(Non ho partecipato granché fino ad ora alla discussione che ciclicamente arriva in rete e sui media rispetto ai giocattoli e i ruoli di genere, ma sono stata invitata a un dibattito su questi argomenti –per la presentazione del numero monografico di Genesis, bambine e bambini nel tempo – a cura di Adelisa Malena e Stefania Bernini dedicato a una lettura storica del giocattolo e della pedagogia di genere, per cui mi sono ritrovata a fare l’appello delle idee che ho io in merito, una sorta di chiamata alle armi del mio armamentario concettuale. Qui alcune delle riflessioni che hanno strutturato il mio intervento)
Quando si parla di oggetti culturali che ottengono un certo successo – dobbiamo ragionare, alle volte anche amaramente, sulla significanza di quel successo, senza cedere di default alla gentile consolazione della manipolazione culturale. Vale per la pubblicità, vale per il cinema e vale, vale terribilmente per i giocattoli dei bambini. Come tutti gli oggetti culturali, e più che mai quelli destinati all’infanzia, i giocattoli per i bambini portano indosso l’intenzione di una trasmissione di valori, e più che mai questa cosa è fortissima in termini di prospettiva di genere: i giocattoli dicono cosa una certa generazione chiede alle generazioni successive, cosa devono incarnare, quale progetto politico realizzare, e cosa riscattare. Tuttavia non basta domandare per avere risposta, e ogni richiesta di successo deve contare su un’uniformità linguistica. Quest’uniformità non riguarda solo il dare agli infanti oggetti infantili, ma – soprattutto intercettare aspetti del mondo interno dell’infanzia, agganciarvisi, colludervi, specchiarcisi. Il giocattolo di successo è un oggetto semantico la cui missione culturale è garantita dalla soddisfazione di alcune necessità psicologiche, psicodinamiche, simboliche, e che per queste altre necessità svolge altre missioni tutte individuali del bambino che ci gioca. Molte di queste missioni hanno a che fare con il sesso e il genere. Il corpo e la sua interpretazione.
A questo punto, proporrei di fare un passo indietro e allontanarci provvisoriamente dal giocattolo per isolare alcune questioni importanti a individuare quelle missioni individuali legate al gioco e che investono il genere. Propongo tre punti importanti.
- Semantica biologica: La prima questione rilevante per me riguarda la capacità semantica del corpo sessuato: se gli studiosi si scannano tanto per decidere se i cervelli degli uomini e delle donne sono differenti evidentemente la differenza non è proprio di quelle che salta all’occhio . Ma certo è che la differenza fra avere il ciclo e non averlo, fare i figli e non farli, allattare e non allattare salta all’occhio e non c’è bisogno di grande dibattito. Io credo che quella prima differenza produca in ognuno un importante dato semantico, produca parole, faccia cultura individuale, sia una cosa che ognuno piano piano legge a modo suo. Di solito questo tipo di assunti sono letti come essenzialisti di defoult, perché associati a posizioni di chi vincola il corpo a un forte prescrizione in termini di ruoli di genere. In realtà la prescrizione dei ruoli di genere è anche molto vincolata alla contestualità e al cosa si decide di farci, con quell’oggetto che produce una prima semantica. Qui si suggerisce solo l’idea che: sapere di poter allattare mette nella testa di una donna un oggetto. Sapere di non farlo un altro.
Inoltre, questi oggetti semantici ci riguardano non solo come titolari del corpo, ma anche come destinatari di relazione. Connotano l’altro, e innescano delle reazioni a quel dato semantico. Nelle tristi vicende della 194, come nel plot di tante favole della tradizione popolare per fare esempi concreti, io vedo la demonizzazione e la punizione del potere tutto femminile di procreare, al quale molti uomini si sentono dolorosamente subalterni, e rispetto al quale il collettivo si sente inesorabilmente dipendente.
- Semantica psicoanalitica Nella crescita di ogni individuo, una parte saliente ce l’ha il gioco di identificazioni e controidentificazioni con figure affettive di riferimento del proprio sesso, o del sesso opposto. Nel nostro modello culturale, quando si presenta diciamo nella sua forma standardizzata, la negoziazione dell’identità, passa dall’identificazione e dalla disidentificazione con il genitore pari sesso, raccogliendo per una via diversa aspetti del genitore del sesso opposto. I giocattoli sono tra i grandissimi intermediari di questa negoziazione: la bambina che gioca con la bambola studia come essere come la madre, per poter un domani fare la stessa cosa diversamente dalla madre.
Questa esplorazione identitaria inoltre, passa anche dal commercio di desideri non sempre consapevoli: il bambino che gioca con la pistola giocattolo, rincorre un modello di maschile che avvii la sua dialettica con suo padre oppure al contrario incarna un desiderio che il padre non è riuscito a incarnare. In ogni caso, la cultura performa i nostri modi di stare nel mondo prima ancora che con gli oggetti culturali condizionando gli stili e le forme dei sistemi familiari in cui i soggetti sono iscritti. Il bambino che gioca con la bambola, giocherà con la bambola con maggiore naturalezza quando fosse il figlio di un padre che si è preso cura di lui e dei suoi fratelli, ha cambiato loro i pannolini, ha dato loro da mangiare. A quel punto per quel bambino giocare con il bambolotto sarà una sua negoziazione psichica con il suo paterno.
Infine il gioco dei desideri riguarda anche situazioni incrociate il bambino interpreta un ruolo di genere nella misura in cui raccoglie e incarna il desiderio del genitore di sesso opposto: il bambino con il suo giocattolo è cioè anche: il figlio della madre, la figlia del padre.
- Semantica Junghiana. Se noi consideriamo gli oggetti culturali come oggetti simbolici, ivi compresi i giocattoli, noi li possiamo allora considerare il canovaccio su cui si proiettano gli oggetti interni di due parti: chi li propone e chi ne fruisce. Produttore e consumatore. Secondo la lettura junghiana ogni individuo ha nel suo inconscio forme archetipiche correlate al maschile (animus) e forme archetipiche correlate al femminile (anima) rubriche categoriali cioè che raccolgono insieme caratteristiche psichiche culturalmente codificate coi generi, loro declinazioni emotive e personologiche, loro correlazioni con le immagini genitoriali di cui ciascuno dispone, eventuali rappresentazioni problematiche dovute ad aspetti individualmente irrisolti o culturalmente patogeni. Un giocattolo di successo, spesso riesce a intercettare l’arsenale simbolico in merito al genere di tanti fruitori, e lo fa perché quello stesso arsenale simbolico abita la psiche del produttore. Le famigerate winx, per fare un esempio, intercettano la rappresentazione del potere sessuale che emerge, con eroine dai corpi estremamente potenziati e seduttivi, contro a un universo relazionale con il maschile estremamente burrascoso e problematico. Hanno dei meravigliosi superpoteri – la fata è un archetipo del femminile che ha una corposa filmografia nella produzione per bambine – ma con i quali non vincono mai del tutto. Le winx sono cioè una efficacissima rappresentazione dell’avventura dell’adolescenza femminile, che è alle porte e a cui le bambine sono sempre più precocemente chiamate. Si tratta di una missione di crescita a cui non possono sfuggire – quel corpo sessuato anche se variamente declinato arriverà e questa rappresentazione fa esplorare la battaglia nel porto sicuro dell’infanzia – con il difetto di anticiparla eccessivamente.
Tutti queste osservazioni servono cioè a spiegare la funzione che può avere un giocattolo che è diciamo reazionario rispetto al sistema sesso genere. Alla luce di questo io, diversamente da molti sono meno arrabbiata con i giochi che rispecchino una divisione tradizionale dei ruoli. Perché ritengo che assolvano a queste funzioni psichiche – e quando sono richiesti dai bambini pongano una domanda di lettura e riconoscimento dell’identità che mi sembra giusto e importante accogliere, anche se magari possono essere declinati nell’assetto familiare con l’interpretazione dei ruoli di genere che la mia famiglia ha elaborato –dove c’è un maschile molto accudente per dire, e un femminile molto intraprendente. E penso che prima prima di tutto, il compito politico di innovare la declinazione del rapporto sesso- genere spetti alle strutture familiari, agli stili di accudimento, più che ai giocattoli i quali sono sempre tramite di quegli stili, e non si può sperare di cambiare la libertà dei soggetti togliendo loro giocattoli importanti in una fase della vita in cui i discorsi molto intellettuali e sofisticati non sono ancora disponibili ma ci sono prima di tutto passaggi psichici da fare.
Naturalmente questo non deve intaccare la possibilità di esplorare mondi semantici appartenenti al sesso opposto da parte dei bambini, o la sacrosanta necessità di concepire i giochi anche come strumenti di crescita psichica che permettano di accedere alla simbolizzazione e di arrivare all’uso di meccanismi difensivi e adattivi superiori che aiutino a elaborare le arcaiche semantiche della primaria differenza sessuale. A questo scopo io credo servano i progetti nell’ambito degli asili o delle scuole di aiutare i bambini a esplorare i giocattoli e i mondi che sono proprie del sesso opposto al proprio, come è successo se non ho capito male a Trieste. Non è che a Trieste proponessero ai bambini di andare vestiti da ragazzine per tutto l’anno scolastico, o imponessero per sempre giochi diversi da quelli che utilizzavano normalmente. Si trattava di una esplorazione di una parte interna di se, o di una parte sociale diversa da quella mediaticamente sancita per i ruoli di genere, e siccome – per tornare alla lettura junghiana del giocattolo rispetto al genere – noi abbiamo un archetipo sessuale e uno controsessuale, l’esplorazione di quello controsessuale è tutta salute per ognuno.
Lo scandalo con cui quella come altre iniziative è stato accompagnato è il sintomo penoso di una nuova costellazione culturale, frutto del pericoloso innesto tra crisi economica, capitalismo avanzato e psicopatologia culturale e una sorta di sessofobia che si va organizzando intorno a nuove agenzie – Adinolfi – le sentinelle – Miriano Fusaro qualche prete di città – ma di questo voglio parlare in un prossimo post.
i giocattoli devono fare i giocattoli, sacrosanto, però magari è più facile se il contesto familiare aiuta in altro modo a non creare steccati tra i generi: bene se la bambina gioca con la bambola e la usa per affrontare tutte le possibili modalità di confronto con la madre, meno bene se alla bambina si propongono solo bambole e cucine giocattolo, giusto?
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Io credo che sia sempre bene non imporre forzature, i bambini andrebbero lasciati liberi di esprimere le loro tendenze naturali… e quindi anche le iniziative intraprese a Trieste siano da evitare.
Non ho capito a cosa ti riferisci quando scrivi “…potere tutto femminile di procreare”: alla procreazione assistita, alla scelta del partner o ad altro? Mi farebbe piacere avere un tuo chiarimento.
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Sono d’accordissimo che se la richiesta viene dal bambino, non bisogna negare un certo giocattolo, anche se ci sembra rimandare a una divisione dei ruoli reazionaria e sessista.
Però resto convinta che la richiesta dei bambini sia molto pesantemente influenzata da ciò che viene costantemente proposto loro, in modo pervasivo e martellante.
E mi va bene la bambola in sé (nel senso il giocattolo da femmina), ma col marketing di oggi la bambola poi si tira dietro tutta una sua coda…
Per dire, ok la Lego Friend che fa la parrucchiera (mentre pompieri e astronauti sono maschi ecc.): ma poi nei magazine della Lego si finisce a spiegare a bambine di 5-9 anni qual è la pettinatura più adatta a valorizzare la loro forma del viso.
O per stare alle Winx, un nanetto pasquale.
Gli zii hanno preso tre uova, una per ciascuno dei miei figli: “Winx” per P., la bambina (6 anni), “Hot weels” per i due maschi. Pensavano che quello Winx contenesse una bambola, Hot wheels macchinine. In effetti i due maschi hanno trovato due macchinine e mini-piste da montare, piuttosto fighe. In quello di P. invece c’era… un set da toeletta. Quale bambina non possiede una toeletta! Quale bambina non ha bisogno di un piedistallo con appendino per bracciali, spazzolina, pettinino, e due mollette finte per capelli? Il tutto di plastica fucsia, di rara bruttezza e scadente funzionalità, tra l’altro. P. comunque era contenta… Mentre i fratelli montavano freneticamente le loro piste, lei ha assemblato i due pezzi del portagioielli. L’ha rimirato. Si è pettinata alacremente un paio di volte. Tempo un minuto è andata dai fratelli, implorando: Posso aiutarvi? E si è messa a giocare con loro.
Immagino che ci siano anche bambine che possono divertirsi per ore giocando a spazzolarsi e agghindarsi, ma in generale quello che mi fa arrabbiare è che quando l’industria propone un giocattolo da femmina, qualunque sia la partenza (qui le winx che combattono alacremente i cattivi con straordinari maggici poteri) si va sempre, sempre a finire lì, a pettinarsi e agghindarsi.
Poco prima eravamo stati alla pista dei mini go kart, dove il dispotico e rude gestore aveva decretato che dei tre fratelli, P. era senz’altro la pilota più dotata, già più brava del fratello maggiore. Ma nell’uovo sono stati i suoi fratelli a trovare macchinine, lei, come tante altre bambine quel giorno, invece, ci ha trovato il messaggio: pèttinati.
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con gli anni mi sono fatta l’idea che a Trieste ogni tanto nascono idee interessantissime. Mi è sfuggita l’iniziativa cui alludi ma intuisco che l’avrei potuta condividere. Questo post è manna per le mie orecchie. Condivido
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Mi è piaciuto questo post che legge la differenziazione dei giocattoli come un potenziale strumento a disposizione del bambino, se sono inseriti nel giusto contesto. Se poi questo contesto nelle famiglie ci sia (e parrebbe di no), è tutto un altro discorso. Allo stesso modo, il messaggio veicolato nei giocattoli decinati al femminile (sii bella, e non: agisci), penso che sia un problema culturale esterno al giocattolo stesso.
Per questo secondo me una lotta radicale tout court e aprioristica contro qualsiasi differenziazione in base al sesso può solo impoverire la vita delle persone (non solo i bambini coi giocattoli), e non arricchirla.
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Gauss74, da attivista antisessista impegnato da anni su questi argomenti, mi sento in dovere di ribadire che chi fa “una lotta radicale tout court e aprioristica contro qualsiasi differenziazione in base al sesso” sono personaggi inventati da fazioni estreme o educatori poco informati e pericolosi quanto quelli. Chi si impegna nelle questioni di genere lotta per liberare le differenze, non per abolirle.
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Zaub condivido tutto ma, a che mi risulti, a nessun educatore che si occupa sensatamente di questioni di genere è mai venuto in mente di agire “togliendo loro giocattoli importanti”. Casomai se ne aggiungono altri, di giocattoli e di attività.
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Non so quanto questo mio commento possa essere utile visto che sono uno della strada, ma è giusto che tu sappia che ti leggo e anche se spesso faccio una fatica bestiale a comprendere tutto ciò che scrivi sento il desiderio di dire la mia esperienza sull’argomento perchè so che per la persona in gamba che sei ne terrai comunque conto.
Quello che trovo sbagliato da sempre è che siano gli adulti a scegliere o proporre i giochi ai bambini, da questo si può dedurre che non sono d’accordo su quello che è stato fatto a Trieste.
I miei genitori non si sono mai interessati ai miei giochi, quando potevano mi donavano ciò che chiedevo e per dirla tutta non mi sono divertito più di tanto con quei doni: la pistola l’ho usata tre ore, il biliardino pochissimo, la maschera l’ho bruciata l’attimo stesso che scoprivano chi si nascondesse dietro. Ho giocato un po’ con tutto, da solo e con i coetanei . Così come capitava giorno per giorno. Sono stato tanto tempo da solo sugli alberi, nel bosco e sulle soffitte, e ho passato tante ore con i coetanei sul campetto di calcio, ho fatto a botte mille volte, ho cacciato ogni genere di insetto, eppure tutti dicevano che ero sensibile come una bambina.
Non ho mai pettinato bambole ma quando trovavo quei bambolettini nudi nelle scatole dei detersivi mi piaceva vestirli (normalmente tagliavo il dito ad un guanto ed era bellecchefatto). Nel mio cortile c’era una sartoria frequentata da una ventina di bambine e ragazze ed io e mio cugino spesso ci fermavamo lì a provare a fare il punto erba e cose simili anche se ci stufavamo subito. Assecondavo mio cugino nel gioco della commedia e toccava sempre a me fare la principessa e mettere il vestito femminile ma questo non ha mai suscitato risate o meno ancora sgridate da parte degli adulti. Lui amava giocare al prete e celebrava messe in latino (conosceva tutte le formule) io facevo il chierichetto e dipingevo sul muro l’altare, abbiamo fatto perfino un turibolo con cordicelle e scatolotti vuoti di vernice, ora io vado ancora in chiesa e lui no.
I nostri genitori erano occupati a fare il pane e a venderlo e nessuno dei due ha mai avuto voglia di giocare a fare pagnottelle o dolcetti, ora io faccio il fornaio e lui sociologo quasi in pensione senza mai avere fatto il sociologo continua a fare un po’ di tutto, scrive commedie, scenografie, fa l’interprete e gira il mondo. Lui è gay ed io no ma continuiamo a volerci un gran bene.
E con i miei figli?. Nella scelta dei giochi per loro difficilmente seguivo ciò che sugggeriva la pubblicità,(anche perchè a sentire loro avremmo dovuto acquistare una camionata di giocattoli) alla fine visto che si divertivano con i Lego è stato tutto molto semplice e comunque anche loro due come io trent’anni prima si divertivano moltissimo quando andavano a giocare con gli amici e anche lì non c’erano mai giocattoli, il bello come sempre era lo stare insieme.
Mia moglie ed io siamo sempre stati contrari ai giochi elettronici eppure i miei figli quando andavano all’oratorio rimanevano incantati davanti alle macchinette e dall’adolescenza in poi sono diventati tutti e due egli instancabili giocatori di PlayStation (ci giocano tutt’ora nonostante convivano col le proprie donne da anni).
Ultima cosa: non hanno mai giocato con le armi; il più grande dopo aver fatto l’obiettore di coscienza ha espresso il desiderio di sparare e per avere il porto d’armi ha dovuto compilare un qualcosa (non chiedermi cosa) contro l’obiezione di coscienza.
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Visto che mi è stato chiesto di commentare di qua, invece che su FB, due punti:
Io avevo una pistola giocattolo perche mia madre faceva tiro sportivo, e ho imparato a cucinare da mio padre e mia nonna…avevo anche tutta una serie di macchinine e valigette del dottore….
Credo che la divisione in generi dei giochi oggi sia molto più capillare e subdola, in quanto l’etichetta “maschi” e “femmine” viene appiccicata a cose che non ne avrebbero bisogno: i pattini blu per lui, rosa per lei, la plastilina in colori primari per lui, toni del rosa per lei, tutto per frazionare il mercato e far comprare tutto doppio ai genitori…
Inoltre una cosa che per anni mi ha, esagero, tormentato, è la domanda:”Come mai una bimba che, come facevo io, gioca con macchinine, pistole e fascia le bambole non preoccupa i genitori, ma un bimbo che gioca con le bambole (della sorellina, non sia mai) fa sudare freddo genitori, nonni e zie…?”
Pare che la risposta sia, ma non mi ha convinto troppo, che la bambina “mascolina” mira a un modello “alto”, ovvero essere un maschietto, mentra il bimbo “effemminato” si svaluterebbe, abbassandosi a fare robe “da femmine”, adatte a esseri “inferiori” come le bambine…
Ne vogliamo parlare?
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Dunque grazie per tutti questi begli interventi.
Io ho la sensazione di fondo che tutti qui diano tanto potere al culturale e se ne freghino dello psichico, trascurando di capire come il culturale funzioni GRAZIE allo psichico, e come il politico potrebbe essere aiutato GRAZIE allo sguardo sulle cose psichiche. La lotta culturale a un più sofisticato rapporto sesso genere viene delegato al marketing e magari a casa lei fa la casalinga e il marito l’astronauta. Lei fa un lavorino di quelli un po’ così compatibili con la famiglia come si dice, lui invece non può mai prendere un permesso perchè no non può. Io non so molto delle vostre posizioni professionali e organizzazioni familiari, ma insomma l’organizzazione familiare è la cornice semantiche in cui si iscrive l’oggetto psichico del giocattolo, e il modo in cui è usato. Uno dei motivi per cui non mi spendo troppo in questa battaglia, è perchè secondo me sul piano simbolico e dico simbolico, fa molto di più protestare perchè le donne non debbano di nuovo firmare dimissioni in bianco se rimangono incinte, che fasse pippe sui giocattoli in un momento in cui i bambini sono tanto vicini ad aree psichiche arcaiche e meno evolute. Vi sperate che a giocare al pilota lei diventa pilota? Non credo che funzioni così: io credo che funzioni così se nella rete semantica e psichica offerta dai genitori c’è lo sviluppo di tutta la personalità della bambina. Stiamo tutti qui a frignare sui giocattoli, perchè si trovano sul bancone, e comportano un range di lotta morbido.
Ma entiramo nel campo di questa lotta. Io trovo il progetto di Trieste una cosa molto ben fatta: siccome il progetto implicava, per poche ore l’esplorazione dei modelli di genere opposto al proprio, non lo categorizzerei come un progetto che impone la qualsiasi, ma come un progetto che con il gioco invita ad esplorare dimensioni di se e possibilità esistenziali non conosciute e tutte nuove, una cosa che ai bambini e alle bambine può fare solo che bene, anche perchè diversamente dai detrattori di quel progetto, io non nutrirei tanta sfiducia nell’identità SESSUALE. Il sesso produce la sua semantica qualsiasi vestito gli metti addosso: una donna è donna pure se è astronauta donna. I bambini che si travestivano ossia esploravano la moltiplicazione del fattore della propria identità con l’identità professionale. Non c’è imposizione, non è che a Trieste per tutti i giorni dell’anno i bambini sono stati mandati in giro con delle gonnelline. Molto più forte è in caso, la diffusione culturale di una certa lettura del genere maggiormente diffusa – ma anche qui imposta mi pare fuori luogo, mi pare che si disconoscono le variabili soggettive di chi vi partecipa, come età e bisogno psicologico, come gusto e classe sociale, come semantica del momento storico di appartenenza. Mi viene in mente Gayatri Spivak quando cazzia le femministe americane per il loro modo di descrivere le donne del terzo mondo – come vittime cioè di un sistema culturale di cui non condividerebbero i codici. e i cui comportamenti pratici così sottilmente differenti tra loro non sono raccolti. Io credo che bisogna avere anche fiducia nei bambini e nel sistema familiari in cui i giochi sono iscritti. Ora vi dico sta bestemmia e vi arrabbiarete: ma c’è un motivo per cui il marketing dei coloretti – rosa per lei in specie – funziona tantissimo. Perchè cari miei più dell’ideologia possono i quatrini, e se l’ideologia non funzionava i giocattoli per bambine se facevano a palle gialle: il rosa è una scorciatoia del riconoscimento identitario per un aspetto di se che è considerato importante. La bambina ci si riconosce e si sente vista. E’ volendo una collusione con una debolezza psichica, ma credo anche che sia un passaggio ristretto a una certa età, poi passa. Quando Francesca dice quelle cose sulle bambine e i bambini, dice qualcosa di vero e che risente di una gerarchia culturalmente ahimè condivisa: occuparsi del privato, dei bambini dell’intimo è basso. Lavorare è alto. Lavorare vogliono tutti stare a casa nessuno. Le pulizie se non le fanno le donne le fanno le persone socialmente meno abbienti, e gerarchicamente più in basso, al lavoro vogliono invece andare tutti. Questa cosa è associata al femminile di qua e al maschile di la, e il fenomeno di cui parla Francesca si incontra anche in altre questioni: per esempio, leggevo un tempo, le forme di ostracismo a cui vanno incontro le scelte transgender: le trans (uomini che diventano donne) hanno molti più problemi dei trans (donne che diventano uomini). Questa cosa mi fa molto riflettere anche a me, anche psicodinamicamente: credo che al femminile siano correlate delle funzioni che per la specie sono vitali, e da cui la specie dipende – donde una sorta di potere del femminile (per la domanda di Vincent) almeno allo stato attuale dell’arte. Lei porta avanti una gravidanza lui no. Lei allatta lui no. Questo è lo zoccolo dell’essenza che produce strascichi variabili ma li produce di genitorialità in genitorialità e io noto Lorenzo, che questo fatto viene spessissimo messo tra parentesi, liquidato con un si vabbè, relativizzato si da un sacco di femminismo e di persone che ruotano intorno a questi discorsi. E questa cosa produce un autogol della madonna. Contribuisce culturalmente allo spostamento nell’inconscio dell’asimmetria di un potere e della risoluzione nella coppia della questione e porta a una complessiva svalutazione per cui toh alla fine di rosa nze vo vestì nessuno, i figli non si fanno e se si fanno si perde il lavoro.
Certamente, il mondo dei giochi oggi è molto incardinato sulla differenza sessuale specie in una certa fascia di età, e forse bisognerebbe scoprire anche in termini di marketing che bambini e bambine hanno bisogno di strutturare la propria identità nel mondo anche potenziando altre questioni di se che non sono solo il sesso: devono saper fare delle cose, devono sapersi divertire con l’esplorazione, devono saper moltiplicare l’identità sessuale con tante altre parti di se. E trovo invece corretto che i genitori si interroghino su quali giocattoli scelgano i figli, mi pare corretto – io credo che però sia anche importante aiutare i bambini a contestualizzarli, a virgolettarli, a dire c’è questo ok ma ricordati che c’è anche altro.
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Sulla banalità e pericolosità di quella “messa in parentesi” sono d’accordo Costanza, ed è per questo che ci tengo a mantenere i discorsi complessi e aperti, eliminando il più possibile quelle retoriche semplificatrici che appartengono ai faziosi ovunque, pure tra femminist*. Per questo colgo sempre e comunque il tuo invito, “ricordati che c’è anche altro”, cosa che, ho letto anche qui, è semplice ma sembra proprio non farla quasi nessuno, adagiandosi su una realtà che se va bene per se stessi, allora va bene per tutti, in primis per i/le mi* figli*.
Dàje.
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…..io ho sempre odiato il rosa.prima di partorire mia figlia ho praticamente fatto una campagna del terrore a chi vagamente poteva pensare di regalarmi un pò di rosa…arriva poi Mathilda. Mio fratello, stato via per un po di tempo, ( con il quale parlavo di cose altre..tipo “come stai”..e quando dico come stai intendo proprio quello) il quale ci regala un caldo pile rosa confetto.
Io sorrido e lo ringrazio sinceramente.
Piano piano, il rosa è entrato nella nostra casa…fiori..maglie , asciugamani, colori e giochi..pareti ..e ben presto ci siamo trovati a cercare tutto il rosa del mondo..io, mathilda..suo padre e i suoi due fratellini. Sono passati due anni.
Il rosa delle barbie, del gelato..della bici..dei graffiti sul muro, delle giacche. il rosa dei fiori, del cielo, delle big babol…davanti allo specchio facciamo l’elenco delle cose rosa che indossiamo..
Ma stavamo proprio cercando il rosa? Stiamo cercando di dire a Mathilda che è una femmina…casomai non le fosse chiaro?..direi di no..ma anche fosse a qualche misterioso livello…troviamo sempre il suo sorriso e questo ci fa stare tutti bene.
Riguardo ai giochi…..Mathilda corre verso le anatre, brandendo loro una barbie nuda in mano, urlando: All’attaccooooooo!
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Zaub quando parli del potere femminile legato alla riproduzione della specie, all’ostilità che ingenera (ricordo anche che ne parlavi in relazione alla violenza domestica che spesso esplode o escala proprio quando la donna incarna più fortemente questo potere, ad esempio quando è incinta), alla sua svalutazione, a me sembra che tocchi un punto fondamentale.
Parlando dei giocattoli però, non è che svaluto il psichico, è che forse non lo capisco o non vedo nel caso come dovrei applicarlo. E’ ovvio che il tal giocattolo lo considero solo un elemento tra i tanti dell’ambiente in cui cresce un bambino, prima di tutto la famiglia. Cioè non credo che se una bambina gioca con la macchinina poi fa la pilota. Allo stesso tempo mi sembra giusto che casomai possa prendere in considerazione con naturalezza l’idea, e trastullarcisi allo stesso modo dei suoi fratelli o dei suoi compagni d’asilo, senza sentirsi ripetere (a parole e con fatti e atteggiamenti) che le macchine sono cose da maschi. E ancor di più vorrei che non se lo sentissero ripetere i maschi.
In questa ottica 3 anni fa ho discusso all’asilo dei miei figli per un laboratorio di teatro: nella recita, co-inventata da educatori e bambini dell’ultimo anno, le femmine facevano tutte le principesse, si truccavano e si profumavano, cucinavano strillavano venivano salvate ecc. e i maschi erano feroci draghi o cavalieri, puzzoni, dediti alle carte e pugnaci. “Ma erano i bambini e le bambine che hanno inistito per fare quei ruoli” hanno detto le insegnanti. Ma appunto, per me un laboratorio di teatro sarebbe stato una buona occasione per scompigliare un po’ le carte, incoraggiare a giocare e provare un’identità diversa (forse un po’ come hanno fatto Trieste), o a esplorare l’idea che al genere che ci identifica non corrispondono per forza determinate caratteristiche e attività, il cavaliere può puzzare spadaccinare e fare la pizza da dio e la principessa truccarsi e combattere che so.
O l’anno scorso ho espresso le mie perplessità a un’insegnante alla primaria quando ho visto che sul libro di lettura c’era un’attività così: immagina di essere… se bambina, una sirena, che doveva agghindarsi i lunghi capelli ed essere osservante del galateo per trovare il principe azzurro, se bambino di immaginare di essere il re Tritone che comandava le guardie e menava il giullare. O, immagina di essere… a scuola di magia, gli aspiranti maghi stanno nel covo a escogitare codici segreti, le maghe studiano cucina, danza e recitazione.
Per quanto riguarda i giocattoli, e i modi in cui il marketing cavalca e ribadisce certi stereotipi, anche se non penso che sia la chiave di volta nella lotta per la parità (specie quanddo ci sono discriminazioni concrete e palesi come le dimissioni in bianco), credo che sia comunque utile essere consapevoli del fenomeno. E insegnare anche ai bambini, compatibilmente con le capacità e con l’età, a riconoscere certe proposte per quello che sono – appunto, solo modi per vendere più roba.
Scrivi ” il rosa è una scorciatoia del riconoscimento identitario per un aspetto di se che è considerato importante. La bambina ci si riconosce e si sente vista.” Assolutamente. Ma continuo a pensare che le bambine oggi si riconoscono così facilmente e massicciamente nel rosa (per semplificare) anche perché non hanno poi molte alternative. Per fare l’esempio dei Lego, visto che è uno dei giocattoli più diffusi: più o meno dagli anni ’80 il loro marketing, prima rivolto a bambini e bambine, si è orientato via via radicalmente ai maschi. Le pubblicità sempre più testosteroniche – solo bambini maschi, fuori campo vocioni maschioni, molte nuove serie basate su azione, combattimenti, menarsi, ispirate a eroi maschi. Oltre il 90% delle figurine Lego stesse sono maschi, i protagonisti lo sono sempre, le femmine assenti o sparuta minoranza e comunque mai in primo piano. E’ chiaro che in un mondo così una bambina difficilmente si sente vista: non c’è. Dopo aver parlato solo ai maschi per 30 anni, per recuperare clienti femmine Lego s’inventa di fare una serie apposta per loro. Lego Friends, scatola viola e molto rosa e viola anche nei pezzi, è un successo pazzesco. Le bambine ci si buttano a pesce. Anche nostra figlia li voleva, glieli abbiamo presi (come tutte le altre serie sono stati poi inglobati nel legocomio familiare, i bimbi ci giocano tutti insieme mischiando i pezzi). In alcune occasioni li ho regalati ai compleanni di altre bambine, sempre estasiate di riceverli. E’ indubbio che le bambine si sono riconosciute in L.F.. E’ per il rosa e violetto? Per le minifigures più slanciate e dettagliate, le attività diverse (feste in piscina, bar, parrucchiera, veterinaria, stare con le amiche, cura bestiole, shopping mall, salvataggio cuccioli)? O forse perché in un mondo Lego popolato quasi solo da maschi, qui, e solo qui, le protagoniste sono cinque femmine? Le bambine si sentono viste in questo mondo rosa forse perché, almeno qui, ci sono e non da subalterne?
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Grazie per il chiarimento, che ho molto apprezzato per il contenuto, tra l’altro ovvio oltre che assolutamente condivisibile e che mi ha allontanato dal rischio di banalizzarne il significato riconducendolo a noiose stereotipate interpretazioni…
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Arrivo ultima, ahimé, e con un ritardo che probabilmente nella comunicazione dei blog non è accettabile (giustamente): me ne scuso con voi, ma ci tenevo a intervenire comunque. Sono una delle due curatrici del numero della rivista storica su giochi, giocattoli, letteratura per l’infanzia e ruoli di genere. Anche da qui ringrazio Costanza per aver accettato di discuterne con noi e per aver scritto questo bellissimo post che mi ha permesso di riflettere meglio su tutto quello che lei ha portato in una discussione che, “live”, era forse sfumata un po’ troppo in fretta. Per me, che non sono psicologa di formazione ma storica, è molto interessante – tanto per cominciare – l’articolazione delle semantiche rispetto alle quali il gioco struttura (o contribuisce a strutturare) le individualità e quindi anche i ruoli di genere. Sono d’accordissimo su quello che scrivi sulla potenza generatrice delle donne, costantemente rimossa, repressa, sottoposta a tentativi e volontà di controllo da parte di tutti i poteri: non voglio fare retorica su questo, ma forse almeno una battuta sì. Sono sempre stata convinta che questo potere qui abbia prodotto e continui a produrre complessi e rosica: altro che l’invidia del pene! (non so se vi ricordate di uno dei viaggi dell’ex papa Ratzinger in Germania, una decina di anni fa: solite adunate, papa-boys and girls con le chitarre, le tende, e tutta quella roba lì. E delle donne partorienti che hanno preteso di partorire proprio durante la preghiera del papa e in quei campeggi. All’epoca ci avevo visto anche questo messaggio: di potenza femminile che vuole essere presa in considerazione da un potere religioso solo e tutto maschile (e celibe!) – per giunta in Germania, dove le donne cattoliche si giocano da decenni la partita, per loro fondamentale, del sacerdozio femminile. Ho provato a dire questa cosa una volta a delle mie colleghe, storiche femministe e storiche delle donne, e ancora un po’ mi sbranavano. Ma temo di essere andata fuori tema, scusate).
Non mi spaventano affatto i giocattoli e i giochi legati a ruoli di genere per così dire “tradizionali “, e sono molto d’accordo sull’importanza del contesto, in primo luogo familiare: quando si ha la fortuna di averlo un contesto familiare, e magari pure decente. Pur sapendo quasi niente di pedagogia ho trovato cretina la scelta di certe scuole materne del nord Europa, che hanno preteso di proporre ai bambini solo giochi, libri e vestiti “neutri”: non credo affatto che i generi si debbano reprimere, ma al contrario che li si debba esplorare e che i bambini – vivaddio – debbano essere liberi nel farlo. Al contrario l’esperimento triestino mi pareva fine e intelligente, oltre che sensato: e infatti ha scatenato il putiferio (manca poco che si facessero passare quegli educatori ed educatrici per gli orchi delle favole…)
Sono però meno ottimista sulla irrilevanza dei modelli culturali, forse perché per esperienza diretta osservo da qualche anno bambini in età scolare (mio figlio e i suoi amici e amiche) e mi pare che – come ha sottolineato Francesca, negli ultimi decenni ci siano state proposte molto decise (e dal mio punto di vista retrograde) su questi aspetti e un irrigidimento nella definizione dei ruoli: ecco, io non credo che, ad esempio in Italia, questo sia totalmente slegato da un discorso politico e culturale più ampio.
Il problema dei lego friends secondo me non è che si rivolgano esplicitamente alle bambine ma: 1. Che gli altri lego siano diventati maschili (perché? Quando è successo? Noi bambine degli anni 70 ci giocavamo coi lego: non quelli differenziati, ma quelli di tutte/i); 2. Che i LF siano di due colori e con gli incastri semplificati (perché? Non mi risulta che le bambine abbiano una manualità meno fine di quella dei maschi); 3. Perché le figurine LF fanno solo le modelle, le parrucchiere, le veterinarie di cuccioli…. Per questo pare che ci siano state proteste e che poi la lego abbia deciso di metterci una pezza proponendo il Lego “research institute” con 3 figurine di scienziate donne, etc. Almeno, così ce l’hanno raccontata (a proposito: in italia è mai arrivato?).
E i Playmobil ve li ricordate? In Germania continuano a essere un gioco per bambini e bambine, con molti personaggi femminili (non subalterni, anzi): qui no.
Non voglio farla troppo lunga, ma – pur consapevole che non si possa e non si debba risolvere tutto nei giocattoli, nei modelli, nel culturale, e che sicuramente l’ambito psichico e quello politico siano di gran lunga più importanti – a me pare che da certi giochi e da certi libri arrivi un messaggio di autosvalutazione, o di potere fondato solo su certi canoni estetici stereotipati (scusate, ma io alle principessine merlettate e sviolettanti da piccola preferivo Pippi calzelunghe, e a 45 anni sono della stessa idea), che forse alle donne che crescono non fa benissimo. È questo che mi inquieta, non i ruoli di genere distinti, e questo per me è anche un discorso politico (per non parlare dei modelli di genere e di ruoli familiari che escono ad esempio dai libri di scuola!). Mi piacerebbe andare avanti (e porre ad esempio il problema di COME i bambini e le bambine elaborino in maniera autonoma i loro giochi, e se questo sia osservabile, come oggetto storico ma non solo quello). Però mi pare di essere stata fin troppo lunga e confusa e allora mi fermo qui. (credo sia la prima volta che intervengo su un blog…)
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