donne come concretamente sono gli uomini e le donne – una volta che si ripensasse alla Shoah, non si approderebbe a una così ingenua considerazione. Pensate all’attrito che fa questo stereotipo sugli ebrei – ma come da vittime ora si fanno carnefici – a quello molto più diffuso e ancora più amato a sinistra: le colpe dei padri ricadono sulle spalle dei figli, e che alligna ogni due per tre nella psicologia popolare: quando si sente dire – certo se quello è pedofilo, sicuramente anche lui da piccolo ha subito qualche cosa. E’ diventata una semplificazione amatissima questa da quando Freud ha fatto i suoi studi sul trauma, per cui chi ha subito un trauma tende a riperpetrarlo. Ma con gli ebrei non si applicano queste categorie.

Sono categorie, e quindi di per se, per la loro generalità pur sempre piuttosto inutili, le persone sono varie e complicate e quando gli ebrei subirono la persecuzione razziale e l’internamento dei campi vi arrivarono con storie diverse, e ne uscirono diversamente segnati. C’erano ebrei ricchi, ebrei poveri ebrei che avevano un padre che li picchiava, ebrei che avevano una famiglia amorevole, ebrei adulti ed ebrei bambini. C’erano ebrei che trovarono una soluzione sopportabile nei lager, altri che sono stati esposti a traumi irripetibili. Storie psichiche diverse attraversarono un trauma che si articolò in maniera differenziata. Ma la razionalizzazione e l’intellettualizzazione – le difese psicologiche più mature che permettono di fare qualcosa con un vissuto al punto di poterlo trasformare, sono state un lusso che Dio ha concesso a pochi fortunati. Quelli con più risorse psicologiche prima ancora che relazionali. Perché gli ebrei sono umani, e non sono migliori degli altri – e quando la loro psiche viene rotta, si rompe come gli altri.

Si rompe, e spesso i sintomi si trasmettono intergenerazionalmente, quando il trauma non riesce a essere elaborato. I figli degli ebrei che videro l’Olocausto o che lo riuscirono a schivare – sono quelli che si trovano ad agire psicologicamente parti scisse dei propri genitori che non sono riusciti a evadere. Queste parti scisse, non sono il buon cuore, il pensiero all’altro, il sentimento umanitario, queste parti scisse sono aree di rabbia terribile, aree di aggressività introiettate, e che non di rado fanno cortocircuito con una ribellione verso quel padre che ora appare una vittima imbelle, sacro per quell’esperienza e quindi odiosamente inattaccabile. Non a caso,  per un certo periodo ebbero successo presso gli adolescenti israeliani gli Stalag, atroci fumetti pornografici dove i soldati israeliani vessano e stuprano donne naziste. Il meccanismo di difesa che scoprì Anna Freud, e che si chiama identificazione con l’aggressore, si trasmetteva cioè per le vie segrete dell’intergenerazionalità, sobillato dalle difficoltà della situazione politica contingente, che offriva un’occasione per elicitarsi.

Quando gli ebrei arrivarono in Israele, scaricato dall’Europa colpevole, erano dunque quelli poveri, straccioni, vittime e perdenti, inefficaci politicamente, imbelli e fallimentari. Amos Oz spiega molto bene, e dalle nostre parti anche Piperno, quale vergogna fosse per una famiglia avere un reduce da un lager a casa. La generazione successiva è quella che ha cercato un riscatto, e che quando il mondo arabo ha cominciato a dimostrare di non voler ingoiare – sempre per ricordare Oz – quello che l’Europa aveva vomitato, ha trovato una collusione inconscia con i fantasmi intergenerazionali e una efficace rivalsa storica: doveva essere un popolo di intellettuali, ma la storia politica e la storia psichica li ha resi un popolo di militari.
E’ una storia che riguarda solo gli ebrei? E’ una storia che riguarda gli uomini? O è una storia che riguarda l’Europa?

Danke

(Era una donna alta, con occhi grandi e azzurri, e l’aggraziata malagrazia delle donne teutoniche: ossa grandi e braccia lunghe, mani forti di smalto rosso acceso. Donne che rincorrono la femminilità inforcando la bicicletta, ridono come camionisti, tengono famiglia e si stringono alla loro buffa civetteria di valchirie, la giacchina avvitata con il collo di pelliccia – e anche i polsini – leopardati.
Era la mia insegnante in Germania, e la guardavo con la tenerezza supponente che solo una donna italiana puà provare davanti a certi esotici quanto maldestri tentativi di buon gusto.

Aveva forse una cinquantina d’anni, o qualcosa di meno. Emanava il senso di levità che hanno certe donne felici, semplici secondo certi. Le si indovinava un marito, dei figli, chi sa magari un amante, una assidua frequentazione di palestre e cyclette, gite settimanali dal parrucchiere- portava i capelli corti con i colpi di sole, e li aggiustava sempre con un gesto vezzoso.
Aveva poche pretese e un generoso amore per le canzonette. Una donna piacevole, che sapeva stare nel mondo.

E il tuo nome da dove viene? Chiese il primo giorno di lezione.
Dissi che la mia famiglia proveniva dalla Spagna.

Quella volta, il primo giorno di lezione, accolse la notizia con un sorriso ospitale forse lievemente formale, che successivamente, ripensandoci non mi parve in niente diverso da quello riservato agli altri – davvero Malik vieni dal Senegal? Come mai sei qui? o, Cyrille francese… ma di che città? Niente che esulasse dalla prassi della brava insegnate, che oltre alla spiegazione della grammatica deve fare un pochino da ambasciatrice, l’avamposto della cultura di approdo, quasi una seconda dogana.
Cominciai allora il mio corso, un corso normale e piacevole senza che tra me e la mia insegnante nascesse una particolare amicizia o sintonia.

Solo una volta, alla fine della lezione mi chiamò in disparte – quando gli altri se ne erano andati.
Si fermò appena fuori la porta dell’aula e frugando con le manone smaltate in un’incongrua borsa zebrata, tirò fuori un piccolo ritaglio di giornale. Aveva gli occhi un po’ lucidi e sorrideva imbarazzata. Senti, mi disse, parlando piano e scandita per essere capita – io lo so che non ne hai bisogno, lo so che non devi imparare niente. Ma danno questo film nella sala comunale, e dopo c’è un dibattito. Forse ti può interessare.
Non disse altro e salutò poi come riarrampicandosi velocemente nel suo ruolo, forse pensando qualcosa come, ecco ho fatto una cosa giusta.
Le ricordo addosso un senso di sollievo, di soddisfazione.

Il film era Comedian Harmonist, e il dibattito era sulla Germania e i suoi ebrei. Fu un modo per dirmi che potevo parlare tranquillamente, che potevo sentirmi al sicuro, che loro erano cambiati, che ancora si discuteva. Non me lo disse perché ci andassi, me lo disse quasi con un sottile messaggio contrario – qui ora, sai che siamo così, puoi non averne bisogno.
Per il modo, per tutte le cose non dette, fu un gesto dei più intelligenti e delicati che abbia mai incontrato)
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La passione è un diritto

 

Queste suorine alla deriva della vita, che approdano negli ospedali come portate dal mare, deposte sul bagnasciuga davanti a una spiaggia confusa e intollerante, i medici col camice bianco, i pazienti intrisi di colore e di cinismo, gli alti lai di chi è vecchio alla vita. Il volto incorniciato in una sospensione di tela e quella recita di aria innocente, ignorante, nata da poco, accompagnate da sorelle di sventura e protezione. Ho mal di pancia dicono.
E fanno un bambino.

E intorno alle suorine che fanno un bambino, tutto uno starnazzar di complessi di superiorità, tutto un frinire di saputi del mondo, ridere della presunta ignoranza, ridere dell’impavida ipocrisia, rivalersi sull’anello più debole della catena più forte. L’immacolata concezione, la vergine delle rocce, il ritorno dell’arcangelo Gabriele.
Che grandi e piacevoli risate! Che sottili e agili sentenze – noantri che ce ne stiamo qua sulla spiaggia a giudicare, colle gambe libere  stese sul mare.

Ma forse, queste donne che dolgono e recitano un’aria smarrita, hanno rughe di una vita nascosta che sfugge. Alcune rapite di una vocazione a noi preclusa, altre scappate dai morsi della fame, certe consegnate da un padre troppo pigro per amarle, certe come setacciate nel deserto, come raccolte a casaccio in un prato, si sono poi trovate un uomo tra le gambe, che tanto spesso non ha chiesto il permesso, che ha fatto il suo comodo il tempo di un lampo e di un abuso, la golosità di una profanazione, come il sorso di qualcosa di cui non si sente il sapore.
Altre io spero sempre che abbiano amato. Che la carne abbia regalato una vita di riserva negli interstizi del convento. Sogno per loro una malizia di ritorno, un erotismo di emergenza, un refolo di vento e nelle segrete dell’orto.
Sogno la carta che ribalta il gioco. 

Certe questi bambini che fanno con una finta sorpresa, causata da una indegna necessità, che fa sentire tutti più intelligenti e qualcuno molto disperato, li abbandonano. Non torneranno in convento, ma non saranno madri e chi sa quanto saranno donne. Certe vincono una vita di riserva, si tolgono l’abito tra mille tentennamenti e mille esitazioni, lo piegano con cura, stringono il crocifisso e vanno nel mondo. Una mi ricordo, il bambino lo riprese.

Credo che dovremmo stare a sentire.

(Per es. questo)

psichico 13/sulla diversità ontologica dei bambini

L’essere prossimi a un bambino dovrebbe far sorgere nell’immediato una domanda che suona grosso modo così: questo ente, che al tutto pare simile a noi, negli aspetti in cui invece differisce, differisce extensive o intensive? Ossia quantitativamente o qualitativamente? Perché quantitativamente è facile: dal punto di vista spaziale un bambino occupa molto meno spazio di un adulto. qualitativamente però pure dovrebbe essere abbastanza facile, perché spesso noi parliamo e il bambino non capisce una cippa – avendo egli tutto piccolo e non compiuto funziona cioè con un’economia diversa. Però a molte persone questo aspetto sfugge, e quando questo aspetto qualitativo salta loro agli occhi, essi sono come imbizzarriti e delusi dal confronto con la piccolezza allotria – si arrabbiano e sono frustrati. Questa cosa capita molto spesso non solo alle personalità pedofobiche – quelli che detestano i bambini – ma anche a certi adulti che si sono scordati dei loro figli piccoli, oppure ne hanno subappaltato la crescita a terzi. Ma capita anche ai novelli genitorelli, pore stelle, che si trovino a confrontarsi con la prole. In particolare noto, capita soprattutto – per motivi socioantropologici che non staremo a indagare – ai novelli papà.
Allora ho pensato che un bel post psico cazzarellista sulla differenza qualitativa dei bambini può essere utile.

Noi, non raccogliamo solo le cose della vita, ma anche il modo di usarle, quindi noi diciamo con l’esperienza dobbiamo raccogliere anche l’esperire stesso. Non solo cioè il sapore della pastasciutta ecco, ma anche il modo di tenere la forchetta. Noi nasciamo senza sapere una cippa di niente capito come, e ad arrivare a sapere tutte le cose che sa un adulto, e ribadisco il primo di questi saperi riguarda il saper pensare in tante circostanze, ci vogliono tanti anni. Nei primi anni di questo apprendistato i sentimenti e cervello della creatura hanno parti subappaltate ai genitori. Con i neonati la questione è anche facile da intuire: il neonato sa fare due cose, tipo piangere e non piangere ma il perché e il percome dello scontento i modi per risolverlo sono appannaggio della mente vicaria di chi si occupa di lui. Quindi per esempio boni due anni se ne vanno ad apprendere alcune cose base tipo: ci ho sonno, oltre che piangere che posso fare? Ci ho fame come posso indirizzare questo genitore a darmi del latte anziché cambiarmi il pannolino? Vorrei giocare con qualcuno che mi fa delle smorfie, e invece sto qui a fracassarmi i maroni, che alternative ho? Prima che questi comportamenti diversificati siano appresi grazie all’aiuto della mente vicaria, della reverie e di tutte le belle cose di winnicottiana memoria, i bambini stanno nell’indefferenziato piangimento e tocca stacce. Hanno solo quello e quindi piangono frequentemente. Scandalizzarsi per questo fatto, oltre che per la non immediata quanto naturalmente difficoltosa sintonizzazione di un genitore, è da cretini.

Superata questa fase, e magari raggiunta la facilitante sponda del linguaggio, i bambini non si trasformano illico et immediater in impiegati del catasto di 52 anni, e proprio biologicamente ci hanno un sistema nervoso non completato come il nostro, e molte funzioni psichiche sono in via di strutturazione. La zuppa dell’inconscio è molto più vasta e pervasiva rispetto a un Io piccino picciò che va strutturandosi, e il superio è una sorta di colabrodo a buchi molto larghi. Questa differenza strutturale piuttosto importante che si ridurrà solo alla soglia dei sette anni, genera grandissimi fraintendimenti ed è qui che si fanno la maggior parte degli errori sottovalutando queste macroscopiche differenze strutturali. Una simile organizzazione psichica infatti, rende gajardissimi in certe attività per esempio nella manipolazione simbolica, nel gioco e nell’invenzione, ma scarsissimi in certe altre questioni che prevedono una dimestichezza con il razionale con l’organizzazione causale dei processi logici che ai bambini sfugge. Infine siccome il superio è in fase di costruzione anche agire in vista del proprio bene, impedendosi di fare delle cose, è impossibile per il bambino: non ha esperienza ma non ha neanche funzione psicologica adatta ad utilizzarla, quindi può farsi male. Il che vuol dire che: di fantastico ce n’è per tutti ma di razionale e morale ci devono pensare gli adulti.

Il primo degli errori che si fanno in questa direzione riguarda la negazione del mondo fantastico – il quale per altro più è ricco nei primi anni di vita più rappresenterà una risorsa utile negli anni della vita adulta. Abbattere tutte le credenze infantili con la logica implacabile produrrà un figlietto che aderisce in maniera diligente ai discorsi fatti senza capirci veramente niente, ma ritrovandosi poi da grande impoverito nella sua saccoccia simbolica. Per capire quanto sia prioritario l’immaginifico e il simbolico rispetto a noantri, è utile sapere per esempio che i bambini sognano – per motivi neurofisiologici – molto meno degli adulti: arrivano alla nostra strutturazione e frequenza onirica intorno ai dieci anni – e che certi test molto utili (tipo “disegna la tua famiglia”) si possono fare solo fino a sette anni, perché fino a quell’età il mondo emotivo e fantastico è mischiato al reale e non scisso, e se i bambini vedono il papà come un leone faranno un leone dicendo che è proprio così, dopo lo faranno più somigliante possibile al reale. Questo nel dettaglio vuol dire: non ha senso dire ai bambini che Babbo Natale non esiste, che una certa favola è illogica, che il drago del lago è un prodotto popolare, che le lucciole non portano i soldi. Non state parlando con Mancuso, state parlando con un bambino. Il bambino che a 5 anni mostra di aderire alla logica degli adulti in linea di massima, finge, sa che deve farli contenti, si adultizza a scopo pavone, ma non capirà proprio per bene. Spesso nell’intimo invece sarà fondamentalmente deluso, sarà triste perché quella favola fantastica è finita – e ora tocca inventarsene un’ altra. Auspicabilmente.

Il secondo riguarda la questione del superio e fa fare, spesso ai papà errori madornali. Il superio, quella cosa che ci serve per arginare i nostri desideri a scopo protettivo nostro e degli altri, è il grande implicito della distrazione adulta. E di certo comportamenti curiosi che ogni tanto capita di osservare. L’interiorizzazione di un precetto, alle volte è più facile per un gatto che per una creatura di due anni, la quale sta anche combattendo con l’esplorazione delle sue ambizioni, e non gli viene facile abdicare per qualcosa che neanche intuisce, e che non può capire bene. Questa faccenda è anche ostacolata dallo stato dell’arte delle strutture logiche, che per l’appunto non essendo fatte e finite, non funzionano come per noi. Quindi non solo è pericoloso aspettarsi che un bambino piccolo si fermi da solo, non solo è cretino arrabbiarsi perché una madre sta sempre appresso a un potenziale piccolo suicida, ma anche dire a una creatura di anni 4 cose come “non pensi sia il caso di smettere di mangiare dolci?” è piuttosto scemo, perché no lui non lo pensa, no mangerebbe dolci fino a scoppiare che me la stai a tirà uffa?

Infine, cosa particolarmente responsabilizzante, e che quindi procura anche un certo che de angoscia, siccome questi enti che si chiamano bambini non hanno questa grande dimestichezza con la logica degli adulti e sono quindi fragili in un mondo che funziona con quella logica, e interpretabile solo con quella logica, la natura li ha programmati perché pendessero dalle loro labbra degli adulti, e in assenza di deduzioni cartesiane in merito alla costruzione sillogistica del pensiero, per decodificare gli adulti ne utilizzano emozioni e sentimenti, che leggono con una velocità impressionante.. Quindi se un bambino fa una cosa pericolosa non ha senso argomentare, ma bisogna incavolarsi. L’argomentazione avverrà quando sarà richiesta – come conseguenza della necessaria comprensione dell’incazzatura, qualche anno dopo. E anche quando sarà richiesta sarà opportuno essere un tantino incazzatelli mentre si spiega che no le forcine nella presa non si devono mettere. Ugualmente, se vogliamo che un bambino non abbia paura, dobbiamo farci vedere allegretti e sorridenti, che se batti invece i denti, a voja a pippe, quello non ti crede. Questo passaggio secondo me è molto importante e delicato e merita l’assenza di ironia, perché mentre non rispettare il fantastico vuol dire fare un adulto povero di creatività e un po’ noioso, allagare un bambino di sentimenti negativi, deresponsabilizzarsi rispetto al suo codice emotivo facendo finta che sia un adulto, quindi esponendolo a traumi – far vedere a un bambino genitori che urlano, mostrare a un bambino emozioni rifiutanti – per me rientra nella categoria dell’abuso e porta a conseguenze più importanti, su cui non il caso di ridere tanto su.

In sintesi per esprimerci grossolanamente, possiamo dire che l’infanzia è quella beata landa psichica dove fantastico e reale sono indifferenziati, simbolico e concreto sono sovraaposti. E’ la landa dove non si sogna ma si gioca, e dove è quasi impossibile capire certe definizioni astratte. Crescere vorrà dire far divorziare questi due lati, e sostanzialmente strutturare l’inconscio versus la coscienza. Prima di questo divorzio i bambini hanno un bisogno esagerato degli adulti che travalica la concretezza, e che si appiglia al linguaggio emotivo. Questa cosa, è importante anche per i contesti processuali, e per tutte le occasioni in cui abbiate bisogno di appurare di cosa un bambino sia stato testimone. Prima del divorzio tra mondo interno ed esterno, tra reale e simbolico, oggettivo e soggettivo il bambino non può capire cosa voglia dire l’aggettivo “vero”, può capire però che cosa sia importante ascoltare come vero per l’interlocutore. Se si trascura questa cosa nel modo in cui si pongono le domande si può mandare in vacca tranquillamente un processo (io ne ho in mente uno che non voglio citare per non insozzare la leggerezza del post) o più modestamente credere di avere le prove di qualcosa che compiace il nostro desidero quando in realtà siamo davvero solamente cornuti e mazziati.

E niente, doveva essere un post cazzarellista, e invece si è decazzarellistizzato in itinere. Buona giornata comunque.

 

Psichico 12/omosessualità, teorie riparative, terrori epistemologici

Dunque, qualche tempo fa vedevo a cena dei colleghi, e si chiacchierava insieme sulla spinosa questione omosessuale rispetto alla teoria psicoanalitica. I miei colleghi erano molto colpiti dall’eziologia psicodinamica che un vecchio didatta aveva fornito dell’orientamento omosessuale. Brevemente, il didatta aveva infatti fatto riferimento a la teoria evolutiva di marca freudiana o postfreudiana, per cui: il figlio viene seguito prima dalla madre e poi dal padre, e il suo orientamento di genere si fissa nel momento in cui abbandona l’identificazione con la madre si identifica con il padre e la madre diviene oggetto del desiderio, mentre per la figlia suppergiù arriverebbe allo stesso periodo la disidentificazione parziale con la madre, e la scoperta del padre come oggetto del desiderio. Questo tipo di teoria evolutiva ha per i clinici spiegato da una parte la scelta dell’orientamento omosessuale come mancata identificazione con il genitore parisesso, e contemporaneamente spiegato la diversa distribuzione nella scelta omosessuale per cui, vi sarebbero molti più omosessuali uomini di omosessuali donne – le quali essendo nate e allattate dalla madre, conserverebbero una quota di ambivalenza tutta la vita.
Ci sono molti validi motivi per sostenere che la teoria faccia acqua, il primo dei quali è il riferimento a una organizzazione sesso genere nella compagine familiare diversa da quella che si da in realtà, e che la realtà ha sempre sfidato. Quanti sono i gli eterosessuali che non hanno conosciuto un padre e sono cresciuti in famiglie di sole donne? Non si contano – sono un’enormità. Quest’enormità da sola suggerisce di ridimensionare il peso dell’intervento del padre per esempio nell’organizzazione dell’identità di genere dei maschi. In secondo luogo, non è poi statisticamente provato che le persone omosessuali abbiano avuto un’infanzia deprivata tale per cui l’identificazione con il padre sia completamente preclusa. Quindi, i miei colleghi avevano ben donde di che essere perplessi di fronte al vecchio didatta.
La teoria del didatta, spesso si è infatti accompagnata, anche se non nel suo caso, a una logica discriminatoria, e ad una sintassi normativa. Uno dei miei amici infatti argomentava che, se si sostiene questo, si stabilisce che l’origine dell’omosessualità è in un comportamento deficitario della coppia genitoriale, e l’omosessualità è di nuovo ascrivibile all’elenco delle patologie. Questo è in effetti grosso modo l’orizzonte di senso delle teorie riparative.

Le quali di solito sono portate avanti, da presunti colleghi di epistemologia povera e deontologia discutibile – come vedremo dopo. Ma l’essere affiancati a questi presunti colleghi oggi impedisce di ragionare in buona parte degli istituti di formazione, più che mai nelle università, sul comportamento omosessuale, e sulla sua origine, perché si sente nella scelta stessa della ricerca la spada di Damocle dell’effrazione morale. La psicodinamica sta sempre infatti seduta nella complicata posizione di chi è il più progressista dei reazionari, per sua costituzione biologica: essa infatti trae inferenze in base a rapporti di maggioranza: che che se ne dica, non può mai assumere posizioni che siano eccessivamente innovative: le posizioni eccessivamente innovative riguardano infatti comportamenti sociali e affettivi che non è dato dimostrare con fenomeni le cui ricorrenze siano sufficientemente valide. Ugualmente, si creano comunque dei cortocircuiti, delle reazioni chimiche con i cambiamenti ideologici della cultura in cui si è calati, i quali avvengono per un’altra interessante fisiologica necessità prima che certi fenomeni diventino molto diffusi. Il pensiero progressista non è infatti quello che riconosce come normale un fatto normale e diffuso – il fenomeno che la psicometria può studiare – ma che sa riconosce come normale ciò che prima è minoritario, e e quindi si industria a preparare il terreno per la sua normalizzazione. La ricerca psicologica quindi, sente l’imperativo etico dell’apertura alla variazione, ma si sente sempre in colpa per non poterlo del tutto soddisfare.. Qualche volta si cimenta nella sfida scientifica che il cambiamento ideologico suggerisce in via di preparazione, qualche volta invece nevroticamente si arrrocca su posizioni che sono surclassate dalla storia concreta.

Nella discussione con i miei colleghi, mi rendevo conto che io non ero certissima di voler buttare al secchio la teoria classica in psicologia evolutiva, ma soprattutto che c’è un problema nello statuto della terapia psicoanalitica una specie di contraddizione di fondo di ordine filosofico, che è l’esito di paradigmi diversi che si scontrano nel concetto di cura. Perché per esempio, conosco omosessuali, felicemente omosessuali e felicemente accoppiati da molto tempo che hanno beneficiato di una teoria psicoanalitica freudiana iperortodossa, che hanno trovato nella narrazione dell’identità preclusa una narrazione che a loro si confaceva, senza che ciò implicasse un giudizio di valore, o una patologizzazione delle loro scelte esistenziali successive: e anche io devo dire, non di rado ragiono con i miei pazienti omosessuali sulla loro storia privata con l’assunto di fondo che il prosieguo della storia personale non è patologico perché ha a che fare con la scelta omosessuale.
Credo che qui stia la profonda differenza tra teoria riparativa e approccio psicoanalitico: nel decidere cioè che nella stragrande maggioranza dei casi dei pazienti che si dichiarano omosessuali il sintomo sta nella qualità delle relazioni omosessuali o meno che vivono, piuttosto che nel fatto stesso che siano omosessuali: la questione può essere più la capacità di tenere in piedi una relazione per più di due mesi con una persona che si ama, piuttosto che il sesso della persona che si ama, e nel dialogo con il paziente può rientrare anchel ’elaborazione di una esperienza devastante e negativa con la figura parterna, con la storia della sua vita relazionale, senza che ciò implichi una patologizzazione delle sue scelte.
Non credo naturalmente che questa sia l’unica possibilità, non credo che il modello evolutivo classico renda conto di tutti gli itinerari psichici individuali, ma non mi sento di rigettarlo completamente fuori dalla finestra. Sogno una psicoanalisi dove convivano diverse epistemologie cliniche – questa è ancora applicabile a diverse narrazioni soggettive.

Io credo che le teorie riparative mettano in atto una sorta di acting aut, ossia applichino una difesa profondamente immatura a uno stato psicologico di scomodità che è l’osservazione di qualcosa che non ha ancora posto, che è destabilizzante come Altro da se, come mossa individuale anarchica che spariglia un ordine noto. Le teorie riparative agiscono un problema della struttura psicoanalitica e quello che è un’eventualità diventa un fatto: sovrappongono cioè le caratteristiche personologiche tout court con il concetto di sintomo, si rappresentano le storie individuali tout court come reazioni disadattive e non adattive. Eppure, uno sguardo sorvegliato su di se anche eterosessuali e normati, dovrebbe mettere in guardia – perché tanti nostri pregi sono la soluzione brillante a una storia psicologica di torti. E quindi una serie di domande:
E’ davvero così più difficile in psicologia scorporare etica da logica scientifica? Una volta stabilito che la patologizzazione del comportamento non può essere il braccio teorico di un’ideologia reazionaria – e la sua negazione di un’ideologica progressista, stringendo il campo, non è proprio possibile concepire lo sguardo analitico non solo come storia delle patologie ma come storia delle strutturazioni di personalità? E ancora: stabilire eventualmente che certe organizzazioni del se, siano l’efficace soluzione a un contesto emotivamente difficile, è davvero la prova che quella soluzione non sia efficace ma patologica?
E di quanti possiamo dire che non nascono in delle condizioni sfavorevoli? E infine, quando pensiamo noi addetti ai lavori, ai processi terapeutici, ma cosa intendiamo non dico per guarigione, che è la parola che si cela nell’ombra, ma almeno per miglioramento?
Quello che voglio dire, è che la questione delle persone omosessuali in psicoterapia, mette l’accento su una serie di vulnerabilità epistemologiche e deontologiche di largo raggio che non riguardano solo l’omosessualità. Il mancato sguardo su queste aree vulnerabili – riassumibili nel problema: cosa è sintomo cosa non lo è, e nell’altro problema come utilizziamo la nostra epistemologia tradizionale – apre il varco a strafalcionerie professionali non sufficientemente riconosciute, come dimostra l’inqualificabile convegno di Milano. Ora: si fa benissimo a processare i sedicenti colleghi che con tutta calma dichiarano di voler guarire le persone omosessuali, ma fin tanto che non ci si occupa di affrontare queste questioni, si avranno sempre le armi spuntate.

L’omini hanno paura di me!

(E’ molto tempo che non mi dedico a uno psichico postarello con nuance cazzarelliste ma ugualmente di pubblica utilità. Ultimamente su questo blog sono usciti diversi post molto seri, sentimentali oppure tromboni, e allora bisogna assolutamente rimediare con un alleggerimento il che, a inizio settimana lavorativa porta anche ad altri innegabili vantaggi. Naturalmente, anche se cazzarellista rimane l’intento filantropico e il desiderio di fornire con levità suggerimenti di pubblica utilità.)

 

Dunque esiste questo luogo comune, ecco molto sentito nel nostro paese, secondo cui gli uomini avrebbero paura delle donne intelligenti. Io per la verità lo credevo estinto insieme alla giacca colle spalline imbottite e i bottoni gioiello, e in effetti molti uomini temendo di fornire la prova ultima che alle scale wechsler prendono il punteggio minimo, popo de quelli che non distinguono un triangolo da na palla, hanno smesso di dire questa cosa, e la vanno sostenendo solo alcune donne – questo almeno dal mio vertice di osservazione, le quali pensano che, a. sono titolari di cervelli dotati di indoppiabili picchi sinaptici, b. che proprio per questo il mondo maschile gli è inviso. Infatti a loro succede questo: ogni volta cheesse esternano nel mondo un pensiero dei loro, ipso facto per sua genesi originalissimo e imperdibile, l’omini sbuffano bofonchiano si spazientiscono stantuffano. Ne consegue che queste donne di brillantissimo ingegno hanno una vita irta di delusioni e sofferenze sia perché non le hanno ancora fatte primo ministro, sia perché anzi nel lavoro compiono scarsi progressi, sia perché cambiano un fidanzato ogni due mesi.
Quando lo trovano.

Invero, questo tipo di donne non di rado è davvero molto in gamba. Qualche volta davvero moltissimo anche, molto spesso viaggiano in uno stato di intelligenza decorosamente nella media. Sono certo colte, certo preparate, certo umoristiche diciamo nella media dei tipi che hanno delle cose ganze da dire, ma raramente sono sciocche. Invece quasi sempre sono fori come cucù. E il loro fuoricomecuchismo si esprime in comportamenti tafazzeschi, che ledono i loro interessi: esse cioè se credono di suscitare antipatiche reazioni per il contenuto di certi loro imperdibboli aforismi, quando il problema è invece di sintassi. Dunque, vediamo come venire in contro alle nostre Schopenhauer incomprese.

Come dato di partenza, partiamo da una agevolata schematizzazione della famiglia di origine della nostra Schopenhauer. Essa, quae cum ita sint, diciamo è nata da una mamma e un papà. Se essa ha dei lati come dicevamo di fuoricomeunbalconismo essa potrebbe avere un passato problematico o con la mamma, o con il papà o – nella quota maxima di sfiga – con entrambi. Ma spessissimo nella percezione soggettiva, di Schopenhauer come di chiunque, c’è una figura vissuta come più scassaczz e una come più pacifica ( in verità ad una corretta disamina risultano entrambe scassaczz, ma Schopenhauer tante volte non lo sa). Una come più vicina e invasiva e una come più lontana e satellitare.
Ora, siccome Balint – colui che sostenne che il transfert non si da solo in terapia ma ovunque e perunque – non era proprio l’ultimo degli scemi, si da il caso che, se Shopenhauer ci ha un passato ostico con una figura maschile un babbo, fracasserà gli zebedei a qualsiasi capoccia, capo ufficio, prof prestigioso, fratello maggiore di amichetta e via di seguito le capiti a tiro che gli ricordi quella figura, che nell’asimmetrica relazione – per esempio di nutrimento e dipendenza come è l’essere stipendiati e magari in virtù di un certo specifico atteggiamento. Allora essa quando interverrà nella riunione a introdurre i primi capoversi de “Il mondo come volontà e rappresentazione” certamente dirà delle cose davvero interessanti, ma ci avrà molta furia e fretta di riattualizzare il conflitto con la figura con cui si è scazzata per tutta l’infanzia. Potrà essere per esempio molto arrogante, provocatoria, svalutante. Qualche volta le proiezioni riguarderanno la fratria, la lotta fra fratelli per la conquista della mamma o del babbo, e allora si scaglierà con determinata ostilità sui colleghi. A quel punto, siccome er cuore de na madre è de na madre e il sindacato diciamo sta vivendo un periodo difficile avrà raggiunto il risultato di stare sulle balle a tutti, di non riuscire ad avere buoni rapporti con nessuno. In primis il medesimo capoufficio il quale, al diciottesimo lei non sa chi sono io, lei per quanto preparato non ha colto, sa non sono completamente d’accordo con lei etc. etc. etc. proferirà nei meandri della sua psiche un esasperato checcojoni, e darà l’incarico a un Ciccio pasticcio qualsiasi – solitamente non meno intelligente, ma certamente più amabile.

Schopenhauer allora dirà tzk! Al capo non piacciono le donne intelligenti! Ma si sbaglierà non è vero, non è questione di intelligenza, e questione di messaggi di sottotesto. Al capo non piace questa cosa dell’essere continuamente rimbeccato, sfidato, contrastato, non piacerà il tono del tipo io ne so più de te hai capitooo, non piaceranno le braccia conserte, o certe espressione de pinca su polli che si saranno appalesate sul volto di Schopenauer durante la sua prolusione.

Ora, una buona esperienza analitica risolve grandemente questo tipo di inconvenienti, in sua assenza però è utile chiedersi: quanto mi piacerebbe a me che ogni santa volta che parlo, alza la mano Fra Cazzo Da Velletri e mi dice con miagolio costante scusiiii eh, non sono d’accordo sa. Forse che mi manderebbe diretta fori dal balcone? E come sarebbe se provassi a dire le stesse identiche cose mostrando – all’inizio diciamo per ipocrisia pura – di rispettare cosa dice il prossimo? E ancora. Cambia davvero tanto all’opinione che il cosmo avrà della mia produzione filosofica se io un concetto lo ribadisco 45 volte o 33?
La verità Schopenhauer è che basta una de volta, o la va o la spacca. Tienilo a mente.
Repetita juvant più che altro ai cretini. Agli altri fanno danno.

Altre volte è il bisogno di riconoscimenti che rende le prolusioni di Schopenauer altrettanto indigeste. Questo è un problema in un contesto sessista, perché se è vero che gli uomini non hanno paura delle donne intelligenti, è vero che in certi gruppi particolarmente reazionarii tendono a escludere il femminile dal dibattito. Se Schopenauer non ha allora dalla sua una consapevolezza titanica dei propri mezzi, che le dona quel tipo di carisma che spacca tutto ovunque, ci sono donne che in effetti ce l’hanno, il desiderio di riconoscimento in un contesto che tende al disconoscimento la porterà impercettibilmente ad assumere nuovamente il ruolo dello scassaczz frignone, facendosi livorosa, lamentosa, pallosa, e come dire mettendosi in guai peggiori di quelli in cui il destino l’ha cacciata. Gli è che i toni di voce qualificano le nostre relazioni e le nostre posizioni nella relazione, e queste qualifiche sono prioritarie ai contenuti proposti, specie se non siamo esattamente di fronte a Rita Levi Montalcini ma anche alla numero 2 o 3. Allora se una si autodenuncia come ultima sfigata, arrabbiata per questo – la frittata è fatta. Roba da comportamentisti mi rendo conto, ma ci ha un suo che.

Certi tipi di Schopenhauer, per esempio, pensano che se non ci hanno l’ultima parola perdono la faccia. Forse più esattamente, non resistono psicologicamente a non avere l’ultima parola – una caratteristica questa tipica di certo tipo di insicuri, e salvo i casi di patologie a contrasto tipo – il salvatore di poverine e la crocerossina, inducono i più a darsi garbatamente a gambe levate. Ma quando sono le donne a mettere in pratica di questi comportamenti, penseranno di essere allontanate dagli uomini per la levatura dei loro assunti, perché quelli non sopportano di avere torto, machisti da strapazzo che non sono altro! come se nevvero avere torto piacesse a tutti.
In particolare, le Schopenhauer in condizioni più psicologicamente critiche, usano questa strategia dell’ultima parola anche durante gli appuntamenti galanti – spesso allo scopo di attaccare quello stesso oggetto del desiderio che ora stanno desiderando. Queste poverette sono in preda all’Io antilibidico di Fairbairn, forse meglio noto come sabotatore interno, una sorta di seconda personalità interiore che si prefigge con accanimento lo scopo di mandare in vacca qualsiasi occasione di felicità. Se questo sabotatore interno è particolarmente efficace, capirete bene che lo stato psichico della proprietaria versa nelle più critiche condizioni, proprio avrà una percezione di se delle più funeste, di solitudine di essere non visti da anima viva, di freddo cosmico – il che induce non di rado a tentare la sopravvivenza con rimedi che peggiorano il male anziché curarlo, ossia le mejo note presso noantri, difese narcisistiche. Allora succederà che Schopenauer, coll’amici, alla posta, a una cena a sfondo sessuale esternerà i suoi disvelamenti del velo di Maya con grande autocelebrazione, vanto ma una sorta di vanto esagerato che avrà lo scopo di farsi dire uuuuuh come sei brava te cor velo di maya! Uuuuh come disveli te nessuno! Che potrà anche capitare eh, ma diciamo che lo sfondo sessuale ecco, meglio mettece na croce sopra.

A proposito di “Sottomissione”

Ho un modo di leggere Houellebecq che probabilmente nessuno scrittore vorrebbe avere per se, e che probabilmente non ha una cittadinanza onorevole tra gli scranni della critica letteraria – come penso sia giusto. Infatti leggo Houellebecq con uno sguardo che comincia con la clinica e poi approda all’estetica, e credo che questo sia un tragitto non molto legittimo quando si parla di libri – come dire riduttivo a una storicità psichica che vincola l’analisi letteraria e rischia di tagliare fuori categorie troppo importanti – rischio che dunque corro e che spero di evitare. Ma nel suo caso, non riesco a farne molto a meno, è una cosa che quasi un po’ mi prescinde e ogni volta che arriva un suo nuovo libro, lo leggo chiedendomi come sta questo mio amato scrittore, che aria tira in quel mondo psichico così doloroso e disastrato come va la partita interna tra le fazioni endopsichiche, e quali esiti ha nelle ricadute del suo linguaggio, e delle sue intuizioni. Devo dire, che, per quanto sia riduttivo, questo tipo di approccio mette al riparo da certi fraintendimenti che ho incontrato in molti detrattori di Houellebecq, che non vedendo il fondo di disperazione, di depressione gravissima e cronicizzata in cui si dibatte, traggono conclusioni affrettate su certe sue posizioni ideologiche.

La terrificante depressione di Houellebecq, che non è una questione diciamo di umore ma una questione di personalità, sembra fargli abitare una landa in cui   – come effettivamente capita a tanti suoi personaggi – la vitalità del volere è preclusa. Come il dannato della pelle di zigrino di Balzac, non c’è spazio per un minimo atto di scelta psichica se non nel ristretto e impoverito spazio degli impulsi vitali, quando la censura del piacere non abbatte anche quelli. In ragione di questo l’unica area di sopravvivenza è nel piacere sessuale, fintanto che non è intaccato da quella stessa censura, ed in ragione di questo ho sempre trovato molto interessante il modo di Houellebecq di parlare del sesso – l’unico capace di descrivere il momento psichico e il tono con cui la persona pervasa da thanatos sopravvive a se stessa nel momento in cui appunto si occupa di sesso. Per il resto, il personaggio tipico dei romanzi di Houellebecq, anche ne’ la sottomissione, sono orfani del desiderio. Non amano, non odiano, non scelgono, escono di rado a cercare di carpire una realtà che non sentono, e quando ho la sensazione che stia un po’ meglio arrivano a una sehnsucht del sentimento, dell’amore perduto fino a giungerne al bordo per non riuscire ad afferrarlo – e questo capita nei suoi romanzi migliori. Di contro, di solito, i personaggi femminili di Houellebecq possono essere tragici, e mortali, qualche volta strazianti – ma sono personaggi pieni di forza e vitalità spesso di grande intelligenza per cui davvero, l’accusa di misoginia non sta mai né in cielo né in terra.

Se però Houellebecq fosse vinto da se stesso, non diciamo sottomesso a se stesso, non scriverebbe. Scrive e dunque lotta, e la sua prosa di solito, tra chirurgico distacco e sintonizzazione con i rumori della disgrazia psichica propria e altrui, si fa forte di una grande tensione emotiva e narrativa. Passa per scrittore cattivello, perché si crede che racconti l’oggetto di un desiderio quando narra l’oggetto di una disgrazia, ma io per dire lo trovo a più riprese terribilmente commovente e molte volte terrificantemente preciso: pervaso dal malessere sa fiutare il malessere altrui, ammalato diagnostica la malattia, si specchia nei sintomi e del mondo che guarda ristruttura tutti gli aspetti di se. Con queste premesse psichiche e narrative, è davvero l’uomo più adatto a cogliere la decadenza dell’Europa, e Sottomissione in termini di plot, era un’occasione succulenta e geniale per rappresentarla. Un’idea magnifica, alla quale la lotta del nostro avrebbe potuto prestare le sue migliori energie.

Se non fosse stato già sottomesso.
La trama è già nota a tutti, e mette in scena l’idea di una Francia in cui vince un governo islamico. La racconta l’ennesimo alter ego di Michael, ennesimo diseredato degli affetti e delle emozioni che però diversamente dagli altri suoi predecessori ha completamente abdicato al suo destino e si è appunto sottomesso placidamente alla deerotizzazione dell’esperienza. Questa deerotizzazione ricade su una prosa più sciatta, più ordinaria, più banale, dove ai periodi folgoranti dei libri precedenti si sostituiscono alcuni passaggi, e dove anche tutti i personaggi e i passaggi importanti, si piegano in maniera abitudinaria e sbiadita, con la risultante di un libro che arriva come moscio, e irreale. Il plot era perfetto, e alcune intercettazioni psichiche occasioni scintillanti per uno scrittore più in forma e meno rassegnato psicologicamente: e io ero li che aspettavo che cosa sarebbe stato delle bellissime e intelligentissime donne di Houellebecq, all’improvviso fuori dalle istituzioni, fuori dalla vita, senza le belle gonne degli altri romanzi. Speravo in un ritratto – certo parziale e poco veritiero ma comunque con tracce di verità – di una dolorosa ma desiderata rinuncia, oppure di una strenua lotta. Speravo in uno sguardo sulla contraddizione che invece non è arrivato. Anche la storia con l’ebrea Myriam, che ha dei momenti molto belli, è sotto tono, rispetto ad altri negati grandi amori dei personaggi precedenti. E al posto di certe sociologie precise e graffianti, ho trovato anche un po’ di banalità di luoghi comuni che insomma, quasi mi sono dispiaciuti perché quella verosimiglianza sbandierata dalle marchette sui quotidiani non l’ho riscontrata. Come se non avesse toccato il cuore delle cose con il tocco pestilenziale che ha di solito, come se si fosse fermato prima.

Non è un brutto libro, e penso che chi non abbia mai letto Houellebecq possa trovarlo davvero molto bello, ma è inferiore ad altri altri. E’ sottomesso a se stesso, distratto, sciatto. Rinunciatario e senza tensione, e quindi meno veggente e profetico di quanto potrebbe. Segno che a questo giro le cose la dentro vanno peggio del solito . Faccio comunque al mio scrittore preferito i miei migliori auguri, che sapendoli arrivare da una psicoanalista, so che detesterebbe fieramente, ma sperando lo stesso che gli capiti qualcosa che me lo rimetta nell’estenuante tensione esistenziale che ha deciso di non sopportare.
Per ora.

Ben tornate (con riserva di preoccupazione)

Vorrei fare alcune considerazioni veloci e schematiche sulla liberazione di Greta Ramelli e Vanessa Marzullo. Sono considerazioni superficiali e come al solito piuttosto personali perché riguardano una vicenda sulla quale non ho forti competenze, e che derivano piuttosto dalla constatazione di come da più parti è stata recepita questa storia così come è stata narrata.
Io fondamentalmente, che siano state liberate, sono molto contenta. Sono due ragazze giovani, come tantissime e tantissimi, voi non sapete quante e quanti, ce ne sono in giro nei posti pericolosi lontani dalle nostre vite, a fare delle cose che a noi non è mai andato di fare e a correre rischi da cui il nostro buon senso ci tiene alla larga. Sono cadute nella rete di quei rischi, non so in che misura per colpa di un coefficiente costante di pericolo o per smaccata inefficienza dell’organizzazione a cui facevano riferimento. Ma a fronte del lungo elenco di rapiti e anche uccisi nei teatri di guerra, eviterei di dire stronzate del tipo, siamo tutti ct.

Ci sono però delle considerazioni che secondo me vanno fatte ugualmente, quanto meno per impostare il dibattito, che mi pare ab ovo, viziato da alcune distorsioni di prospettiva e di ideologia.

  1. Greta Ramelli e Vanessa Marzullo sono donne con un nome e un cognome, un titolo di studio e esperienza all’attivo, per poca che sia, maggiorenni. Non sono delle bambine, lo sono solo in questo curioso paese in cui si va a lavorare tardi, si fanno figli tardissimo, si sta inchiavardati alla famiglia di provenienza in uno stato di adolescenza protratta e incoraggiata dal sistema socioeconomico che rende impossibile l’emancipazione dei giovani dalle famiglie. Fuori da qui due maggiorenni non sono due povere sgallettate, sono persone che stanno per mettere su una famiglia, che già lavorano che vivono fuori dalle proprie case. Che sono titolari della loro vita. E’ interessante la puerilizzazione di Ramelli e Marzullo, e credo che sia anche autenticamente sentita. Sono state vissute da tutti come bimbette allo sbaraglio. Ma è un problema dell’Italia, non loro.
  2. In questa rappresentazione delle due giovani donne, ha certamente giocato il fatto che fossero donne, e che inoltre non abdicassero nel loro modo di vestire e di essere, a un certo clichet maschilizzato della femmina che corre pericolo, ma omnia munda mundis! – si facessero ritrarre con le gonnelline a fiori i capelli e i sorrisi belli. Non è serio eh! Non è possibile! Non è credibile! Se fai certe cose, devi averli legati li capelli, e averci i pantaloni per dinci bacco. E il pensiero mi è andato alla Rosanna Cancellieri che in un’intervista raccontò dei suoi contrasti con Sandro Curzi, che aveva una contrarietà ideologica all’idea che una giornalista andasse in video con dei vistosi orecchini rossi. C’è un problema cioè con l’idea di un femminile attivo, che faccia delle cose da maschi, senza necessariamente adeguarsi all’estetica e comunicazione maschile. C’è uno stereotipo sull’immagine che deve avere chi commercia con il male – stereotipo molto più condiviso da chi non ci ha spesso a che fare.
    Voglio dire che conosco qualche psichiatra che ha dovuto vedere pazienti nei manicomi criminali famosi per efferati delitti seriali, che gira con imbarazzanti magliettine a cuori e paillettes.
  1. C’è anche un problema, prima ancora che di genere – l’uomo che corre il pericolo è un eroe, la donna che corre il pericolo una cojona – rispetto all’idea stessa di qualcuno che corra un pericolo a scopo umanitario. In questo senso, l’assolutamente illogico paragone con i Marò mi risulta interessante. Per quale motivo infatti comparare due situazioni assolutamente incomparabili per interlocutori chiamati in causa e rischi possibili? Che forse ce li ridanno i Marò se sganciamo i milioni? Che i forse i Marò sono in mano a un gruppo non identificato e privo di regole o sono in mano a un governo istituzionalmente consolidato? Ma i marò cari miei sono molto meno iconograficamente buoni, sono molto più psicologicamente neutri, sono maschi che fanno le solite cosette de maschi, e quindi molto meno scomodi narcisisticamente di queste due sgallettate che ci rinfacciano a colpi di pericoli e sorrisi il nostro culo al caldo. Io percepisco in certe reazioni livorosissime e intollerabili, un problema di invidia per quel misto di incoscienza e buono, per quel che di irrazionale ma sacro, che c’è in chi fa qualcosa di illogico dal punto di vista dell’autoconservazione ma di forte sul piano etico. E più ridono nelle foto, e più sono così iconograficamente rispondenti a questa immagine di folle adesione a qualcosa di buono, più il commentatore medio si sente sfruguagliato in qualcosa e scatta una sostanziale invidia che viene disinnescata in parole ricche di disprezzo.

Ecco, io riformulerei il dibattito partendo da queste considerazioni. Moralmente, io non posso che essere contenta del fatto che due brave persone siano tornate a casa, giovani o meno che fossero. Siccome attualmente chi le aveva prese, per me rappresenta attualmente quanto di più pericoloso e cattivo ci sia in circolazione si sono contenta che non siano state uccise. L’unico mio oggettivo cruccio e dispiacere e anche motivo di perplessità etica e politica, riguarda il destino dei soldi, eventualmente e temo probabilmente dati in cambio delle loro vite. Non tanto, per come potevano essere spesi da noi, quanto, per come saranno usati da chi li avrebbe presi.
Ossia, per uccidere altre persone.