Sessismo e giocattoli e qualcos’altro.

Qualche giorno fa, una mia amica mi sottoponeva questo articolo chiedendomene un parere. Riguarda l’annosa questione del sessismo nei giochi, e in particolare le ultime proposte della LEGO per quanto riguarda la sua proposta etnografica, diciamo così. Per anni e anni infatti, i bambini hanno giocato con costruzioni e pupazzi che rappresentavano piccoli maschi all’opera: in particolare maschi operai maschi ingegnere maschi capocantiere – ma certo anche maschi contadini e allevatori e i magnifici maschi marinai. Le femmine nel mondo lego sono state sempre sottorappresentate di parecchio. Diciamo con la stessa proporzione in cui erano presenti ne’ i Puffi: ossia una femmina, in quel caso puffetta. Una femmina generica la cui identità è fondamentalmente il fatto di essere femmina. L’articolo riporta che ad oggi Lego ha deciso di introdurre alcune modifiche, che secondo l’autrice non sono sufficienti: c’è una mamma c’è una donnina che accudisce una omino anziano, e ci sono alcune professioniste altamente specializzate. E’ questo il sessismo? Chiedeva allora la mia amica, forse pensando – ma non è altrove? Non ci sono cose più importanti?
Questo tipo di obiezioni capita spesso quando si parla di rappresentazioni di genere e non hanno sempre a che fare con un maschilismo implicito, ma qualche volta con una certa dose di scetticismo in merito al potere dei modelli e delle immagini. La rappresentazione conta meno della realtà, la realtà è fatta di cose materiali come le donne licenziate quando sono incinte, come le donne che non possono accedere a certe carriere, come le donne mobbizzate perché si devono occupare di un disabile in famiglia, e come le donne che devono lavorare a casa e al lavoro perché i soldi servono ma i cessi li pulisci te e certo come le donne picchiate, le donne malmenate le donne lasciate sole da mariti che non si occupano dei bambini.
Su queste questioni io allora ho tre ordini di considerazioni.

1. La prima riguarda il potere delle rappresentazioni. Il mondo rappresentato nei giocattoli ha senza dubbio un ruolo importante perché è una importante rappresentazione del possibile che hanno i bambini, giocando giocano con l’ipotesi di mondo che domani si troveranno ad abitare. Un’imprenditoria culturale veramente forte – in termini di marketing ancor più che in termini di ideologia – è un’imprenditoria capace di inventare un nuovo desiderio di mondo facendo finta che sia un’evoluzione del vecchio, e questo è qualcosa in cui riescono pochi geni di talento. Una buona imprenditoria è quella che però, almeno intercetta la realtà del mondo esistente: nel quale donne che fanno lavori qualsiasi ce ne è assai. Il successo presso i più piccoli di cartoni animati attenti alle tematiche di genere – molti bambini di oggi che vanno alla scuola materna per esempio strepitano letteralmente per la dottoressa pelouche, una bimbetta che aggiusta i giocattoli ispirandosi a sua mamma che è dottore – mi fa pensare che a un bambino piccolo giocare con un contingente di operai costruttori dove ci siano anche delle operaie, non farebbe sto gran problema.
Ritengo quindi la polemica fondata, e anche penso sia necessario come dire parlarne a casa, dire qualcosa ai bambini in proposito – maschi o femmine che siano – perché l’oggetto culturale non vive da solo, ma continua la sua attività ogni volta che è toccato da qualcuno. Non sarà un problema per i bambini far loro notare lo scollamento tra la realtà la fuori e la noiosa pletora di maschi monocromo che maneggiano.

Tuttavia ho anche la sensazione che il potere del giocattolo e delle rappresentazioni soprattutto per l’infanzia sia come esasperato, anche da parte di chi li difende strenuamente, come se fosse oggi l’unico agente responsabile dell’edificazione politica ed identitaria dell’infanzia. Contano molto ma molto di più i rapporti tra i generi che i bambini osservano a casa, le possibilità di identificazione che hanno a disposizione, e anche le aspettative consce o inconsce che gli adulti importanti hanno verso di loro. Per esempio ho sentito dire molto spesso in famiglie piuttosto conservatrici nell’organizzazione dei ruoli di genere, rispetto a una figlia: lei non è fatta per studiare, permettendole una pigrizia, una svogliatezza una resa dinnanzi alla scuola che al figlio maschio sarebbe stata garantita con meno prontezza. I giochi davvero sono una parte minoritaria rispetto a quello che accade in casa, a cosa fanno di se i genitori, che strade aprono ai figli.

Ma c’è un’altra cosa che mi viene da pensare, e che avverto come problema scottante, specie dalla mia angolazione professionale, e riguarda la rappresentazione del materno. Ci troviamo in un dibattito oggi, anche nella sua declinazione nel mondo infantile sui problemi dei giochi e delle rappresentazioni nel gioco, che ha al centro l’incandescente rappresentazione del materno. La difficoltà immane che ha l’Italia con la femminilità e la maternità ci sta portando a un tremendo invecchiamento del paese la cui unica salvezza, in mancanza di altro sembra essere la tanto vituperata immigrazione. Si cominciano a fare figli tardi, spesso non se ne fanno affatto, o se ne fanno pochi. Non esiste una rappresentazione della maternità iscritta nella vita civile. Le mamme rappresentate come lavoranti nel mondo dei giocattoli mi paiono assenti, nel mondo dell’animazione cominciano a comparire, ma sono piuttosto sporadiche. C’è un problema che il femminismo alle volte esaspera piuttosto che risolvere che ha a che fare con la coniugazione della sessualità con il resto dell’identità. Ho la sensazione che questo potere, che nell’infanzia cova come brace sotto la cenere in tutta la sua forza esplosiva, polarizzando i rapporti tra i bambini, venga spesso minimizzato nelle discussioni oppure reso l’unico significativo, ma riesce difficile pensarlo come compenetrante la realtà nel suo violento potere, differenziante. Eppure questa cosa che le bambine sono quelle che domani faranno dei bambini a me sembra importante.
Quello che mi sconvolge è che su cento operai ci sia solo una madre.

Mi fermo qui. Il resto spero nei commenti!

11 pensieri su “Sessismo e giocattoli e qualcos’altro.

  1. Mi sono attaccata ad un concetto, o quello si è attaccato a me. La rappresentazione incandescente del materno. Ne intuisco la portata, come la tensione allo strattonare la funzione e il ruolo materno di qui e di la’, spesso generando scollamenti identitari.
    Scollando il ruolo materno dall’essere persone, donne, cittadine, esseri umani, e come se le parti non potessero dialogare tra loro, come se il materno pervadesse tutto. È questo uno dei fattori perturbanti?

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  2. a proposito della rappresentazione del materno, tema molto importante e, come per molti altr temi in Italia, oggetto di pensiero schizofrenico, non so se si pul dire. Da una parte tutta quesa enfasi sui figli e la mamma italiana, dall’altra nessuno che dica con chiarezza che se le donne italiane continueranno a fare meno di un figlio e mezzo a testa, anche un figlio e un terzo, in molti luoghi, la società italiana e destinata con certezza a scomparire. Si tratta di numeri: l’ indice di ricambio generazionale della popolazione è ovviamente due, due genitori dovrebbero fare due figli, che un giorno li rimpiazzeranno. E continuiamo a spendere per gli anziani, investiamo sugli anziani, so cosa dico, a proposito di follia. Nella zona sociosanitaria per la quale lavoro la spesa per gli anziani e sette o otto volte più alta che per i minori o le giovani coppie.

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  3. vero che il potere del giocattolo è a volte fin esasperato, ma dal punto di vista “sociologico” penso si apiù importante ragionare nella direzione opposta: il giocattolo non lo vedo tanto come motore/soggetto quanto come oggetto/riflesso della società. i giochi dei bimbi sono in fondo specchio dei “giochi”, ovvero dei modelli, adulti, e non di meno lo è probabilmente la presenza femminile.

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  4. Io credo che spetti a noi ,mamme moderne italiane ,insegnare con l’esempio pratico( i giocattoli da soli non basteranno) ai nostri figli/ e che si può essere migliori e maggiormente paritari che nelle generazioni passate.
    Non tanto con le parole ma con i fatti.
    Finché continueremo a perpetuare atteggiamenti antichi( tipo non permetto alla mia figlia femmina di studiare perché deve sposarsi e fare figli, come hanno fatto con me) non arriveremo a nessuna evoluzione.
    Confido negli immigrati ma tra qualche generazione, vedendo per esperienza lavorativa , la maggior parte ad ed. Delle donne arabe accompagnate per forza da maschi, che impediscono loro di togliersi il velo in pubblico o di frequentare la scuola per imparare la lingua.

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  5. Anche a me ha colpito “l’incandescente rappresentazione del materno”. Ho provato a ragionarci su e questo è quanto. Se le donne non trovano lavoro, non lo trovano senza lo scandalo della firma alla lettera in bianco, devono dolorosamente scegliere tra lavoro e figli o, quando va bene, conciliano, non si va da nessuna parte e il materno continuerà a essere percepito come pericoloso, minaccioso, potenzialmente distruttivo. Se è poi vero che veniamo da un passato prossimo in cui le persone (i bisnonni) erano magari contadini/e ed emigranti, che vissero con molta durezza e per cui l’arrivo di una nuova vita non solo non era sempre ben accetto, ma era talvolta una sciagura senza soluzione, soprattutto per le donne che facevano dodici, tredici figli sfiancandosi, percepire il materno come una questione gioiosa va da sé che è complicato e si aggiungono, magari inconsciamente, altre oscure minacce, una delle quali è quella di ridursi come le antenate, fattrici senza una vita e un’identità oltre la riproduzione, inchiodate alla Natura. D’altro lato, il materno è rappresentato, in contrappunto, come irenico, con un richiamo al sacrificale che glorifica, incrementando una retorica che nel nostro paese ha tanto spazio, per esempio nelle pubblicità – mamme giovanissime con il filo di perle al collo e che chiedono con aria bambinesca come evitare le irritazioni da pannolino al loro bambino, rigorosamente maschio. Sono due facce della stessa medaglia, una complice dell’altra; la rappresentazione irenica e irreale, infatti, non ottiene che si facciano prima più bambini. La realtà materiale, il passato prossimo e la rappresentazione irenica, secondo me, costituiscono insieme una trappola di castrazione. In questa situazione, la rappresentazione del materno è finta oppure rimossa, riattivando continuamente la trappola, che appunto depotenzia il materno e, in un certo senso, lo isola, rendendone la rappresentazione ancora più incandescente, ma nel senso di minacciosa, non di creatrice.
    Parlare di giochi è un tentativo, forse, di rompere la trappola, che si avverte più difficile da aggredire su altri aspetti, da un punto di vista che sembra – e forse è – meno influente, anche se pure l’immaginario crea la nostra realtà.
    Tutto questo, naturalmente, secondo me, che posso aver scritto un sacco di sciocchezze.

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  6. forse i grandi farebbero meglio a starsene fuori dai giochi dei piccoli. I miei due figli han giocato molto con i Lego, contrariamente all’intenzione del produttore che per aumentare le vendite presenta sempre un gioco nuovo da montare e lasciare integro, Ale e Matti dopo qualche giorno smontavano e rimontavano con la loro fantasia (credo sia questo il vero scopo del gioco). Per quel che riguarda gli ometti, è vero erano tutti maschi ma era indifferente perché rimanevano sempre nella scatola o tutt’al più venivano staccate le loro teste per farne antenne o pilastri o pali, quindi fossero state donnine sarebbe stata la stessa cosa. Per la cronaca i miei figli trentenni non vanno in giro a tagliare teste a nessuno.

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  7. Ho le idee molto ingarbugliate su questo tema, oltre ad una netta incapacità di separare il giudizio per le opinioni da quello per chi le esprime. Mi onora la tua risposta diretta ad una domanda che mi continua a rendere inquieta, ma è un mio problema perché fatico a raggiungere una dimensione logica e pacificata con il mio stesso genere, soprattutto quando le sfumature di genere e intragenere vengono negate, annullate, come se essere donne fosse una questione di corporativismo e non una dannata faccenda individuale.
    Certamente ora grazie al tuo intervento pulito vedo anche io come una rappresentazione ludica e in scala ridotta del mondo che sarà può diventare una piccola via che conduce più agevolmente al cambiamento delle regole. Poi mi introduci ad un ambito collegato, a cui l’articolo della Siviero pure rimanda e l’avevo scordato, che è quello della maternità. Ci torno tra un attimo visto che la matassa si sbroglia nella mia mente senza un ordine.
    A dirla tutta, comincia a starmi stretta questa velleità didattica che appartiene ad alcune quando si pongono nella condizione di pontificare su cosa, come, quando, quanto intensamente, noi donne dovremmo essere e agire. La società mi pare sia abbastanza nettamente fratturata in due corpi femminili separati, laddove la linea di separazione è ancora una volta di matrice culturale e abbastanza volontariamente tracciata. C’è un corpo maturato nella consapevolezza dei propri diritti giuridici, sociali, familiari; ce n’è un altro che resiste in una condizione di analfabetismo di costume inveterato, risponde a modelli commerciali stantii, alle richieste sociali di tenersi defilato, salvo ritagliarsi uno spazio da protagonista in questioni che si rivelano marginali per la società giudicante: del tipo, cosa cuciniamo oggi, che detersivo renderà più bianco il mio bucato, come impressionare gli ospiti alla vigilia di Natale, mio marito porta i soldi a casa ma sono io che li amministro, e via dicendo. Cose che io reputo anche belle nella loro semplicità, e rassicuranti perché ferme nei secoli. Se le guardo in chiave prospettica invece mi allarmano perché vedo attraverso questa formazione progredire nuovi individui formati alla stessa maniera. Eppure, se una donna vuole liberamente dedicarsi alla sua famiglia, se in piena consapevolezza sceglie di essere moglie e mamma piuttosto che centinaia di altre cose, dovremmo riconoscergliene il diritto alla stregua di come si riconosce quello a non volerne affatto di figli, e nemmeno di mariti possibilmente. Ambizione che oggi suona così terribilmente trendy, al punto da diventare cheap. Invece ci fa storcere la bocca, ci fa adottare un atteggiamento denigratorio, compassionevole quasi: poverina, non ha ambizioni, non ha contezza delle sue possibilità, ma poi ce le avrà davvero queste possibilità? Magari è solo scema.
    Ancora, ma forse anche qui la mia visualizzazione è guastata dal preconcetto e dalla frequenza con cui mi cadono sotto gli occhi certe dinamiche: la beatificazione mistica, ma anche un po’ laica, un filo progressista, troppe volte aggressiva sulle minoranze spaurite, della maternità e le sue collaterali. Oggi un figlio costa tanto di più quanti meno se ne fanno, ci si pone domande, ma soprattutto si danno tante risposte rigide e dogmatiche su quel che deve essere la gravidanza, su come portarla a termine, e poi l’allattamento naturale, e i vaccini, e le maestre, e i manuali. Raramente qualcuno s’impietosisce davanti a questa strage dei cazzi altrui, della libertà di chiedere consapevolmente cesareo e biberon da prima ancora che il concepimento abbia avuto luogo, e sfronda di molto con la chiosa salvifica: a ciascuno il suo. Il martirio della tetta ad ogni ora rende più sapida la vittoria della dipendente a progetto quando viene riconfermata? O la conferma della sua grandezza umana che la consoli quando prende un bel calcio in culo appena entra in maternità? Perché da qualche tempo, mi pare, abbiamo bisogno della maternità per disegnarci un nuovo tratto di importanza? Quando il tasso di riproduzione viaggiava a velocità tripla, quadrupla che adesso, la procreazione veniva vissuta con meno enfasi, ma ci scommetto che si amassero i figli allora come li si ama oggi che sono più rari e preziosi. Il mercato delle idee e delle opinioni che fiorisce intorno al materno, mi restituisce un’immagine caricaturale della donna madre, ed è forse per questa ragione che 4 anni fa sperimentando il mio primo e per adesso unico stato gravidico mi sono sentita a disagio, troppo adulta mentalmente per qualcosa che varrebbe la pena affrontare con la naturalezza senza pensieri di una cosa che viene da sé, durante e dopo, non per mano e per bocca di sedicenti esperti della qualunque, dalle prime cacche al rinowash, dal pannolino ecofriendly al seggiolino ergonomico, all’ostetrica illuminata, alla banca delle staminali cordonali. La maternità sta diventando la trama su cui innestare una donna nuova e insicura, mandandola inevitabilmente a sfasciarsi del tutto o in buona parte contro le sponde reali del quotidiano, gravandola pergiunta del peso di sentirsi un’inetta, inabile al suo ruolo nuovo di pacca e tanto più a farcisi rispettare agli occhi degli altri. E se la mamma Lego fosse semplicemente una mamma, contenta e appagata di essere madre, magari single per scelta?
    Perché poi relegare alla categoria degli sfigati quelli che si occupano di disabilità? Cosa ci sarebbe di degradante nel prestare le cure ad un signore o ad una ragazzina in sedia a rotelle? Se leggiamo il dato statistico che vede i disabili familiari affidati quasi esclusivamente alle donne, in aggiunta a quello che già è loro compito, è ragionevole chiedere che alle donne siano date più risorse, più spazi, più sostegni; più asili nido, più reddito personale, più tutele occupazionali, più servizi. Ma non voglio accettare la controproposta che a spingere la carrozzella ci si deve mettere un uomo, non perché un uomo non ne sia in grado ma per la semplice ragione che un passo del genere richiede una rivoluzione copernicana della nostra cultura sociale e familiare, non è una conquista che si possa fare con un atto di marketing in quattro e quattr’otto, si tratta di un cambiamento profondo e lento mentre i nostri anziani, i nostri infermi, hanno bisogno di queste cure oggi, e garantirgliele nel nucleo di appartenenza, laddove l’assistenza statale fosse carente, credo sia la forma più umana per rispondere ad un problema che si pone per l’appunto in termini di umanità, prima che economico e sanitario.
    Tornando alla maternità. Mi sono fatta l’idea che sia il punto fondamentale con cui la natura ci pone in un piano di subalternità rispetto agli uomini. Oggi che di parto si muore infinitamente meno che qualche decennio fa non è forse più tanto evidente, ma a mio avviso la gravidanza resta molto prosaicamente una grande rottura di palle. Lo ammetto, quando mi capita di sentire che qualcuna tra le mie amiche rimpiange il pancione la guardo con l’intima convinzione che sia completamente pazza.
    P.S.: ci tenevo a lasciarti il mio commento, mi ci sono dedicata a singhiozzi, causa preparazione trasloco in corso, e credo si veda.

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  8. … ma non ci sono manco i papa’, nelle lego! non e’ la famiglia cuore (cosa antica che denuncia il mio stato di stagionatura), o le barbie, o i bambolotti. non ci sono i fidanzati, gli amici e i compagni di scuola. ci sono le situazioni, le condizioni in un certo senso oltre-familiari. per questo fa differenza se i mestieri sono rappresentati da omini capelloni o meno, simboli di personaggi anche femminili e non spropositatamente al maschile.
    Quindi non so, su questo punto sono lontana da quel che sostieni. Non dall’osservazione che la madre sovramaiuscolata e schiacciante dell’immaginario sociale in Italia sia assulamente nefasta e poco realistica: lo condivido. Ma che questo appartenga al territorio delle Lego, il terreno delle lego e’ quel che si fa e si vive fuori casa. Se l’operaio alla gru c’ha due figli o no, non ci tange, in quel contesto. Cosi’ come se ce li ha l’operaia, del resto.
    In un certo senso, il mondo dei bimbi e’ gia’ sovrappieno di genitori, e altri adulti che si occupano di bambini. E delle loro rappresentazioni. Ci sono certamente giochi che sono in relazione a questo aspetto della vita e che vanno come dire “tarati” ai messaggi che implicano, o che si vuole che implichino. Ma i lego non sono le bambole, o i bambolotti. Sono veicoli per fare e disfare cose, i rapporti sociali che incidentalmente vi sono rappresentati sono a corollario, non a creazione del contesto. Secondo me, eh?

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  9. Giardinetti. Padre riesce a dissuadere il figlio dal prendere in prestito un pareo da una bambina per legarselo intorno al collo. Motivo (dichiarato !!) : il pareo è fucsia , da femmina. Il bambino, che non vedeva il colore ma solo la possibilità di farsi un mantello da supereroe, rinuncia a giocare. Ci ho pensato con rabbia per alcuni giorni. Ha ragione – paradossalmente – Falconiere , perché i bambini se ne fregano dei ruoli e ci fanno esattamente quello che fanno coi giochi, ovvero li usano in modo diverso da come era previsto che li usassero, e guai a correggerli! Quella volta dei giardinetti, poi, non so se sia stata di più la rabbia per il sessismo del padre o la tristezza per la docilità con cui il bimbo aveva rinunciato a giocare.

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  10. 1-Maternità: ci sono due estremi: la mamma single e la casalinga felice. In entrambi i casi spesso è assente il terzo elemento: il padre responsabile e cooperativo. 2-istruzione: nei paesi sviluppati il trend attuale è il maggiore successo delle femmine in campo scolastico; diplomate e laureate hanno superato per qualità e quantità i maschietti. 3-giochi: ho letto di studi scientifici che invitano a non demonizzare tendenze delle bimbe verso i giochi di accudimento, tali studi documenterebbero tendenze “naturali” e diversità che emergono spontaneamente tra i bimbi.

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