Medicina, occidente, democrazia, sciamanesimo.

C’è un libro a cui, molti di noi psicologi siamo affezionati e teniamo in gran conto nelle nostre librerie. E’ stato tradotto da tanti anni con il titolo “Alla scoperta dell’inconscio” ma noi lo chiamiamo L’Ellenberger, tutto attaccato con il nome dell’autore, e lo pensiamo come qualcosa di caro, che sta in mezzo ai classici, tra i grandi nomi del pantheon analitico. L’Ellenberger infatti spiega le origini della psicoanalisi storicizzando la produzione scientifica dei pionieri, e non c’è buona bibliografia che non lo metta in lizza.
Particolarmente interessante, anche per capire i comportamenti di cui vuole parlare questo post – è il primo volume che decide di collocare i prodromi della cura analitica nello sciamanesimo africano e nei rituali degli stregoni dei villaggi in Sud America. L’Ellemberger cita alcune pratiche di cura psichica in certi procedimenti anche piuttosto impressionanti e attuati dagli stregoni con persone malate, o possedute da uno stato di grande agitazione. Offre diverse descrizioni di questo tipo di cura, con citazioni di fonti e qualche trascrizione – e io ancora ricordo il caso di uno sciamano che curava le persone molto agitate e come possedute, mostrando di estrarre un animaletto dal corpo di un paziente – un lombrico per esempio. La persona ne sarebbe risultata come tranquillizzata e rinsavita.

Nel successo di queste pratiche, le cui modalità permearono anche il nuovo mondo e che oscillavano tra il lessico di culture tenacemente affezionate a se stesse e la franca cialtroneria, Ellemberger constatava la presenza di alcuni elementi importanti: in primo luogo, la fede del guaritore nelle proprie capacità. In secondo luogo la fede del paziente nelle capacità del guaritore, in terzo luogo il crisma fornito dal contesto culturale di appartenenza.
La pratica stregonesca e sciamanica, permetteva al proto paziente e al suo contesto culturale di proiettare elementi persecutori indesiderati maligni, che si traducevano in grandi ansie e preoccupazioni sull’insetto infilato sottopelle e di vivere come una liberazione, una catarsi il momento della sua eliminazione. Nel controllo di queste dinamiche vedeva probabilmente una conoscenza anche se rudimentale del funzionamento psichico e un primo tentativo primordiale di allestire strategie di cura.
Non si tratta di mera potenza delle suggestioni, ma di un nostro modo di funzionare portato al suo estremo e che vediamo materializzarsi in molti momenti quotidiani. Sicuramente gli antropologi potrebbero fornire molti importanti esempi e suggestioni sulle ritualità di cura in contesti lontani dal nostro. Ma se osserviamo la nostra quotidianità possiamo trovare elementi della guarigione sciamanica anche nei nostri centri urbani apparentemente postmoderni. Per esempio, parente delle pratiche sciamaniche è l’effetto placebo, anche se di natura psicodinamicamente inversa – si proiettano sul presunto farmaco aspetti sani e buoni della psiche, aspetti di cura e di cambiamento – senza che la sostanza introiettata possegga un reale principio attivo capace di guarire qualsiasi patologia. Ma si possono osservare aspetti di ritualistica tribale anche in altri itinerari della nostra civiltà industrializzata. L’appuntamento con il grande luminare preceduto da tanti ostacoli e filtri – trovare il nome mettercisi in contatto dichiarare che si è mandati da – parlare con una segretaria prima e un’assistente dopo – pagare anche tanti soldi per avere un parere -sono tutte pratiche tribali, che hanno qualcosa dell’iniziazione e del sacrificio. Qualche volta – non sempre perché anche questo è un clichet – il luminare ha delle stimmate esteriori della sua posizione sciamanica, il corrispettivo del mantello e dell’anello, saranno i segnali del vertice di classe, e il telefono che squilla e i gesti di asimmetrica devozione di cui è circondato. Nel topos sciamanico qualcuno includerà persino un’allure ieratica, il savio umorismo di chi sa cosa sono vita e morte, in qualche caso – la mestizia di chi sa di poter poco per davvero sulle cose.

L’aspetto psichico e tribale che mettiamo oggi nel nostro rapporto con il mondo medico è diluito e sostenuto – purtroppo sempre di meno, constatiamo – da una per quanto approssimativa pur sempre utile – consapevolezza delle regole logiche su cui si edifica la medicina, i cui risultati non ci sono immediatamente accessibili ma i cui metodi ci sono noti. La scuola è stata importante per noi e ci ha insegnato che la ricerca medica si basa sullo studio e la ricerca sperimentale, nella cultura è passato il concetto per cui, l’idea scientifica efficace è quella che si fa strada nel contesto delle riviste e delle strutture competenti e quindi, lo sciamano a cui ci rivolgiamo pur nelle prassi tribali che tanto ci rendono vicini alle popolazioni di altri continenti e di altre convinzioni, ha un curriculum per cui ha studiato quelle cose importanti che fanno quell’edificio, ha tesaurizzato un’esperienza sperimentale, se non di ricerca, di corpi su cui sono applicati gli esiti di altre ricerche. E quindi noi tendiamo a cortocircuitare – non sempre a ragione, ma meno a torto di quanto qualcuno spererebbe – crisma del potere e affidabilità medica. Nella nostra antropologia quotidiana il cerchio si chiude.

E’ una fortuna per i nostri figli non solo semplicemente per la loro salute. C’è qualcosa di profondamente democratico nell’architettura della logica medica e generalmente scientifica. Parte dall’assunto dell’evidenza delle prove per successo e per errore, per catene di cause osservabili, le quali nel loro fondamento sono accessibili a chiunque abbia il tempo e la volontà di applicarcisi, e possono essere replicate su chiunque ne dimostri la necessità. Il linguaggio della ricerca scientifica –più che mai di certi suoi fondamenti matematici – è anticlassista per definizione dunque, meno suscettibile delle variabili di potere culturale che riguardano per esempio le discipline umanistiche: non a caso, i test di intelligenza meno attaccabili sul piano psicometrico sono quelli che rilevano capacità logiche che non siano saturate da grandezze verbali.
L’intelligenza che presiede il pensiero scientifico è orizzontale, democratica, onesta come vocazione – presume un’equa distribuzione del potere. Lo sciamanesimo è verticale, piramidale, seduttivo, funziona per un’asimmetrica divisione del potere.
Che che se ne dica, molti hanno bisogno di entrambe questi vettori psichici e politici e il sistema sanitario di una democrazia funzionante satura entrambe le domande psichiche.
Il primario che ha tanto studiato.

Nei tempi di crisi di un sistema culturale come il nostro – le due funzioni cominciano a divorziare. E può succedere che la variabile sciamanica in diversi gradi e forme prenda il sopravvento su quella democratica. Questo accade per molti motivi. In parte perché spesso il mondo medico non è in grado di vederne il valore utilizzarla correttamente. LA fiducia nella cura, la sensazione di un calore emotivo e di una protezione da parte del grande sul piccolo – attivano delle risorse, che avranno probabilmente delle traduzioni in termini biologici ma che i medici osservano continuamente se non altro in termini di compliance alla terapia. Ma ci sono anche altre cause, in parte nella sopravvivenza di microculture arcaiche che sopravvivono, garantendo un effetto postmoderno che però è solo di facciata, in parte in una sorta di analfabetismo di ritorno io credo procurato dall’avvento di internet che sta facendo disimparare alle persone gli strumenti con cui prima sceglievano i loro sciamani strutturati di riferimento. Per cui alla fine accanto ai vecchi saperi, picconati dai un sistema pubblico che non finanzia la ricerca e continua a tassare i servizi alla persona, continuano a fiorire e rifiorire vecchi e nuovi rituali che dilatano la componente sciamanica: la gente non fa più vaccinare i bambini, ma in compenso di fronte a una malattia ritiene opportuno andare dall’esorcista.

E’ una cosa pericolosa, anche se ha delle cause comprensibili. E credo che ridicolizzare l’istanza che porta a scelte alternative non sia la strada migliore da percorrere perché fallimentare ab ovo. Quelle istanze hanno anche delle cose buone comprensibili e che psicologicamente e quindi biologicamente aiutano. Solo che non sono sufficienti specie in caso di malattie gravi. Ma la prima cosa da fare è continuare a rispettare l’istanza rituale e in caso proteggerla dove ce ne è la possibilità. Che sia preghiera che sia rito alternativo. L’importanza sta nel far passare il messaggio che da sola non basta, quando ci si riesce e cercare di difendere il democratico sapere che ci siamo guadagnati in secoli di storia. Questa cosa passa da molti canali che sono troppo poco attivati. E riguarda la comunicazione dei medici quando danno delle diagnosi e delle prognosi, la divulgazione sui giornali, le modalità del mondo politico e in particolare del ministro della sanità di rivolgersi al pubblico.

Ma riguarda anche il problema della divulgazione in rete. Lo riguarda in modo veramente allarmante. Perché la rete offre una larga quantità di informazioni che molte persone considerano autorevoli ipso facto perché vengono dalla rete, perdendo la loro capacità diciamo occidentale, di scegliere il sapere sciamanico secondo i criteri occidentali. Non ci sono agenzie intermedie, o non sono immediatamente percepibili dall’utenza, che ci dicano cosa sia affidabile secondo il nostro sistema di valori e cosa no. Va a finire, che ciò che credevamo ci portasse avanti nel tempo ci caccia indietro in un nuovo medioevo di ignoranza, con l’unica caratteristica di essere informatizzato.

Lettera a Livorno città della mia infanzia

(Mi piacerebbe regalarti una poesia, magari scritta su una striscia di carta, la banda verde di un libro vecchio, mezza busta di una lettera aperta, la lista dei peccati su uno scontrino fiscale, qualcosa che sventoli nel libeccio e nel sale, qualcosa di poetico e di tramonto, e di dolce e di saporito.

Mi piacerebbe trovare una foto, di quella sera che avevo una maglietta bianca a righe verdi, ed ero una bambina che stava per smettere di essere una bambina, quell’età strana senza seno e di gambe lunghe di zanzara. Correvo da sola lungo la strada dei miei nonni, verso le gru di salmastro, l’olio unto sul ventre delle navi, il mistero dei raggi sui cassoni abbandonati, l’acqua che li schizza e uomini faticosi e affaticati, che scaricano, sussurrano, ridono, sputano.
Il porto è la pelle di un romanzo.

Mi piacerebbe trovare una cassetta, un nastro, un mangiadischi. Sentire le tue voci nelle mattine sul mare, quando con mia nonna e la 500 nera scivolavamo tra piccoli castelli e palme nane, gli schizzi di tirreno sul cruscotto, il giornale che friccica nella paglia, signore con i capelli schiariti dal sole, il culo largo e la pelle rossa. La mia nonna alta e bellissima che le guardava con riprovazione.
Si sposano, e mettono i remi in barca.
E loro che cinguettavano, volgari e anarchiche, orribili e libere, accovacciate sugli scogli e i teli vecchi, con i piedi nodosi sul cemento. L’infanzia ai bagno pancaldi, la vecchiaia non importa dove.

Mi piacerebbe friggerti un frate, regalartelo caldo e zuccherato come quelli che mi davi da bambina, appesa alle gonne del mercato, tra banchi di lenzuola piene di fiori, sottane di nylon, pancere per donne grasse, pesci sventrati, e fiori aperti. Ti chiederei come stai, e ti farei una carezza sulla tua guancia di pietra).

Ti dico io come la penso

Nonostante la pervasività con cui la lezione epistemica del novecento è stata somministrata nelle pubbliche scuole, per cui vuoi passando per Pirandello, vuoi mettendosi da un lato di una stanza prima e dall’altro dopo, non c’è stolido che non sappia dire che tutto è relativo, che le cose sono se ci paiono a noi, che la verità vi prego sull’amore… nonostante questa massificata presa di coscienza della prospettiva, quasi regolarmente nella vita di ognuno capita di combattere vuoi da vittime vuoi da carnefici, con l’urgenza di una verità rivelata, anche piccina di verità, ma comunque sempre esattamente illuminata dalla fiduciosa dimenticanza delle cose che sono in ombra. Anzi, c’è una sorta di positivismo delle relazioni che confida nella retorica dell’onestà a tutti i costi, l’importanza di dire agli altri che cosa si pensi davvero di loro delle loro scelte e delle loro vite, la retorica dell’onestà come ingrediente importante delle relazioni positive. L’abbaglio del dire cosa si pensa davvero si mangia tutta la storia e tutti i pirandelli e anche perché no i filosofi della scienza, e gli epistemologi insieme, per non parlare degli psicoanalisti che pure loro parecchio si sono spesi per la questione dei punti di vista. Tutti a un certo punto arrivano a dire che non vogliono essere ipocriti e bisognava dirla questa cosa all’altro brutta brutta su di lui o sulla sua vita! che ha qualcosa di sgradevole da sottolineare e siamo gente onesta e insomma che fai non glielo dici? E a tutti certo è capitato di combattere con la percezione altrettanto sgradevole di questo parere altrui percepito come l’oggettivo insindacabile, e la forza della sua prevaricazione. Nei vari gradi che passano dalla plateale dichiarazione di approvazione o disapprovazione, alle imbarazzate espressioni di quelli che poi diranno con sapida civetteria – sai, io sono fatto così non riesco a dissimulare quello che penso – faccio delle figure terribili!
Insomma, di fronte alla militaresca retorica della verità, le lezioni dell’istruzione primaria novecentesca, si ritirano come bassa marea. Pirandello: ciaone proprio.

In questo post, vorrei riflettere sulla natura di certi assunti che noi consideriamo come veri e percepiamo come incandescenti e oggettivi, e sulla funzione che assolvono nelle nostre relazioni private e quotidiane, quando questo tipo di verità rivelate riguardano la vita di qualcuno che ci è vicino. Cose che possono essere grandi e piccole, dal vestito appena acquistato che sta male, all’aspetto fisico cambiato, fino agli equilibri di coppia e alle corna in testa o altro caso possibile le motivazioni reali di un fallimento professionale. I giudizi su tutte queste questioni quotidiane non è che manchino sempre di ragionevolezza o di utilità, e non mancano situazioni in cui una volta espressi non riescano a concimare terreni e aiutare i nostri amici in svolte esistenziali che forse non sarebbero state imboccate. Ma non sempre la rivelazione di un parere personale, un giudizio di valore positivo o negativo sono davvero utili e espressi nell’unica intenzione dell’utilità. Le nostre verità interiori sulla vita degli altri assumono tante funzioni che possono anche essere tutt’altro che altruistiche, tutt’altro che funzionali, tutt’altro che appropriate. E forse, più che dire qualcosa di utile nell’argomento trattato con la persona con cui si parla, dicono qualcosa di utile della qualità del rapporto che si ha con lui.

Buona parte di queste oggettività, si portano addosso un giudizio di valore che ha addosso mille afrori. Questa cosa è tanto più evidente con le rivelazioni che sono delle critiche. Il primo odore e il più facile da contestare è quello delle gerarchie e delle priorità. Una persona che critica un’altra da per scontato che le priorità siano identiche quando potrebbero esserci altre gerarchie. Questa spesso è una ingenuità non sempre nociva. Il fatto è che non è quasi mai neutrale. La difficoltà dell’altro spesso è il terreno su cui edificare per esempio asimmetrie vincenti, si pronunciano sentenze e condanne godendo della posizione differente in cui sta, nel contingente la persona che esprime il suo giudizio. Altre volte è l’amara quanto pestilenziale occasione per trascinare qualcuno nei bassifondi di un enpasse esistenziale e dimostrargli che insomma nella merda ci sta anche lui e non sperasse di uscirne. In altre ancora la verità rivelata ha lo scopo di cementificare una dipendenza, di cristallizzare in due posizioni – la persona utile e assistente e la persona inutile e assistita la relazione. In altri ancora – per esempio in quei casi in cui viene fatta trapelare per una sorta di pigrizia, perché ci si vuole troppo bene per avere cautela della reazione dell’altro (la dubbia retorica di, ah io non riesco a nascondere niente! )

Soprattutto nella stragrande maggior parte dei casi, se non la totalità – il giudizio assicura dinamiche proiettive. Tramite la sanzione all’amico, si vendica il torto subito, si inscenano vicende che hanno storie psicoanalitiche e remote, vicende edipiche mai tramontate. I vecchi concetti di transfert e di proiezione che vengono dall’arsenale freudiano, ci possono venire in aiuto: perché appunto aiutano a capire quella sorta di mutazione genetica che hanno i rapporti acquisendo questa o quell’altra forma, decidendo la distribuzione di ruoli e le retoriche che ne deriveranno. La verità rivelata sarà lo strumento con cui agire i pensieri che ci suscita quella persona perché ne ricorda un’altra, più importante nella propria vita, fondante la nostra storia. Donne che criticano costantemente come altre donne sono con il proprio partner, mettendosi nella concorrenza che da bambine potrebbero aver patito con la madre, cui allora non parrebbe vero di riscattarsi sulle liti di qualcun altro. Ma anche madri che usano le figlie delle altre, per fustigare le proprie o peggio ancora le figlie che sono state. Uomini che con il sacro crisma del pensiero morale dipingono con disprezzo la libertà che altri uomini si sono tenuti per se, biasimando le scelte che avrebbero voluto fare e non hanno fatto, e attaccando l’egoismo che magari ha caratterizzato una volta, due o tre il loro padre, lasciandoli bambini nella sensazione di esser dimenticati. Non sempre si parla ad altri e per gli altri. Si parla per se e con se, e gli altri sono un mezzo.

Che si dirà che il gioco è facile qui perché sono sempre brutte verità, ossia in altri termini – giacché giudicare è fisiologicamente connaturato al processo logico, ma anche se più piacevole e sottile e spesso benefico, il gioco della proiezione e del transfert che si serve delle cose che diciamo – si mette in atto anche con gli elogi i complimenti e gli incoraggiamenti. Si mettono nell’altro le cose buone ricevute, le si incoraggia a non deluderci, e nelle occasioni che possono rivelarsi più problematiche si chiede all’altro di fare quello che noi non riusciamo, o peggio ancora si riempie l’altro di tutta una serie di doti e qualità che kleinianamente ci sono preclusi e che presto o tardi riveleranno la natura dolorosa e mefitica dell’invidia: in questo caso, sistematicamente, l’altare di giudizi positivi e di verità entusiastiche su cui l’altro è issato – ma non è vero che sei grassa stai benissimo! Ma no che potresti fare meglio fai già benone così! Etc etc – potrebbe crollare miseramente in una percezione. di fastidio e di recriminazione. Un copione che ho notato capitare con frequenza è una disponibilità all’idealizzazione dell’altro fintanto che i giudizi di valore positivi contrastano con la realtà contingente: per cui l’altro è volentieri coccolato e incoraggiato fintanto che combatte con l’insuccesso sentimentale e professionale. Poi arriva il salto di qualità che meritava e la metamorfosi è velocissima e subitanea. Gli si dirà che è cambiato, ma in realtà sono certe strutture psichiche interne al suo interlocutore a essersi disvelate.

Con tutto questo io non dico che non bisogni dire ciò che si pensi alle persone che ci sono vicine, ma che prima di farlo sarebbe opportuno guardare allo stato della relazione e curarla e a se stessi nella relazione e controllarsi, prima di far cadere un parere ponderato. Ma sempre cauto e possibilista. Tenere aperte delle possibilità quando si esprimono dei giudizi franche non vuol dire soltanto mettere delle possibilità sulla carta che l’altro possa ricordarsi di poter fruire, ma protegge anche i rapporti dalla coazione a ripetere delle proiezioni reciproche, apre la porta ad altri sviluppi permette alle relazioni di evolversi verso modalità più complesse e adulte anziché stare dentro certi claustrofobici giochi di ruolo.
Posto che naturalmente alla domanda che chiede: dirai questa cosa per te o per l’altro, ti sarai accorto di poterti occupare soprattutto dell’altro, perché in caso contrario – beh, ci sono modi migliori.

Psichico dentro facebook

In una recente conferenza stampa Zuckerberg ha dichiarato che presto ci sarà, disponibile su Facebook il tasto non mi piace, con il pollice verso. Servirebbe a comunicare – pare abbia detto – il dispiacere e l’empatia per post che riguardano un fatto brutto – come un lutto, una malattia, un problema sul lavoro – per i quali la possibilità del like era considerata piuttosto stridente. Mi pare un’operazione fulgidamente americana, che risponde cioè a una certa idea che abbiamo noi della priorità che ha il marketing negli USA e di come questa priorità venga dissimulata da un apparentemente lodevole e disinteressato buonismo. Per quanto Zuckerberg dichiari una funzione gentile del tasto non mi piace, non potrà certamente controllarne l’uso che ne verrà fatto sui social, e il suo potenziale oggettivamente conflittuale. Il mio sospetto è che questo potenziale conflittuale sia stato anticipatamente calcolato e anzi auspicato in quanto remunerativo: Facebook è un servizio gratuito che si mantiene grazie alla pubblicità – la quale ha maggiore ragione di esistere in virtù dei tempi di permanenza dell’utenza. La conflittualità e la polemica aumentano i tempi di permanenza, e io immagino una serie di conseguenze al già alto tasso di scambi aggressivi in rete.
Il tasto non mi piace è una istigazione al coming aut del dissenso. Ci saranno quelli che diranno semplicemente che un certo contenuto a loro non piace, e ci saranno quelli a cui, per la gioia degli sponsor, non parrà vero di spiegare perché.
A scanso equivoci – io potrei essere una di quelli.

Le persone che frequentano quotidianamente Facebook e che lo usano molto, si diversificano nello stile di relazione, con differenze che prendono origine dalla loro struttura psichica. In molte hanno delle specifiche modalità aggressive che sono rispondenti a certe loro forme del carattere – in alcuni casi non del tutto esplicitate nella vita quotidiana, anzi addirittura insospettabili. Con aggressività qui intendo un concetto molto vasto che copre non solo le persone che si esprimono aggressivamente con attacchi verbali plateali, ma anche altre forme più sottili di prevaricazione invadenza e attacco, magari non immediatamente individuabili. Per esempio ci sono contatti che non partecipano mai ad alcuna cosa che dici, ma proprio mai, quando ridi, quando sei contento di qualcosa, quando hai scritto qualcosa che potrebbe trovarli d’accordo – ma compaiono esclusivamente quando posso manifestare un amaro dissenso. Si ha la sensazione che ci sia una forma di insicurezza dietro, perché quando arriva questo dissenso si ammanta della convinzione di una superiorità morale. E certo salta agli occhi il travestimento di un’aggressività trattenuta.
Altri, fanno arrivare un comportamento aggressivo e invasivo reiterando fino alla nausea il dissenso, quando è ormai chiaro che le posizioni sono distanti e non c’è molto da aggiungere – una sorta di accanimento terapeutico che rinvia forse alla difficoltà di tollerare una mancata egemonia sull’altro, che forse viene tenuto in eccessiva considerazione. Altri ancora per esempio criticano qualcosa di scritto non già per i contenuti ma per l’apprezzamento che ha ottenuto presso altri. Molti infine, se non si controllano, sentono che un’aggressività sia legittima perché sono state toccate con malagrazia delle corde delicate – anche nei casi in cui l’interlocutore non aveva intenzioni realmente aggressive. Altri ancora sono aggressivi per tagliare le gambe all’interlocutore.
Posso immaginare che questa vasta compagine di gente con una parte di se diciamo litigiosa e animosa, possa trovarsi maggiormente imbrigliata nell’opzione non mi piace, e nella reazioni alle spiegazioni del suo uso.
L’aggressività è un gioco di palleggi.

A cui non giocano tutti – va detto. In tanti sanno difendersi con poco sforzo, per struttura caratteriale per gioco di strategie difensive e adattive, per grado di immersione nelle dinamiche della rete. Per momento di vita.
In primo luogo incide semplicemente la frequenza con cui si usa Facebook. Se ci si viene ogni tanto durante la settimane o la giornata, ci si autopercepisce come separati, le relazioni vengono avvertite come oggetti scritti, testi, letture. Cose provvisorie. Molti però fanno di Facebook una seconda stanza esistenziale, sia per una maggiore familiarità con la comunicazione scritta, una sorta di intimità, che per la vita quotidiana che hanno: non so se per affinità con me, che sono grafomane in senso stretto, ma io sono in contatto con molti giornalisti e scrittori e traduttori, o giornalisti scientifici e professionisti della parola scritta. Gente che ama la parola e che lavora molto in solitudine. Comunque ci sono tante persone che tengono Facebook aperto mentre fanno altro e ci scrivono frequentemente con naturalezza: ci scambiano opinioni e cronache quotidiane. Più il tempo trascorso sul social è lungo, meno le interazioni vengono percepite come scritte e lette e mediate, rappresentate, più vengono vissute come reali e coinvolgenti. Quindi molto inciderà il secondo fattore, ossia come questa o quella personalità interagisce nelle sue relazioni, quanto si spende, il suo grado di estroversione e di reattività, l’investimento emotivo che mette nelle cose. Soggetti riservati e distaccati nel quotidiano o molto freddi lo saranno anche in rete, e forse saranno più resistenti sulla lunga durata, soggetti più estroversi immediatamente emotivi, con forti investimenti libidici sulle relazioni potrebbero più facilmente sentirsi imbrigliati e imbrigliabili.

Ci sono poi, ho notato, situazioni esistenziali che espongono a una maggiore fragilità e a un grado maggiore di dipendenza dalle relazioni di rete. Il primo amico che ha chiuso il suo account era un uomo che stava molto in rete al tempo della sua separazione, e tendeva a raccontare molto della sua dimensione privata. E’ un uomo estroverso, solido benché sensibile, ma mi rendevo conto come lo stato di recente separazione e solitudine gli lasciasse come un contenitore emotivo cronicamente insaturo che veniva saturato dai dialoghi on line. Questo lo portava a rivelarsi troppo, a darsi in pasto a un’opinione pubblica sconosciuta, a essere oggetto di dibattiti, e certo aggressività e colpi bassi. Lo stato di bisogno relazionale – nienti più bimbi per casa, niente moglie a cena – lo metteva in una condizione come dire, di maggiore ricattabilità. Questa cosa capita anche con altri stati di crisi, addosso a certo tipo di personalità: per esempio le malattie. Che rendono bisognosi degli altri e portano certi lati oscuri del carattere a emergere con più frequenza.
Tutto questo vuol dire che negli stati di crisi, di insaturazione relazionale, o di malattia, l’aggressività è prodotta più facilmente e percepita come più efficace, e le relazioni scritte come più salienti di quanto accada in altre circostanze.

Questo post è nato per riflettere sulla decisione che alcuni miei contatti cari hanno preso e che ogni tanto valuto anche io – ossia, di lasciare il social network più importante. Credo che la difficoltà a negoziare con i propri bisogni di dipendenza, con i nostri modi di gestire le relazioni, anche le idee stesse di relazione, sia alla base di alcune defezioni. Come se di fronte a un compito emotivamente troppo arduo, che sarebbe quello di ricalibrare le proporzione e di sdoppiare nuovamente, scindendo tra relazione di rete e scritta e narrata e relazione di vita vissuta e incontrata, fosse troppo complicato e lungo e faticoso, sentimentalmente difficile. Siccome però trovo non troppo salubre questo schiacciamento tra reale e virtuale, la decisione per quanto drastica e per quanto comporti delle rinunce mi pare saggia. Forse una via rapida, forse brusca, ma perché no.
Che cosa ci raccontiamo se prima non viviamo? Se non siamo capaci di vivere prima di narrarci – ben venga una brusca inversione – che sospenda la narrazione.

Match

Il ristorante sarebbe un buon ristorante di pesce, onesto nel prezzo e nelle portate, un ristorante di camerieri corretti e puntuali, di pomodori freschi, di gamberoni profumati e dolci con un fiore all’angolo del piatto. Alla buona cucina il gestore aveva tentato di affiancare anche un’ altrettanto decisa intenzione sociale: una sala ambiziosa nei tavoli e nelle sedie vestite – sulle pareti un ghiaccio metropolitano, qua e la del compensato rivestito di nero forse a evocare un’ipotesi di design orientale, alcune composizioni floreali in alcuni angoli, il pavimento chiaro. Molta pulizia.
Ma il ristorante è il portone di un paese di campagna: alle spalle si arrampicano case di tufo con i fili a vista, presto ci sarà la sagra e davanti si scioglie una vallata di lecci e di castagni e di sassi. E il nome, porca miseria il nome – mi viene da dire mentre mangio con vantaggio e soddisfazione una pastasciutta colle vongole – come ti è venuto di chiamarlo Il Peccato, con tutte queste famiglie che ordinano la pizza, e queste mani rosse che bevono vino della casa, e questo ordinario bianco sporco delle pareti, e tutto quel mondo di obbedienza borghese che hai cercato di emulare.
Il peccato è anarchico, non rincorre nessuno.

Tuttavia alla mia destra qualcuno sta cercando di beneficiare del nome – forse con successo. L’uomo che ha invitato la donna a cena, odora di un potere delle mezze altezze: ci avrà una concessionaria, un’agenzia di recapiti, forse una moglie lasciata, forse dei figli che stanno scanzonati e fragili sulle proprie gambe. O chi sa, forse quello stesso ristorante. I capelli bianchi pettinati per bene e la camicia sbottonata sui polsi, stanno a dimostrazione del fatto che se lo chiamassero un bel signore, se ne sentirebbe offeso. L’abbronzatura gli sa di salato, di mare e di tenace militanza in una gioventù che non finisce. Uno di quei maschi che luccicano di un’ammirevole e insieme struggente attaccamento alla vita, e a certe sue carnali emanazioni. Non solo il sesso, ma il farsi vedere che lo si fa.
Le donne e le macchine come le stimmate del capobranco.

Ha portato a cena un’artigiana del proprio corpo, una di quelle ex ragazze e non ancora donne, il cui lavorio sulla pelle e sulla carne, la forma astratta delle sopracciglia, le onde non casuali dei capelli -lascia confusi sull’età anagrafica. Non si sa bene se sia una ragazzina che voglia perdersi le frange dell’adolescenza, o una signora che cerca l’ideale platonico della giovinezza in un’idea di tacchi altissimi e minigonna di pelle. La severa attenzione con cui organizza l’apparenza non è riuscita però a eludere certi tratti remoti della sostanza. Sotto il platino e la dolcezza di ordinanza sta l’incarnato scuro di una ragazza forse greca, forse bulgara, e ancor meno dissimulabile, il baluginare di un’intelligenza tenace.
Ascolta gentile il rumore della coda di pavone che si apre con la pazienza del mestiere.

(Finiranno a letto – speriamo che si divertano! Che i capelli finiscano in disordine, e la pelle possa essere graffiata. Speriamo in un affanno maleducato e rumoroso, in lenzuola di cattivo gusto o persino nel sedile di una macchina.
Speriamo che si scordino i copioni, che il piacere faccia il suo dovere che il peccato arrivi per davvero e non sia soltanto una angosciata necessità, il fiore all’occhiello di una battaglia necessariamente persa)

(Per contrasto, e per una freschezza consigliabile qui)

Scattone. Note provvisorie e personali

Come la maggior parte di voi non avrà potuto fare a meno di sapere – Scattone si è ritirato dall’incarico a seguito di una pressione mediatica insopportabile seguita al fatto che, finita la sua condanna, sarebbe stato reintegrato nell’insegnamento, di psicologia, nella scuola pubblica.
Era stato condannato per la morte di Marta Russo, studentessa de la Sapienza, uccisa nel 1997 da un proiettile di cui però non si è mai trovata l’arma. All’opinione pubblica arrivarono notizie di un processo condotto in maniera discutibile, con prove insufficienti e testimonianze altrettanto discutibili, la cui sentenza finale si contraddistinse per un tentativo di compromesso: tra l’idea appunto dell’omicidio reale, e la palese insufficienza di prove: si optò per un’accusa di omicidio colposo. Il periodo di carcerazione fu piuttosto breve: 5 anni – a cui seguì una fase di reinserimento con dei lavori socialmente utili, che Scattone svolse con le persone disabili. Di poi si sarebbe anche dedicato a delle supplenze – e ora, a seguito del concorso di abilitazione – aveva ottenuto il posto di ruolo nella scuola pubblica.
La polemica sulla stampa è sorta in relazione a questo posto di ruolo.

A molti nell’opinione pubblica non piace il fatto che una persona dichiarata omicida e omicida di una studentessa nell’esercizio delle funzioni torni a lavorare in quelle stesse circostanze. Molti genitori hanno anche protestato per questo fatto – così come hanno protestato, i genitori di Marta Russo. A sua volta la stampa ha approfittato degli umori popolari sollecitati dalla vicenda e li ha ulteriormente amplificati.
C’è qualcosa di molto umano e di molto cinicamente ancora umano in questo ordine di reazioni: la condanna è risultata troppo breve per un reato tanto grave, e la riabilitazione viene letta come una sorta di perdono che nessuno se avesse potuto avrebbe accordato volentieri. Ma a questi sentimenti, in tante retoriche che si sono sentite in questi giorni, si sono aggiunti altri ingredienti: per esempio la rabbia per la perdita di quel potere che dava la polarità tra la comunità a piede libero e l’imputato in carcere, un imputato capace di sollecitare molte antipatie di classe, con quel ruolo di assistente nell’ateneo e il pettegolezzo sul delitto perfetto che circolò al tempo del processo. L’imputato nella vita torna ad assumere il potere che ha sempre avuto e questo può non piacere. Allo stesso tempo a qualcuno può essere arrivata la sensazione di una giustizia mancata. Addossando alla legge, le responsabilità delle difficoltà delle cose umane: non c’erano le prove per una condanna per omicidio in piena regola, e davvero in pochi hanno cognizione di causa del processo tale per poter dire che si sarebbe potuto agire diversamente.
Soprattutto però ci si dimentica di un ordinamento giuridico nato per proteggere tutta la cittadinanza nel momento in cui come dire – pecca. Si protesta per Scattone dimenticando il diritto di tutti a rientrare in un posto di lavoro ogni volta che ci sia stato un regolare processo, un regolare decorso della condanna con regolari servizi sociali come questo caso, lo si fa senza interrogarsi in termini specifici sul perché si o perché no – ma auscultando solo un desiderio.
Il diritto di Scattone di tornare a lavorare è cioè una protezione del nostro diritto, anche se non ci ricordiamo che possa riguardarci – ricordarcelo in effetti, è un’esperienza piuttosto sgradevole.

C’è una sola cosa su cui io personalmente ho delle perplessità. Non ho seguito personalmente il processo nel dettaglio e temo anche che dalla mia prospettiva mi siano state precluse diverse informazioni salienti. Fu una vicenda triste, in cui precipitarono altre grandezze e altre questioni ho la sensazione che la verità personalmente, non la saprò mai. Non sono convinta della responsabilità penale di Scattone ma non riesco a persuadermi neanche della sua innocenza – ne consegue che quello che sto per dire, ha come pretesto Scattone ma si riferisce più genericamente al dibattito che oppone chi vorrebbe che Scattone non fosse riammesso all’esercizio della docenza e chi mette questo ordine di richieste sotto l’etichetta del populismo penale come ha fatto Manuel Anselmi in questo articolo e che ha parzialmente ispirato questo post.
Il mio problema cade infatti nel contesto della preoccupazione per l’eventuale reiterazione di un reato. Se devo assumere che bisogna prendere per vera la verità giudiziaria e che quindi Scattone sia stato responsabile di un omicidio – che non sarebbe però avvenuto in conseguenza di una relazione con la vittima, di un movente collegato a questioni di soldi o di potere o di rapporti con la malavita – la mia deformazione professionale mi farebbe temere un nuovo tentativo, e prima di reinserire l’ex imputato in un contesto professionale così simile a quello in cui è stato compiuto il delitto riterrei auspicabile una successione di perizie e anche alla luce di quelle perizie – se penso alla storia di tragici errori quando si è sperato di diagnosticare la reiterazione di un reato a sfondo psicopatologico – io avrei esitato non già a garantire un rientro nel lavoro a Scattone, che mi sembra un obbiettivo fondamentale in una democrazia matura, ma forse avrei evitato proprio quel contesto.