Se c’è un argomento capace di dividere gli animi nelle discussioni, in specie nelle discussioni tra donne, è quello inerente la scelta o meno di fare figli. La questione infatti tocca molti tasti che dolgono dal punto di vista sia individuale che sociale, e non ultime irrita per le solite questioni di genere: che siccome i bambini escono dalla pancia delle donne, specie in certi contesti sociali, le donne si sentono come schiacciate in una metonimia, come se non ci fosse nient’altro che questa loro pancia, come se tutto quello che dovessero fare nella vita abbia a che fare con questa faccenda di mettere al mondo i figli. In Italia poi, la complicata mescolanza di un arricchimento fugace quanto superficiale, avvenuto nel dopoguerra fino agli anni ottanta, su un retroterra arcaico e culturalmente molto arretrato, ha creato il fascinoso mondo di un medioevo sbrilluccicante, dove ci sono ancora i soldi per la seconda macchina ma si disprezza tutto quello che è femminile, materno, curativo, dove si vive in una specie di capitalismo tribale in cui ai lussi del primo mondo – i mezzi pubblici con una relativa frequenza, il servizio sanitario nazionale con gli ambulatori e i camici si affianca una mentalità agevolmente riscontrabile nelle aree del terzo mondo. Per cui è pieno di localini fichetti dove andare la sera a mangiare, ma se una famiglia ci porta i bambini pare brutto, essendo che i bambini disturbano e dovrebbero rimanere a casa.
Con la madre.
La madre non deve lavorare, la madre è una zavorra sociale, la madre non può avere una vita sociale se non nella sorellanza con altre madri. In vista del suo essere madre la ragazza non viene assunta al lavoro, dove viene guardata di traverso solo perché si sposa. Se riesce a tenersi il lavoro, i suoi oneri correlati alla sua funzione di madre verranno vissuti da colleghi e dall’azienda come forme di privilegio di pigrizia, di assenteismo. E d’altra parte: i nidi non ci sono, cominciano a scarseggiare i posti per le materne, le scuole chiudono un periodo dell’anno esageratamente lungo, e dalla prima media in poi una ci ha i figli a casa. Un paese troppo ricco per tenere in piedi il patriarcato di un tempo, ma troppo povero culturalmente per sostituirlo con i modelli culturali delle democrazie avanzate, dove le donne lavorano più che in Italia – in alcuni paesi molto più che in Italia – e si fanno molti più figli di quanti se ne facciano qui. Un povero paese di vecchi.
In questa contestualità culturale, molte donne finiscono per non avere figli, alcune senza averlo scelto scientemente, altre perché hanno messo in pratica il desiderio troppo tardi, altre ancora invece rivendicando una scelta che ritengono salubre per se, perché non si vedono materne, perché non si vedono adeguate a curare la prole, perché non avvertono il desiderio di avere dei bambini, perché vedono che culturalmente il materno implicherà delle grandi rinunce, tutte in qualche modo rinforzate nella loro decisione dall’atmosfera culturale sulla maternità. Nelle mie frequentazioni, questo tipo sociale capita molto frequentemente, perché in un certo modo mi somiglia, perché fa parte della mia parrocchia diciamo politica e intellettuale. Condivido infatti con loro il risentimento verso la coazione culturale alla metonimia, e anche – un certo modo di percepirsi.
Tuttavia – e qui la comunicazione si fa sempre accidentata – penso sempre che, rinunciare a fare i figli sia un gran peccato. Non che non si campi bene lo stesso – ma perché l’occasione epistemologica e psichica è credo, sostanzialmente incomparabile.
Oltre che difficilmente comunicabile: nel fare i figli, e certo nell’adottarli, si tocca un’esperienza emotiva che è un po’ come il dolore, e di cui anche qui non riuscirò a parlare, per i limiti strutturali di questo noumeno emotivo: si sa che c’è ma non lo si riesce narrare.
Quindi si possono dire solo cose di contorno, la prima delle quali riguarda una importante invarianza della personalità nel prima e dopo figli: se eri intellettuale prima ci rimani dopo, se eri vanesia e narcisa prima ci rimani dopo, le cose che facevi prima le fai anche dopo. Le fai senza i figli le fai con i tuoi figli. E i difetti che hai naturalmente li hai anche con i figli, che diventano un nuovo complemento oggetto delle tue carenze personologiche. La gente che prima si vantava delle proprie stronzate, ora si vanterà delle stronzate della prole, la gente egoista prima, sarà egoista dopo con la scusa della prole, certi saranno anche egoisti con la prole, e certi altri saranno genitori veramente inadeguati, declineranno la loro personalità nella genitorialità – grosso modo.
Però ecco, quel “grosso modo” al posto di sicuramente è la cosa che mi fa parlare di una buona occasione esistenziale.
Perché non tutti magari dimostrano di cogliere l’attimo in maniera plateale, molti in realtà lo fanno con atti microscopici che all’esterno non arrivano, ma fondamentalmente crescere un figlio è una grande occasione di riscrittura psichica, della propria infanzia e di se stessi, che non da credo nient’altro. Quando si ha infatti, tutto il giorno un neonato tra le mani prima, e un bambino che cresce dopo, emergono alla coscienza ricordi che sarebbero stati perduti e che sono forse iscritti in una memoria procedurale più che narrativa. Questi ricordi riguardano la propria esperienza di figli, la cura che si ha conosciuto, e spiegano tantissime cose della nostra vita altrimenti difficili da raggiungere – vicende a cui l’esperienza analitica cerca di arrivare con grande fatica e con alterni risultati a causa dell’impervia via – tante volte dialogica e cerebrale (per non parlare del limite strutturale che hanno le terapie a cadenza settimanale). Allora succede che ci si ricorda e si decide una seconda volta se riapplicare il ricordo che ci ha formati oppure tentare una via alternativa. Magari non si dirazzerà davvero tanto, alle volte per niente, certe non ce ne sarà bisogno, certe il bisogno sarà tragicamente trascurato, ma l’occasione è li solida e incredibile, l’occasione in cui i figli forse non tramanderanno le colpe dei padri: se noi siamo stati poco felici i nostri figli potrebbero essere più felici, se noi siamo stati poco buoni – i nostri figli potrebbero essere più buoni. Un processo questo che avviene in una via sentimentale diciamo così molto più che razionale, che passa per una fitta congerie di atti irriflessi che si sommano a quelli ponderati, e che ci riguarda egoisticamente in modo sostanziale: perché il genitore ricordando se stesso bambino mentre accudisce il suo bambino, vive una sorta di seconda chance nella sua storia diversa. In un certo senso, rinasce in una sua dimensione molto personale, in un certo senso separata dalla prole.
Inoltre, la mutazione esistenziale che porta in linea di massima l’avere figli – una mutazione che spesso si anticipa in certi sogni tipici delle gestanti e dei loro compagni – sogni di grandi sommovimenti, simbolismi di mutazioni nell’arredo esistenziale – sogni di furti, di rapine, di ladrocinii implica l’ingresso nella vita di una sorta di serbatoio emotivo e affettivo, a cui si riserva una priorità e che porta spesso e volentieri a un riequilibrio nei rapporti con gli altri, che vengono disinvestiti, e che diventano meno urgenti – la dipendenza dai genitori si fa più blanda, il perdono si fa più facile, eventuali risentimenti si possono negoziare, e anche i rapporti con gli amici e le conoscenze assumono un contorno diverso, che con la minore urgenza veicola una maggiore disponibilità ad accettare le stranezze degli altri le cose che piacciono di meno. Queste cose, capitano certamente anche senza figli, così come non riescono del tutto a risolversi con i figli, e così come in tanti casi avvengono provvisoriamente fintanto che i nuovi arrivati sono piccoli e bisognosi poi crescono si staccano e i genitori sono di nuovo in balia della rete sociale. Ma come per il discorso precedente i figli sono una grande occasione, diciamo così, per facilitare certi processi.
La sensazione che ho, anche se assolutamente soggettiva e congetturale al momento, è che spesso il desiderio di non avere figli corrisponda a un’esperienza di figli per diversi aspetti carente, la quale però non necessariamente si trova a combaciare con il ricordo di un’infanzia spiacevole – sebbene certo, possa capitare. Ma succede che la svalutazione culturale del materno, l’idea distorta che parti importanti di se muoiano con la maternità, le oggettive difficoltà che il mondo sociale pone alla genitorialità , offrano alibi di ferro a non fare figli per non incontrare un processo di riscrittura psichica in chi, paradossalmente, ne avrebbe più bisogno e quindi lo avvertirebbe come particolarmente spinoso da un punto di vista emotivo. senza che questa spinosità arrivi ad essere facilmente concettualizzabile, afferendo a quelle parti dell’esperienza che esulano dal ricordo della memoria dichiarativa, che riguardano la prima infanzia e il modo di essere stati trattati. Rimane cioè l’eco di una sensazione che cerca narrazioni logiche che in effetti – hanno sempre l’odore di una ragione mai del tutto convincente.
C’è inoltre un’altra cosa che mi fa molto riflettere, un fenomeno in origine squisitamente psicodinamico che nella cultura attuale ha molti rinforzi e amplificazioni. Io credo che in alcuni casi, la figlia che non desidera figli raccoglie l’eredità di una madre che a sua volta aveva difficoltà nel suo ruolo di madre, e lo ha in qualche modo dichiarato e rinarrato in logiche e argomentazioni che sono state mischiate in un discorso anche generale e culturale. Sono per esempio le donne che hanno sempre parlato molto male della retorica del materno a 360 gradi, che hanno con leggerezza alluso alle fatiche del crescere i figli, e ne hanno fatto un argomento identitario – un certo tipo di donne a sinistra e nel femminismo ha armato questa retorica, ma anche in contesti con minori ambizioni intellettuali e politiche, di donne che si sono sempre sentite martiri, sfruttate, denigrate nel ruolo. Questo tipo di madri hanno trovato una narrazione culturale a un proprio dolore e a una propria difficoltà – sono figlie a loro volta di madri lacunose nella loro funzione materna, e magari sono state madri difficili da avere accanto, alle volte sempre poco adeguate, altre competenti solo quando le figlie sarebbero approdate al verbale, e ci avrebbero potuto parlare – ma per esempio, non giocare. Questo tipo di madri, avendo fornito come primo imprinting un accudimento poco sintonizzato (magari lasciavano la neonata piangere troppo, magari arrivavano sempre tardi nella comprensione dei bisogni – oppure al contrario erano goffe intrusive, svegliando chi sta dormendo per rispettare degli orari, etc.) lasciano un senso di dipendenza, un bisogno di vicinanza per cui, la figlia che ne raccoglie l’eredità cattiva si ritrova a scacciare una grande occasione esistenziale, per tenersi accanto sua madre, e nell’essere come lei perde quell’occasione di cui lei ha goduto.
Chiudo qui. Ho ripetuto fino all’ossessione in questo post il termine occasione a proposito della genitorialità, perché mi sembra davvero il più adeguato a riflettere un’esperienza che offre delle cose importanti, ma che non è al tutto dirimente o risolutiva, diciamo il biglietto per un viaggio che si può decidere di fare o di non fare con tutte le conseguenze epistemologiche del caso. Dopo di che, buon dibattito.