Comunicazione dell’etica/Etica della comunicazione

Alcuni giorni dopo, la morte di tante tante persone annegate non mi fa riuscire a scrivere niente di sensato. E mi sento assolutamente fuori luogo sia nel concentrare l’attenzione sulle vite perdute, sia nel pensare a strategie per fronteggiare l’accaduto politicamente e concretamente. Nell’impossibilità della concretezza che da lo stare lontani da un evento, lo stare lontani dal potere su quell’evento, ci si sente indugiare nella retorica, in qualcosa di inutile, in qualcosa che ci tranquillizza l’un l’altro. Non posso parlare del barcone, non posso parlare dei provvedimenti politici. Posso dire che dobbiamo sostenere economicamente le onlus che si occupano dell’accoglienza di immigrati, o del loro sostegno psicologico o medico, o materiale.

Poi forse, possiamo ragionare su un’altra questione che ci ha portato la vicenda della strage in mare, ed è la questione di come fare a trasmettere un pensiero morale dove non c’è. Il giorno dopo il naufragio, sono apparsi sui social network una serie di messaggi che suonavano così: meno male mangiano i pesci, uno di meno che ci ruba il lavoro.
Dici. Gentaglia. Dici. Non ci divido la cena. Dici quello che ti pare – ma come l’argini questa roba? Che si deve fare.

Ho visto diverse strategie retoriche. Una molto diffusa, e comprensibile sotto il profilo razionale – è quella di richiamare alla nostra storia patria. E’ successo anche a noi! Noi anche siamo andati in barconi gremiti fino all’America a cercare fortuna e sopravvivenza! E come tutti i poveri, abbiamo importato le strategie di sopravvivenza dei poveri – va detto anche con una certa sofisticata organizzazione – questa strategia si appella a qualcosa di intellettuale che ignora però completamente l’emotivo. si basa sulla falsa credenza che noi se vediamo uno che affoga lo facciamo perché era successo lo stesso a nostro zio – il che invece è a pensarci assolutamente irrilevante in quel frangente – e sull’ancora più illusoria convinzione che uno riconosca in un signore dell’ottocento, colla paglietta rotta e i pantaloni color seppia il proprio zio.

Agli italiani, degli antichi italiani non gliene può fregar di meno. Non c’è parentela, non c’è legame, non c’è relazione, manco discendenza. Anzi, un’eventuale vivida assunzione di consapevolezza del proprio passato straccione elicita la paradossale reazione di lontananza, del mica sono io quello la, io con quei baffi a manubrio ma per favore, io a cercare la speranza ma di che parlate. Lontananze siderali riverberano dalle foto postate dei benintenzionati. Non c’è accorato appello che tenga.
Perché la questione centrale è rintracciare un umano, anteriore al contratto sociale. Quella cosa per cui se stai passeggiando e una persona cade in mezzo alla strada vai a soccorrerla. Vai a soccorrerla, perché quella persona è tuo padre, tua madre, tua sorella, tuo figlio sei te, è corpo umano come te, e questa cosa, in linea teorica dovrebbe essere anteriore al contratto sociale, dovrebbe essere un regalo di specie, che la Natura da per aiutare alla sopravvivenza. Una sorta di pensiero istintuale.

Molta fotografia di guerra, all’evo prima di Internet e della riflessione sulla correttezza politica si è valorosamente battuta per far vedere il corpo come il tuo che stai ignorando e sta morendo, soffrendo, subendo un martirio. I bambini nudi sono tutti bambini nudi, sono nudità tutte uguali, sotto la pelle e i vestiti, e le geografie, e le classi sociali e le bombe, il sangue sempre rosso è, la ferita è ferita la morte è morte. L’immagine può! E’ stato un grande passaggio a cui noi siamo tutti grati. Oggi non so se però possiamo più farlo, perché insieme alla nobile prospettiva pedagogica e morale, rimaneva una asimmetria razzista e terzomondista, o in altri casi meramente classista: Io che fotografo insieme a colui che guarderà la foto siamo i soggetti responsabili del mondo, quelli che devono essere morali ma la cui soggettività e intimità e individualità non sarà mai violata, non si vedrà mai la nostra morte o la nostra perdita di dignità. Il fotografato sarà sempre uno che conta di meno, uno condannato al suo stato di vittima desoggettificata, scarnificato della storia, del pudore, del diritto alla dignità. Fatta questa riflessione, fotografare da vicino e postare sui social netwark la foto di un bambino morto, è una cosa che non si può più fare. Fotografare i corpi dei giovani studenti africani trucidati dall’Isis è una cosa che non si può fare
Che cosa si può fare?

Come si fa a ottenere l’effetto della foto del bambino morto, senza far vedere quel bambino morto? Si fa per esempio, usando narrazioni efficaci, che parlino dei genitori e dei figli – come ho visto fare in alcuni bellissimi status – per esempio questo – di Alfonso Antoniozzi:

Che quando fai ‘sto mestiere poi te le immagini le cose no? Stai nel letto e ti immagini ‘sta mamma che prende su i due figli e scappa su un gommone gestito da delinquenti. Te la vedi. E quanto ci avrà pensato, prima. E quello che avrà fatto per tirare su i soldi. E da dove si passa, e come, e poi? Ma è sicuro? Te la vedi che mette da parte tutte le paure e parte. Te la vedi schiacciata in mezzo a un sacco di gente che non conosce, qualcuno forse, ma sono tanti, troppi, reggerà? Hanno detto che è sicuro, me l’hanno detto! Te la vedi rinchiusa nella stiva sigillata, per sicurezza hanno detto, per i controlli. Te la vedi che si guarda indietro sperando di aver abbandonato tutti gli orrori. Te la vedi questa donna, vedi le sue speranze, le sue miserie, i suoi amori gli sguardi i figli il marito i bambini la scuola il pranzo la cena i racconti la guerra i colpi di mitraglia gli attentati le bombe il terrore le decapitazioni. E poi ti fermi. Perché se guardi oltre, se per maledizione la mente si figura il viaggio e la sua conclusione, poi lo devi moltiplicare per settecento. E non è cosa per il cuore di un essere umano.

Secondo me è davvero un buon tentativo – perché mi ha fatto stare male, e per queste cose bisogna stare male. E non serve star male per quel bambino, per quel volto, per quella foto, per quella storia precisa, per quella supersoggettificata vicenda. Non serve che la madre, il vecchio l’uomo forte siano neri, gialli, poveri o ricchi, simili o dissimili – non serve far vedere la tragedia di un nome preciso – anzi al contrario: Serve l’umano qualsiasi, il dato trasversale dell’umano, il mortale che ci accomuna, l’uno a zero contro il potere delle cose che sempre hanno le cose contro le braccia nude. Serve l’essere qualsiasi.

Tuttavia, quando si vuole riattivare l’etica scrivendo – si ha un altro problema, ed è quello di andare oltre la conferma narcisistica tra consanguinei politici e morali e socioculturali. Il rischio che corrono anche le veramente brave persone sui social network, è quello di rinfrancarsi l’un l’altro nell’evocazione della compassione – dalla più deteriore alla più nobile delle accezioni . Sono buono! Cazzo ti prego non è vero che sono buono? Confermami la mia dolcezza, io lo farò con te. Oltre che una questione tipica della comunicazione di rete, destinata a fondarsi su confraternite di affini, è’ la seconda faccia della nostra medaglia storica: siamo un paese che, più di altri, conserva forti tradizioni politiche e identitarie, in cui stessi gruppi sociali si passano il testimone dei partiti che si avvicendano, con una prassi che solo l’avvento dei 5 stelle ha blandamente disordinato. Ma di parlare fuori dal proprio orto sociale, politico, culturale, manco ci passa per la crapa. Allora la questione diventa quella di far arrivare le parole di Alfonso a chi non è amico di Alfonso, nella rete e nella realtà, farle arrivare a qualcuno che abita altre vite, altri lessici altre canzoni altre morali. Ed è una questione quotidiana politica, che ci invita a riformulare il nostro modo di stare al mondo, e di parlare politicamente. Cosa che va fatta a priori, a prescindere da questo contesto.

8 pensieri su “Comunicazione dell’etica/Etica della comunicazione

  1. Molto bella e profonda questa riflessione, profondamente umana, meditata con l’umiltà che nasce dalla competenza e dalla capacità di riflettere. Resta aperto il problema di cosa possiamo concretamente fare contro la disumanizzazione eletta subdolamente a posizione politica legittima come le altre. Da anni mi interrogo sul perché ci sia questo dilagare di razzismo, antisemitismo, desiderio di ricacciare gli ultimi della Terra in uno status senza uscita, e a volte mi dico che non c’è una misura per stabilire se effettivamente tutto questo sia un aumento. Potrebbe anche essere in aumento, semplicemente, la propensione ad esternarlo, il malinteso senso di libertà nel riaffermare, in pratica, il diritto di essere razzisti senza nascondersi, e questo perché c’è stata una politica che si è retta sul rivalutare il peggio che c’è in noi, e che prima si tendeva a tenere nascosto. Nel linguaggio comune è entrato il termine “buonista”: la tua compassione umana non è superiore alla mia, solo che tu, ingenuo, o conformista, o cultore del “politically correct”, la usi nei confronti della realtà, mentre la ragione ti dovrebbe suggerire altro. Ho letto perfino una definizione a suo modo originale del “buonismo”: narcisismo etico. Quindi il riferimento a sentimenti umani basilari finisce per essere delegittimato, perfino deriso, ottenendo lo scopo di incrinare i “fondamentali” della convivenza. E contro questo si può fare poco, ma quel poco che si può fare conta. In Italia esiste il reato di “incitamento all’odio razziale” il quale, così com’è configurato, serve più che altro a colpire gli striscioni di ultras negli stadi. Va ridefinito. Nel senso che incitamento all’odio è sfuggente, diranno no, io li amo, ma sono inferiori e non li voglio fra le palle. Secondo me la professione di idee razziste dovrebbe avere almeno due conseguenza pratiche: essere requisito di indegnità per il ricoprire cariche pubbliche, anche se elettive; e comportare l’inibizione dall’insegnamento. Il resto, se non si fa “rete”, serve a poco. Per i tre o quattro che mi leggono io uso il social network per promuovere la “tolleranza zero”. Ho rinunciato a rivolgermi ai razzisti, non sono educabili, preferisco rivolgermi agli altri.
    Chiedo scusa per essermi dilungato.

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  2. E quindi? come si fa a fare arrivare quella cosa di Alfonso a chi non è amico di Alfonso? Perché io l’avevo condivisa subito quella cosa lì, appena l’hai condivisa tu. Ma arriverà il mio messaggio, fuori dalla mia confraternita? O penseranno en passant che sono la solita rompicoglioni “buonista” (aarrrgghhh) e basta?

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  3. Grazie, da molto tempo sentivo il bisogno di qualcuno che mi guidasse in una riflessione di questo tipo. C’e’ questa particolare emozione negativa che provo quando qualcuno su facebook, magari un conoscente o un collega o un amico di infanzia che ho un po’ perso di vista, posta qualcosa sull’argomento di cui sopra (o su altri temi, Greta e Vanessa tra tutti uno dei piu’ terribili), e queste frasi che posta sono razziste, sessiste, violente anche… La sensazione di vivere in una cerchia isolata di persone che vedono il mondo come me, e che probabilmente non sono la maggioranza. Come si fa a raggiungere questi altri e aiutarli a cambiare prospettiva? A me viene da lasciar perdere subito. Mio marito dice che lui prova sempre a portare il discorso su persone concrete, su casi concreti, cercando di spingere l’altro ad abbandonare la generalizzazione. Magari e’ piu’ facile provare un po’ di empatia per il poveraccio che conosci e che vedi ogni giorno, magari questo aiuta.. non so…

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  4. Il messaggio di Alfonso non arriva se non a quelli che lo vogliono accogliere. Che poi basta pensarsi un secondo chiusi in una stiva di una nave che si cappotta ed entra l’acqua, e pensare che non è un film, e che è successo 700 volte minimo, in un colpo solo. Pare incredibile che non sia arrivato, o meglio che non si sia creato automaticamente, il pensiero di Alfonso, in tanta gente ignobile, perché alla fine la compassione dovrebbe essere appunto quella semplice cosa che se ti casca uno davanti ti fermi e lo aiuti. E’ proprio vera sta cosa del corpo, forse però siamo così lontani dalla paura della morte violenta che non ci rendiamo conto di cosa sia vivere con questa paura, e quindi scappare, per poi morire proprio di quella morte violenta da cui scappavamo. Forse tanta gente non ha una testa e tutto sommato è come se non si sentisse manco il corpo.

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  5. Giovedì pomeriggio, Aprilia, corso di recupero di matematica, che terrò fino a fine anno.
    Uno dei miei alunni del corso, un ragazzino di seconda media proveniente da un contesto non marginale, di famiglia strutturata e non priva di mezzi, nel bel mezzo della lezione mi propone il seguente argomento: “Prof, ha sentito che sono affogate 700 persone?”

    Io: “mio caro L., purtroppo pare siano addirittura di più, potrebbero essere quasi 900”; lui mi risponde, senza esitare “Beh, 700 o 900 a me non importa niente, non mi dispiace, questi vengono qui per rubarci il lavoro, per portare malattie, per rubare e uccidere, meglio che siano morti”

    Onestamente, quasi non sapevo cosa rispondere; sono rimasta annichilita – io, quella che ha sempre trovato la frase da dire nel momento in cui è necessario.
    Ho solo provato un orribile senso di fine di ogni cosa, di definitiva rottura di ogni possibilità di coesistenza civile, in un paese una volta dolce e ragionevolmente vivibile, trasformato oramai in teatro di patetiche e meschine guerre tra poveri.

    Dodici anni. Come sorprendersi, poi, di tutto il resto?

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  6. E, per completare il suo ragionamento, ha spiegato a tutti che lui è la persona più cara del mondo con quelli che gli sono cari, amici, parenti, etc, ma di tutti quelli che non facciano parte del suo stretto entourage, non gli frega assolutamente niente.

    Empatia zero; familismo amorale a mille. Andiamo bene.

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  7. Io però ripongo le mie speranze in quel corpo e nell’istinto di animalesca simpatia che anche le bestie sanno esprimere talvolta nei confronti dei loro simili. Fosse stato sulla spiaggia, con un binocolo in mano, quel ragazzino avrebbe forse sentito dentro di sé l’angoscia di non poter far nulla, avrebbe forse pensato “ma nessuno li va a prendere?” (che poi un mercantile si era avvicinato e la tragedia si era compiuta proprio perché i poveretti avevano fatto sbilanciare la nave per attirare la sua attenzione, no?). Gli abitanti di Lampedusa tante volte sono andati incontro ai naufraghi coi gommoni e io non penso che siano antropologicamente dissimili dal ragazzino spietato, solo che sono lì col loro corpo e hanno visto, quindi prendono e vanno. E’ alla semplice e spietata realtà di quello che accade che molta gente deve essere riportata, basterebbe questo per essere più compassionevoli (nel senso etimologico del termine). DEVO sperare almeno in questo, e che i vari Salvini, con le loro ruspe, fossero presi per la collottola e trascinati in riva al mare, con qualcuno che gli grida nell’orecchio “Decidi tu, stronzo, puoi decidere, li lasciamo affogare?”. Voglio vedere se quelli che fanno proclami poi si prendono la responsabilità di uccidere.

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  8. punto estremamente dolente… la compassione, proprio nel senso etimologico del termine, lo sguardo umano, sono propri solo di chi in qualche modo è già sensibile. gli altri non vengono raggiunti, non solo non hanno “sentimento” per gli altri, ma neanche quella visione civile per cui facciamo tutti parte del mondo, e ciascuno di noi fa la propria parte per portarlo avanti – siate il cambiamento che volete vedere nel mondo. anni di attivismo in amnesty international mi hanno portato in convegni, incontri, tavolini di sensibilizzazione, rivolti a tutti ma ai quali partecipavano per lo più solo quelli già sensibili. ce la cantavamo e suonavamo da soli. ora lavoro per i richiedenti asilo, almeno sono più utile. forse sarebbe utile un servizio civile obbligatorio, per maschi e femmine, sei mesi da passare con anziani, bambini, portatori di handicap, strutture di accoglienza?

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