What’s pulp

(Il post di ieri si tira dietro quest’altro, del 2009. Si allaccia per via naturale, dal concetto di Camp a quello di Pulp, parlando di film che andarono per la maggiore quell’anno. “Bastardi senza gloria” e “The reader”. Niente  – buona lettura, a chi gli va. Ho mantenuto qui lo stile che usavo nel vecchio blog)

 

Come tutti sapete, qualche giorno fa dei giovani di brutte speranze decidevano di rubare la scritta sopra l’ingresso di Auschwitz, arbeit macht frei. Claudio Magris, citava allora sul Corriere della sera il Cancelliere Adenauer – commentando così l’episodio: la barbarie di qualche idiota che meriterebbe solo un calcio in culo.
Ossia, argomentava Magris, è bene non enfatizzare il gesto associandolo a qualche perversa visione del male, simbolica der dimonio, il diavolo e la puttana della su zia (non proprio con queste parole certamente – è un signore quello).
Noi ci atteniamo al verbo del Magris, e troviamo anche che quella che per lui è una strategia politica, atta a evitare la coagulazione degli imbecilli in un imponente movimento di imbecilli – ulteriore voglio dire a quelli di cui disgraziatamente già disponiamo, riteniamo che l’episodio sia coerente con il momento storico e sociale. Un momento cioè che sta finendo di masticare l’Olocausto per digerirlo e archiviarlo, che lo sta dunque desemantizzando e che sta per scoprire nuove simboliche del male, una volta che questa è stata completamente sventrata. Se abitassimo nell’eden potremmo sperare che non si trovino più sinonimi della Shoa. Non ci abitiamo, e l’assenza di sinonimi potrebbe essere più il segno della perdita di una coscienza etica, che di qualsiasi miglioramento collettivo.
Speriamo allora che il virus postmoderno passi al più presto – e si ritorni ad aprire gli occhi.

La Shoa intanto – si asciuga. Si spengono quelli che l’hanno vista, si stancano i loro figli, rimaniamo noi, i nipoti dell’Olocausto, a giustificare quella che i tecnici della psiche chiamano – la trasmissione intergenerazionale del trauma: quell’anacronistico fenomeno per cui, un ricordo che per tutti è pieno di nebbia e vuoto di sentimenti, da qualcun altro, continua a essere vissuto con la carne viva e il sangue negli occhi. Non che non abbia una sua utilità questa trasmissione intergenerazionale del trauma: è l’unica resistenza ancora attiva alla sonnolenza postmoderna. Ma ha anche qualcosa di patetico, almeno agli occhi di qualcuno – ci sei rimasto solo tu a soffrire per questo cumulo di cenere.

Solo tu.
Il cinema è l’ambito migliore per esplorare questo genere di cambiamenti. Continua a fiorire film anche interessanti, che si concentrano sul problema della Shoa, ma sta emergendo una nuova disinvoltura nel maneggiare un momento storico che aveva una sua sacralità. Ho come esempi The Reader di Stephen Daldry, e Bastardi senza Gloria, di Tarantino. The Reader è un bel film, ben diretto e recitato, in cui la vicenda della persecuzione antisemita ha un ruolo comprimario, rispetto ad altre questioni: è un gran film sulla letteratura, sulla scrittura, sulla comunicazione, sull’evoluzione del se. Per chi non lo avesse visto, è la storia di un ragazzo che incontra una donna, più grande di lui, con cui intreccia una relazione, per poi scoprire che era arruolata nelle SS e che era corresponsabile della morte di 300 donne ebree. Non voglio parlarvi di tutta la trama, ma mi voglio fermare su due punti interessanti per questo discorso. La donna nel processo per la morte delle 300 vittime, verrà incriminata per aver redatto il protocollo di procedimento, anche se di fatto non può averlo scritto essendo lei analfabeta. Ma la protagonista si vergogna di dichiararlo e questo le procurerà la lunga condanna. Questa scelta narrativa ha diverse implicazioni. La prima è la retorica della cultura come trampolino di lancio dell’etica. Il male alligna dove non c’è conoscenza, un concetto vero solo in parte e che se preso con troppa disinvoltura sfocia in un pericoloso classismo. La seconda è una inquietante relativizzazione della responsabilità. La scelta della regia ci chiede a noi spettatori di commuoverci davanti a questa ingiustizia. Ella secondo la regia, paga per un reato che non ha commesso. Non ha davvero redatto il documento! Cioè non ha ORDINATO di compiere una strage, ha SOLO partecipato con zelo nazista al compimento di una strage. Poverina.

Vedete. Se io penso a quelli con il mio cognome che sono schiattati con la responsabilità dei comprimari, a me di dire poverina non mi viene tanto. Per molto tempo il mio punto di vista, il punto di vista della trasmissione intergenerazionale del trauma, era il punto di vista dell’etica condivisa. Ci eravamo bruciati tutti con la Shoa ebrei e non. Avevamo appreso che ci sono circostanze morali dove non ci sono gradi. Non la vedevamo noi la differenza tra chi dice ammazza quello e quello che lo ammazza di mano sua. Ci parevano esecrabili entrambi. Dovevamo difenderci da entrambi.
E anche da altri pensieri impuri dovevamo difenderci. Alla fine del film la donna ha scontato la pena, è morta, e ha affidato i suoi risparmi a quel ragazzo che per lei si è rovinato la vita, chiedendogli di darli alla figlia dell’unica superstite della strage.
La figlia dell’unica superstite, è una perfetta icona del peggior antisemitismo. Colta e scostante. E molto ricca. La vera vittima è la poveretta morta nel carcere. La signora ebrea invece eccola qui, trionfante. Cioè il problema è la povertà. Gli ebrei erano ricchi e infatti vedi.

Apparentemente Tarantino si muove su corde opposte. Bastardi senza gloria comincia con un poveraccio, contadino della campagna francese che nasconde degli ebrei nello scantinato, fintanto che un ufficiale nazista li stana, e li ammazza tutti, sotto i suoi occhi. Mentre l’ufficiale spara il contadino piange – per la tensione, per la paura, per la concretizzazione del male : come contadino francese sappiamo che non è poi un uomo istruito, tanto meno un nababbo, ciò non gli ha impedito di capire da che parte si deve stare. Storicamente, così è stato per molti altri.
Ma il film continua, ribaltando le carte in tavola delle vicende storiche: si inventa una brigata di ebrei americani che vendica gli ebrei uccisi, e si inventa un attentato in un cinema che fa fuori tutta la dirigenza del Reich. Di qua e di la, appaiono scene, con ebrei incazzatissimi e vendicativi, che ammazzano i Nazisti con lo stesso gusto sadico, di solito riservato ai loro correligionari.
A molti ebrei questo film è piaciuto. Titilla il risentimento, blasona la vendetta. Regala il passato che il livore fa desiderare. Tarantino grazie! Tarantino sei dei nostri!

Tarantino non è dei nostri. Tarantino è solo un altro dei poveri stronzi da prendere a calci nel culo, come farebbe Magris, che prende Arbeit macht Frei e la mette nella sua cameretta, questa volta di lusso. Il ragazzo ha un talento per la decorazione, ossia – ha un grandioso talento per l’uso del linguaggio cinematografico, un po’ come le signore di classe che sanno accostare i colori quando si mettono i vestitini, lui sa accostare vicende e parole e immagini, e mette insieme sempre dei prodotti variopinti e godibili, addosso a certi suoi sentimenti primordiali, e certe sue riflessioni che sempre io credo, ruotano intorno al problema degli abbinamenti. In verità quando fa delle cose che a noi ci paiono tanto belle e progressiste: ah finalmente una donna che combatte! Ah che bello la vedetta degli ebrei! Approccia dei contenitori semantici e storici e morali, ma mica si rende conto di cosa c’è dentro. Non ha nessuna relazione emotiva con quei contenuti. Non je ne frega un cazzo a Tarantino delle femmine dell’ebrei e vedrai se un giorno non te fa un bello film su un handicappato nero campione de Tre Sette. Non ha mai pensato su certe cose con coscienza.

Bastardi senza gloria, fa allegria, solo per caso. Ma è una specie di Pulp Fiction in costume. Come tutti i film dello stesso regista, il vero protagonista non è altro che uno sguardo simpatico e pacificatorio con l’assurdità della violenza, con la gratuità dell’aggressività: quanto di più fedele ci sia alla sbornia postmoderna – ed è per questo che ha successo – per il misunderstunding che il gioco postmoderno produce. Quelli con lo sguardo moderno, una minoranza, pensano che egli – oh che rivoluzione! Oh che audacia! – accosti concetti con la consapevolezza dei contenuti, facendo un’opera di cambiamento davvero titanica. I restanti, compagni di miopia riconoscono il loro fratello fregancazzo, il compagnuccio di giochi nella sarabanda della regressione collettiva.
Fico!

Intanto.
Distinguiamo due intanto. Un intanto globale e uno più circoscritto. L’intanto globale sta nella constatazione di una generazione di soggetti assolutamente neutralizzati davanti alla visione del sopruso. Cosa c’è di più innocuo di un vigliacco? Un cretino che scambia una mitragliatrice con una pasterella. Un errore che permettono i tempi di pace, dove le mitragliatrici sono pistole giocattolo, e il sangue è il succo di pomodoro dei telefilm. Andrebbe persino bene se in questo modo, la pace non minaccerebbe se stessa: Tarantino oggi, Tarantino domani, arriva qualcuno che manda a puttane la democrazia e noi giù a spanciacce dalle risate – in Italia, sta già avvenendo.
Il secondo intanto riguarda la mia personale chiesa. Il mio mondo la mia sinagoga. L’antisemitismo ha una storia ben più lunga delle ideologie, della loro nascita e della loro morte. L’antisemitismo era prima della modernità e nel durante della postmodernità. Ha vissuto alterne vicende ma nei secoli non si è mai assopito del tutto. Lo shock della Shoa per un certo periodo ci ha protetti. Ha concesso un po’ di respiro. Oggi gli ebrei sono persino di moda.
Ma passerà –oh se passerà.

Remembering Susan: la nike con il boa

(Ieri era l’anniversario della morte di Susan Sontag – che almeno a me non smette di mancare, e da cui ho preso a piene mani un modo di guardare le cose che non mi abbandona. Pubblico un post che avevo scritto grazie a lei, oramai otto anni fa, agli albori della mia vita da blogger)

Vorrei cominciare con il compito non proprio facile di definire il concetto di Camp che, come molte categorie dell’estetica è piuttosto sfuggente e con dei confini molto sfumati – non nascondo che per farlo ho letto con molta attenzione il saggio ad esso dedicato da Susan Sontag, oggi reperibile in “Sull’interpretazione” uscito negli oscar mondatori. Si tratta di un testo breve e secondo me molto bello. Mi ha decisamente ispirata.

Con Camp si indica un certo gusto, una certa sensibilità che negli ultimi anni è diventata appannaggio della cultura omosessuale e queer, ma che di fatto ha una sua ragion d’essere a prescindere. Camp si sovrappone anche al concetto di kitch – ma anche in questo caso parliamo di una sovrapposizione parziale, tuttavia il paragone con quest’ultimo aggettivo ci può essere utile per capire meglio di cosa stiamo parlando.
Infatti con kitch ci riferiamo a qualcosa che è non solo di cattivo gusto, ma è tale perché evoca un tentativo malriuscito, un’ambizione fallita di eleganza per esempio, o di umorismo: l’oggetto kitch contiene invariabilmente un desiderio sfacciato di ammirazione, e di appartenenza: kitch è la categoria degli arricchiti che desiderano apparire come ricchi da secoli, e dell’umorismo volgare che ti chiede di passarlo come simpatico: Dimmi che sono dei vostri… così implora l’accendino a forma di tazza del cesso che avete comprato dal cinese, dimmi che sono dei vostri, così sussurra l’impagabile borsa simil versace con tutte meduse e borchie dorate. Kitch sono le altrimenti inqualificabili melodie del Rondò Veneziano (peste lo colga) Il patetico charme della velleità irrealizzate.

Può capitare di trovare un oggetto kitch anche camp, volendo può anche capitare spesso, ma rimangono due cose diverse. L’universo camp infatti non rimanda di per se alla bruttezza, anzi rimanda all’apprezzamento estetico – solamente estetico. Ma è un’estetica in cui precipitano delle categorie speciali: come l’ironia,la stranezza, la citazione, l’eccesso, l’accostamento improbabile, la confusione di confine. L’alto che raggiunge il basso, il basso che raggiunge l’alto, il femminile che ha qualcosa di maschile, il maschile che ha qualcosa di femminile, ma anche una certo apprezzamento per la perfezione formale: Camp è la Gioconda con i baffi di Duchamp, una Nike di Samotracia con un boa di struzzo, icone camp sono Greta Garbo e Patty Pravo, e la quintessenza dell’opera Camp è il bellissimo Moulin Rouge di Buz Luhrmann.

Esiste un’intenzione di partenza dello sguardo Camp e un suo risultato intellettuale. La partenza ha i valori della dissacrazione, della leggerezza, del distacco dall’esperienza: la Nike di Samotracia da sola evoca un mondo di una serietà abissale – solo nel suo braccio rotto c’è tutta la grecità e la poesia, e le speranze che continuiamo a riporre in lei, nella luce che viene dalla sua storia. La Nike in questo senso è per noi sacra. Il camp invece desacralizza: con una bella sciarpa di piume rosa la Nike sembra uscire dal suo contesto e approdare in un mondo separato del moderno relativismo. Le evocazioni della Nike reagiscono chimicamente colle piume del boa che rimandano al cabaret, al teatro, al carnevale, alla leggerezza, allo spasso al limbo dell’inutilità. L’eternità della Nike muore in una seconda eternità – questa volta non più soggettiva e irripetibile ma immischiata e ripetibile. L’eternità dell’industria culturale che tutto macina decontestualizza e ricontestualizza, in un unico sfondo ridanciano e stanco di cercare le profondità.

Non è un caso che sia il mondo omosessuale il grande produttore dell’estetica Camp. L’estetica tradizionale era ancorata a una percezione del sesso che investiva irrimediabilmente tutta l’esperienza esistenziale, ancorando l’apparenza di ognuno al destino sessuale con cui era nato. La bellissima Madonna di Filippo Lippi non ammette repliche sulla sua identità femminile. Camp è invece per esempio il cantante Prince, come Camp era la divine Greta Garbo. Camp è anche una rappresentazione di genere esasperata proprio perché in quanto eccessiva esce dal genere ed entra nell’estetica pura – donde deriva per esempio la passione tutta camp per la Callas, o il Davide di Michelangelo. In ogni caso, il Camp si ribella al giogo di una percezione visiva che nel suo ancoraggio a dei valori, costringe la nostra libertà. Il camp ha ambizione anarchiche, in primis in materia di differenza di genere: voglio essere uomo. Voglio essere donna. Voglio essere una splendida Drug Queen.
Il libro Middlesex di Eugenidies, è un altro grande capolavoro della cultura camp. Camp non è solo il suo magico protagonista, ermafrodita di origine greche che attraversa la storia degli stati uniti, tra bizzarrie di famiglia, viaggi coast to coast e travestimenti da sirena. Camp è anche lo sguardo e lo stile della narrazione, che racconta di personaggi bizzarri, e vite complesse e tragedie nefaste, con leggero distacco. L’incendio di Smirne alla fine dell’800, la povertà di Chicago degli anni 20, la stessa esperienza di vivere da ermafrodita, in questo libro non ci si accora mai, tutto è softly, lovely, glamour bizzarre. Molto ben scritto, ma volendo profondamente inquietante.

Spiega ancora Sontag – siccome il Camp è una sensibilità prima che uno stile, è innanzitutto una categoria dello sguardo prima che una categoria di ciò che è guardato. Questo fa si che possa tentare di rendere Camp qualsiasi oggetto su cui si posi. La trasformazione in Camp è nel pronunciare il nome dell’oggetto tra virgolette. Un conto è dire lampada un conto è dire “lampada”. Le virgolette sono il segno della decontesualizzazione, la lampada diventa l’idea di essa e perde materialità, Il camp, aggiungiamo noi, è un mondo a due dimensioni..

Ora, vi ho condotto fino a qui, non solo perché sono inoppugnabilmente cattivissima, ma anche perché ritengo che parlare di estetica Camp possa aiutare a riflettere su molte cose, dal momento che – sebbene Camp oggi sia soprattutto il codice della significazione culturale omosessuale, possiamo ben dire che campy sembrano essere diventate buona parte delle cose che ci circondano, con la loro caricaturalità con la loro perdita di senso, con la loro svuotata percezione delle cose. Così quando festeggiamo San Valentino, non pensiamo minimamente al sentimento all’amore o quant’altro, ma ci adeguiamo a giocare un gioco molto Camp. Così come campy è la modalità con cui è oggi è interpretata la campagna elettorale, laddove i contenuti espressi non rinviano più a dimensioni storiche e concrete ma sono chiamati in causa per il loro potere estetico: la politica ha perduto la sua significazione etica, e si è schiacciata sulla sua mera rappresentazione. Di più – sulla caricatura della sua rappresentazione.
E così come campy, è la rappresentazione a cui ci siamo abituati della morte, del dolore della sofferenza. Rivoli di sangue e risate di John Travolta.
“Pulp” è la traduzione sanguinolenta e cinica di “camp”.

Tutto questo ci riconduce alla critica alla società contemporanea portata avanti da Jameson nel suo saggio sul postmoderno.. Secondo questo pensatore è la struttura capitalistica della società a produrre una mercificazione dell’estetica che conduce rapidamente a una mercificazione della psiche e quindi alla morte della morale. . Con gli stessi rimpianti di Adorno, quando parla malinconicamente del tempo in cui non c’era il grammofono, questo autore rimpiange il tempo beato in cui alla soggettività dell’individuo corrispondeva l’unicità di un prodotto artigianale. Oggi l’opera d’arte è nell’era della riproducibilità tecnica, e la possibilità della sua riproduzione e direttamente proporzionale alla sua perdita di evocazione. Noi stessi siamo come frammentati dinnanzi a questo sfacelo. Nella prospettiva postmoderna questo processo di disintegrazione che affligge la nostra esistenza su più fronti, approda alla morte di qualsiasi ideologia e qualsiasi scala di valore.
A questo punto, riunire i due concetti diventa facile: qualsiasi manovra camp può ora risultare possibile. In questo senso camp e post moderno sembrano aggettivi intercambiabili – perché entrambi fanno riferimento a un orizzonte di senso in cui le gerarchie non sembrerebbero più valere. Andy Wahrol è Camp. Ma è anche postmoderno. L’unica differenza è che se usiamo la prima parola vogliamo mettere l’accento sulla parte glamour e decorativa delle sue cose, mentre se usiamo la seconda ci riferiamo al perché le opere di wahrol sono arrivate adesso e non in un altro momento.
Nel frattempo – in ogni caso, la violenza è diventata una questione di film da prima serata.

Allora ci ritroviamo dinnanzi a un mondo che possiamo considerare da due angolature diverse. Una certa prospettiva per esempio ama la postmodernità, ama questa mescolanza di cose diverse, questa desacralizzazione degli oggetti, perché gli riconosce la possibilità di dire delle cose nuove: sotto il profilo estetico pensiamo alla Piramide davanti al Louvre, e sotto il profilo etico pensiamo al fatto che in Spagna una coppia di omosessuali possa sposarsi. Le vecchie norme sono state relativizzate, nell’etica e nella morale e ora possiamo scrivere nuovi paesaggi.. questo va bene nella misura in cui sia nell’invenzione architettonica che nell’innovazione politica, la soggettività non è stata tradità, l’identità delle cose è rimasta intatta. Il brutto viene quando i contenuti sono svuotati, quando il mischiamento dell’alto col basso crea un appiattimento di prospettive. L’industria culturale tenterà continuamente di mangiarci la profondità e schiacciarci sulla superficialità.
Sta a noi riuscire a mantenere uno sguardo diverso.

E quando sullo sfondo di un orizzonte vedremo, un tempio, una maschera greca e un casco di banane. No, non dovremmo necessariamente decodificarla come la cucina che un arredatore chic ha organizzato per Dolce e Gabbana, ma un bellissimo quadro di De Chirico. Bello per quell’insieme, bello per i ricordi che possiedono tutti quegli oggetti.

Crisi, Suicidio, genere

(Ho trovato questo vecchio post che avevo scritto nel 2012 ai tempi in cui erano estremamente mediatizzati i suicidi per il fallimento finanziario. Lo ripubblico in questo blog perchè mi sembra possa contenere alcuni spunti anche clinici per capire chi può essersi suicidato invece per una improvvisa perdita di denaro – come è accaduto in questi giorni. Le vicende non sono identiche, ma hanno davvero tanti punti di convergenza. Buona lettura)

È un po’ di tempo che avverto il desiderio di scrivere qualche riflessione sull’epidemia di suicidi di cui si è parlato recentemente sui giornali – e moltissimo sui nostri blog. Mi sono accorta che la questione era diventata un fenomeno mediatico quando ascoltando Santoro che parlava di Monti la crisi e le tasse nella gestione di equitalia, mi sono ritrovata a vedere l’intervista di una signora il cui marito si era appena dato fuoco. Di li a poco ho cominciato a contare tutta una serie di suicidi spettacolarizzati – per esempio il portale libero.it mi ha funestato l’accesso alla posta per due giorni secchi su un signore che era sopravvissuto al suo stesso tentativo. Ma le storie continuavano a fioccare anche sulla stampa i telegiornali, i giornali distribuiti gratuitamente. Un processo sinistro e un po’ fascinoso.
In questo tipo di circostanze io ho una reazione un po’ anomala – forse. Ma siccome avverto la portata emotiva e capitale del gesto, che quando afferro in pieno mi coinvolge profondamente in modo da dovermi imporre una tenuta, una resistenza – io più per egoismo che per empatia mi irrito notevolmente perché sento che si sta manipolando quel dolore tramite la possibile manipolazione del mio. Si fa politica tramite la mia reazione – si rincorre una perdita di lucidità. Perché, come a un certo punto è diventato noto a tutti, no quest’anno non si sono ammazzati più dell’anno scorso: ergo non è Mario il sicario. C’è una tendenza relativa a partire dallo scorso decennio, ma manco a dire che prima non s’ammazzasse nessuno per debiti. Preso atto di questo dato statistico, la stampa non ha potuto evitare di fornire opinioni in merito – e in effetti, anche io sto cedendo alla tentazione. La narrazione suicidaria ha un fascino sinistro da esorcizzare, una spirale mortale da cui tirarsi fuori vuoi mettendo in scena la fine di una rete sociale di riferimento, vuoi santificando le categorie della diagnosi psichiatrica, vuoi parlando dei disvalori di un età di rammolliti. Non dovrebbe essere lecito generalizzare e prendete questo post come il lusso che si concede chi non si fa pagare per essere letta. Prendeteli come pensieri che indicano un orientamento possibile di lavoro, una discesa verticale individuata da un radar che ha i suoi margini di errore.
Il gesto suicidario è un complemento oggetto, qualcosa che si prende in mano, la più grande delle cose che il tavolo dell’esperienza mette a disposizione – persino più di quell’altro oggetto immane, che è la procreazione, perché implica una negazione di se, un nient’altro dopo. In quanto oggetto io lo chiamo anche sintomo, e come tutti i sintomi non può essere mai eretto a categoria a se stante. Non esiste una unica struttura della personalità suicidaria, un po’ come non esiste una personalità unica per altri classi di complementi oggetti, come i disturbi alimentari o le dipendenze. Ci sono soggetti più tentati di altri – ma non significa molto. Certo è che esiste un dato sociale significativo, che non riguarda specificatamente questa crisi, ma la reazione in occidente dinnanzi alle crisi finanziarie sempre: come è vero che nel 29’ ci fu una giornata nera in cui si ammazzarono un numero impressionante di azionisti.
Faccio notare – ora come allora – per lo più maschi, benché la pagnotta scarseggi per entrambi e i figli piccoli siano sotto lo stesso tetto. Sarà interessante studiare se il gap di genere in questo ambito rimarrà o varierà colla sempre più ampia partecipazione delle donne al mondo del lavoro, alle sfere dell’imprenditoria. Credo che l’esperienza della maternità, salvo prospettive psicodinamiche che sovvertono i normali equilibri interni in maniera assolutamente autonoma dal contesto e allora la crisi difficile che ci rientri, non funga solo da argine ma struttura proprio la personalità in un altro modo. La dicotomizzazione dei ruoli di genere allora in questo contesto ha un peso – non tanto nel frangente specifico, quando la persona si trova a dover fare i conti con un’insolvenza o una bancarotta che non sa affrontare, ma nei suoi primi anni di vita, nell’organizzazione del sistema sesso genere quando fu educato, e i valori che gli hanno trasmesso, meglio ancora: il modo con cui è stato diversamente amato dai genitori.
Questa è la mia congettura. Gli uomini che di fronte alla crisi si spezzano psicologicamente, che lo fanno per quell’assemblaggio di circostanze e non altre, si sono strutturati in un modo tale che la loro identità è tutta proiettata sugli oggetti della realizzazione professionale, sugli oggetti del lavoro. Che non vuol dire per niente non curarsi della famiglia, non amare, e neanche – esattamente essere innamorati del proprio lavoro. Può voler dire invece saldare tramite una certa occupazione una serie di conti, con l’ideale del se ereditato dal padre, con l’amore della madre. Il diritto ad essere solo nel momento in cui si da prova di una efficacia nel mondo che è una traduzione della virilità così come essa è culturalmente rappresentata. Essere solo le cose che si fanno. Essere lo stile di vita che si garantisce a chi è intorno, pensare la protezione dell’altro perpetuando un’asimmetria che tuteli il sogno di riparazione. Non ti dico che ho i debiti, moglie mia, non ti dico che sono in mano agli strozzini, perché voglio continuare a specchiarmi in quello che vedono i tuoi occhi, voglio sperare con questo mio provvisorio silenzio che l’incrinatura nella mia identità calata nell’efficacia professionale, nel senso di responsabilità, si saldi da sola e smetta di esistere. Come una falda di terra su cui torna a crescere l’erba. L’innocenza dei figli è il baluardo contro il crepaccio. Ma mi chiedo se sia una coincidenza, il fatto che a darsi la morte siano per lo più uomini e il fatto che nella nostra cultura nessun padre ha insegnato ai figli la continuazione identitaria con i figli e con gli affetti. Il fatto che finchè loro ci sono tu ci sei, finchè c’è la relazione tu hai ancora senso. Perché nella nostra cultura la relazione è una cosa da femmine, sono le femmine che sono portatrici di identità in quanto portatrici di relazione. E le femmine perciò dicono, io sono l’amore che do’ fossanche in galera, fossanche a pulire i cessi. Se io sono stata allevata in un amore normale e non eccezionale, o anche un po’ meno del normale, non sarà mai la crisi a farmi prendere quell’oggetto. Io so che non c’è errore per cui non possa essere ancora io. Invece una vecchia prospettiva c’è il timore che l’errore non sia perdonato. Dunque questo è un paese ancora piuttosto arcaico – qualora non ce ne fossimo accorti, e a cui una diversa percezione dei ruoli di genere può dare forze e risorse che non siamo disposti a immaginare.

 

(Maybe) in a sentimental mood.

 

Cominciamo questo post da una canzone? E’ Azzurro – in origine di Paolo Conte portata però alla gloria dalla voce di Celentano. E’ una canzone pregevole davvero per tante cose che i musicisti potrebbero spiegare meglio di me. Qui ci interessa per la sua capacità di circoscrivere un sentimento sottile, uno stato d’animo preciso che a tutti capita in certo momenti, mentre alcuni vi sono quasi condannati per tutta la vita.
Il personaggio di Azzurro è annoiato – non triste, non malinconico ma non esattamente felice. E’ inerte: ora avrebbe il sole e non lo sfrutta, avrebbe l’amore e non gli va incontro. Dell’amore ha bisogno ma non lo sente.

Mi accorgo, di non avere più risorse senza.. di te
E allora, io quasi quasi prendo un treno e vengo, vengo da te
Ma il treno dei desideri, dei miei pensieri all’incontrario va.

La canzone parla di un assolato momento senza passione, senza attrazione, senza energia. Una calda freddezza piena di incantato disincanto, cercare l’africa in giardino tra l’oleandro e il baobab – La pigrizia generosa con se stessa, l’esitazione protratta, l’apoteosi del flaneur di benjaminiana memoria.

Ecco:
cosa penserebbe il personaggio di azzurro, quando peregrinando intorno alla parrocchia dovesse incontrare una coppia di amici e li vedesse parlar tra loro in modo lezioso? Oppure, come giudicherebbe la madre che davanti una sicuramente sciocca soap opera, dovesse avere gli occhi umidi? O. infine, che direbbe di una certa poesia zuccherosa, di un impudico racconto di tenerezza?

Ossia, la domanda che è alla base di questo post: qual è la differenza tra onesto sentimento e sentimentalismo? Siamo sicuri che si tratti di una variabile sempre a carico dell’oggetto giudicato – come tendiamo a credere? Il personaggio di Azzurro, il nostro Paolo Conte ancora giovane e con il nasone grosso e torreggiante – uno che in un secondo momento avrebbe parlato di lune di marmellata, Signoriddio viene il mal di denti al sol pensiero – che cosa avrebbe detto?

Un certo tipo di personaggi contiani, magari un po’ in la con gli anni, con un bel po’ di vita dietro le spalle sorriderebbero dolcemente, ma senza iracondia, senza sarcasmo e senza fastidio. Hanno amato, lottato, pianto, sognato, si sono permessi il lusso di scendere in basso nella sconcezza del sentimento, nella vergognosa impudicizia del vezzeggiativo una volta, nella beata verginità dell’ideologia politica un’altra, e ora pieni di cicatrici e di rammendi, guardano con la tenerezza dei vecchi le sfide cavalleresche di chi ha ancora cuore a sufficienza per un anello con lo zircone e una brutta poesia. E’ comprensibile che questi personaggi non abbiano tanta voglia di prendere treni dei desideri, ma non è escluso che tornino a farlo.
Ma c’è un altro tipo che così sembra quasi esserci nato, non avendo mai mosso una paglia che se ne abbia memoria. Gente nata saggia, e talmente pratica di calcoli probabilistici che come certi bambini magici che sanno indovinare il numero di fiammiferi in una scatola, con un solo colpo d’occhio indovinano i mille scacchi a cui va incontro il romanticismo, sanno che nella migliore delle ipotesi l’usura delle cose ne procura presto o tardi se non la fine immediata il lento tramonto e forti di questo pensiero passano la vita in una prudente spilorceria sentimentale, di relazioni a termine, di ambizioni contenute di un buon gusto salottiero di giovane nei locali giusti: ragazzi già vecchi che fanno battute brillanti. vecchi che sembrano voler fare sempre i ragazzi.
Ti presento la mia prossima ex fidanzata.

 

In questa roccaforte prosciugata da rischi, la rappresentazione del sentimento (specie felice) è oggetto di un profondo disprezzo, imbarazzo, lontananza, rammarico – o in altre parole invidia. Non credo che sempre si invidi esattamente l’oggetto: il bacio, la bandiera, la promessa stessa fatta all’indicativo, ma quel poterlo fare, quel permettersi di cadere e salire, tutto quel testardo scommettere, quel che di impavido e terribile. Lo straccione sentimentale è dunque quanto mai confortato dai fallimenti altrui, verso i quali è capace di mostrare una gentile comprensione specie quando i fallimenti sono dichiarati come tali. I divorzi temprano il suo spirito, lo confortano nel suo opportunismo in fatto di erotismo, e dunque ama oltre ogni dire il buon gusto dell’intellettualizzazione, la borghese difesa della razionalizzazione.
Da qualche parte deve essere molto infelice, ma per sua disgrazia ha trovato una seggiola comoda. Che è obiettivamente la sua condanna. I più disadattati e acclaratamente nevrotici si potranno far aiutare per trovare la via della scommessa.

Non che il sentimentalismo non esista – termine con il quale codifichiamo una rappresentazione dell’emotivo che non corrisponde a verità emotiva. Provare sentimenti e scriverne per esempio non è la stessa cosa, e l’odore di finzione è amico del cattivo gusto e dell’orrore estetico. In un bel racconto di Doris Lessing una giovane protagonista molto guardinga e ferita, dice al suo compagno che la riempie di coccole e attenzioni: tu non mi ami, tu hai l’abitudine di amare. Ossia, giochi alla rappresentazione del sentimento che per te è diventata una sorta di routine un vestito, ma io sento la distanza. Il sentimentalismo è il marketing dell’emozione, la captatio benevolenziae tramite confisca delle viscere. Stai con me, dammi il tuo cuore e le tue lacrime, abbassa la guardia del tuo salubre senso critico, comprami, votami, apprezzami prendimi per la mia truffaldina rappresentazione. E dunque è sacrosanto condannare il sentimentalismo, perché se c’è impostura c’è uso narcisistico, e se c’è uso narcisistico c’è subito abuso dell’altro, riduzione a sineddoche, si vorrà una parte di te e non tutto te, si vorrà la scopata e si scarterà il resto, il voto politico e non il progetto. Sarà la negazione dell’etica kantiana, perché ti si celebrerà come fine ma sarai sempre mezzo.
Dio ci salvi dal sentimentalismo.

Tuttavia discriminare a volte non è facile e forse decidere se si tratta di recita o realtà passa anche per una conoscenza più dettagliata di se e degli altri. A volte la scarsa conoscenza ci fa passare per sentimentale quello che è puro sentimento, oppure ci fa scambiare sentimento quello che è mera truffia. A volte usiamo queste categorie come artiglieria pesante da ingaggiare nelle discussioni oppure, come armatura leggera per difenderci dalle sfide della vita. Ma forse dovremmo invece farci delle domande sull’altra polarità possibile e sugli estremismi emotivi ed esistenziali che implica: l’opposizione tra il bisogno di credere a tutto e quello di non credere in niente.

(Ma già che ci siamo – passiamo di qui)

Fecondazione e techne: un primo articolo.

Premessa

  1. Una sera a cena, una mia cara amica mi chiede un post psichico sulle nuove forme di genitorialità. Sua figlia, single, è ricorsa a un donatore per avere un figlio e ora è madre di un bellissimo bambino. Io accetto e la ringrazio della fiducia, ma in cuor mio sono spiazzata. Ho tante perplessità su questo tipo di assetti familiari!
  2. Un pomeriggio, via Facebook un mio collega mi chiede di discutere con lui sulla fecondazione assistita, e su queste madri che egoistissime! Vogliono fare i figli da sole! Ne viene una discussione molto bella – in cui io per molti aspetti, mi ritrovo a difendere le madri egoistissime.
  3. Persone in gamba, nelle stanze della casa delle donne, discutono del problema della surrogacy, lo fanno da tanto tempo e io ci vengo in contatto solo ora. Sono dentro a un dibattito internazionale che dura da molti anni e che si confronta con tante complicazioni, di ordine etico, economico, politico e naturalmente psicologico. Raccontano per esempio di femminismi indiani – dove giovani donne si oppongono a che il proprio utero ospiti l’ovulo di donne ucraine per generare bianchi bambini da vendere all’occidente. Di intrecci tra titolarità del corpo e determinazioni di classe. Il problema di dove cominciare. Di madri californiane che vendono un figlio in grembo e cambiano idea quando lo vedono.
  4. Esce fresco come una rosa, ma grossolano e quindi fondamentalmente inutile un appello di SNOQ, – una raccolta firme contro la surrogacy. La semplicità dell’appello, l’indicativo con cui si chiede che i signori di tutto il globo terraqueo fermino la surrogacy è un autogol clamoroso agli stessi obbiettivi che si prefigge. La grossolanità provoca due effetti: quello di radicalizzare le posizioni di chi era invece favorevole alla surrogacy e l’irritazione di chi invece è contrario. Eludendo le complicazioni bioetiche che sono nel cuore di ognuno mette gli interlocutori sulla difensiva.

 

Non siamo mai stati tutti buoni, previdenti, altruisti e molto seri nel fare i nostri bambini. Abbiamo fatto bambini quando eravamo a nostra volta bambine di dodici anni o quindici, li abbiamo fatti e poi ci siamo pentiti e l’abbiamo regalati alla zia zitella, li abbiamo lasciati in cassette della frutta al freddo, li abbiamo fatti è uccisi perché avevano un’aria malaticcia e allora tanto vale, spesso li abbiamo ammazzati invece perché femmine e che ci fai con le femmine se per giunta fanno altre femmine, li abbiamo anche venduti nuovi nuovi di zecca, abbiamo cercato puttane con i fianchi larghi perché fossero ospitali, e marinai col cazzo lungo che vai sul sicuro. Abbiamo lasciato interi plotoni di bambini crescere intorno alle gonne di donne sole, coi padri sequestrati quella volta dalla guerra, quell’altra dai mercati sul mare, quell’altra dall’industria, e tante altre ancora semplicemente dal vino del bar, o da una sequenza di scopate magari con un altro uomo. Alle spalle abbiamo un mondo di bambini cresciuti come funghi, come erba gramigna nei giardini dei signori. Non di rado questi bambini sarebbero diventati omicidi, gatti selvatici, cani abbandonati e cani arrabbiati, alcolisti o bestie inermi e adatte a niente e finchè le donne non contavano e ce ne erano a iosa di questi bambini come erba di campo – ce ne siamo sempre allegramente fottuti.

Quando la techne è arrivata negli ingranaggi del concepimento, c’erano già state diverse rivoluzioni copernicane, almeno nel mondo di noantri. I bambini hanno smesso di essere erba gramigna e sono diventate piante coltivate, da concimare e curare con i migliori prodotti, le madri avevano guadagnato posizioni dalle retrovie delle cucine fino agli avamposti delle cene in salotto e incredibile, dei posti di lavoro – e addirittura si cominciava a disgiungere la funzione materna dalla madre, con tutta una selva di nuovi delegati: padri capaci di essere materni, zie diventate di fondamentale importanza, una nuova rilevanza alla contestualità. La psicologia evolutiva, e la nascita di una psicoterapia specializzata nelle prime fasi della vita, poteva essere anche interpretata come nuova funzione dello sguardo capitalistico che deve proteggere al massimo e anzi rendere più produttivo il suo nuovo investimento: l’infanzia.

I bambini felici di oggi, sono i cittadini capaci di domani.Quante cose brutte facevamo alla nostra eredità in quei tempi selvaggi di stupri alle madri e frustate ai minori! Che cosa cattiva era la nostra natura – dobbiamo assolutamente redimerci.

L’ingresso della techne negli ingranaggi del concepimento – ne dilata i tempi in maniera imprevista e permette una sorveglianza sulle motivazioni degli attori ai nostri avi assolutamente sconosciuta. Gli ovuli si congelano, si impiantano in altri uteri, i semi oppure si inseminano altrove e nell’utero ritornano, si fa a tempo a indagare motivazione e desideri, l’egoismo umano risplende come un lucido ventaglio come mai prima d’ora, rivelando anche impudiche verità che noi non avevamo mai avuto modo di dire a noi stessi. La nuova techne dell’informazione arricchisce la questione ed è subito, intervista, inchiesta indagine. La donna che prende soldi per farsi ingravidare, l’uomo che con i soldi si compra l’immortalità. Chi ha il potere e chi non ce l’ha. Cosa si fa con questo potere? E di nuovo i bambini in mezzo, di nuovo a pagar le conseguenze di ciò che non scelgono.
Non è cambiato niente. Siamo i soliti stronzi. Solo che l’ingresso della techne nel concepimento permette a diverse nuove agenzie di avere un’opinione dirimente sulle scelte di chi concepisce e apre un piccolo spicchio di catarsi: controlliamo! Ostacoliamo! Ma siccome il potere dirimente sta sempre dalla parte dei quattrini, gira che ti rigira facciamo fatica a smettere di essere i soliti stronzi. La coppia bianca che vuole il bambino e non riesce a farselo da se, l’otterrà usando altri corpi. La nevrosi in qualche caso, il bisogno di sfamare altre bocche in molti molti altri farà, usare ad altre donne il proprio corpo.

Non si può fare proprio niente?
Non si deve fare proprio niente?
Da un altro punto di vista, non possiamo illuderci di avere una verginità etica e psicologica, e sperare di non aver compiuto uno strada sulla valorizzazione della qualità di vita che è – per tanti versi grazie al cielo – senza ritorno, ma sulla quale diverse culture occupano posizioni ancora diverse: qui i bambini sono sacri, altrove hanno un fucile in mano. Qui le donne hanno un valore sociale vicino agli uomini altrove affogano in un nulla disprezzato. Ma qui dove stiamo noi nessuno avrebbe voglia di tornare indietro e di rinunciare a quegli strumenti che servono a mantenere la dignità esistenziale della posizione ottenuta e dunque tutti i saperi e le riflessioni che sono le colonne di quella posizione esistenziale, le sicurezze le garanzie e le risorse. Dopo illuminismo, sessantotto, lotte operaie, cancellazione della pena di morte, femminismo, legge sull’aborto e sul divorzio, istituzione di un servizio sanitario pubblico, vaccinazione, e scuola pubblica, servizi sociali che monitorano la qualità della genitorialità e intervengono dove è possibile – dopo cioè questa immane e sacrosanta istituzione di una dignità alla qualità di vita, non si può fare spallucce nel calcolo delle conseguenze del nostro pur innato egoismo.
Se prima si scopavano le sartine e poi si andava a fare i signori lasciando i bastardi in giro alla vita che veniva senza farci caso, ora dobbiamo per lo meno contenerci. Se prima la madre di cinque figli arrivata al sesto diceva, che palle questo non lo voglio, lo do’ a mia sorella – questo ora non lo possiamo fare più almeno non con la stessa leggerezza. Anche se prima si stuprava e ci si teneva il bimbo ora non si può mica usare il corpo altrui con la stessa improntitudine di allora. Abbiamo conquistato delle cose che sono importanti da sapere. Quindi forse, dovremmo regolamentare l’ingresso della techne nel nostro desiderio.

Ora io posso parlare per ciò che mi compete ossia, quel secolo di psicologia dinamica ed evolutiva che ora è diventato pervasivo nelle nostre prassi e nei nostri linguaggi. Questo complesso sapere può dare diverse sofisticate indicazioni sulle nuove famiglie che si strutturano con le nuove forme di fecondazione garantite dalla techne e che qui riuscirò soltanto ad accennare anche rifacendomi a quello che si osserva nell’ambito dell’adozione – la contestualità di vita su cui abbiamo esperienza che più aiuta a capire quello che può accadere con fecondazioni che avvengono in maniera eterodossa.

Abbiamo per esempio una certezza – che mette insieme studi di psicologia evolutiva anche precoce, e osservazione di bambini adottati: siccome i bambini quando sono ancora nella pancia instaurano una relazione molto intensa con la madre, con il suo ventre (l’udito del bambino si struttura, per dirne una, intorno al quinto mese di gestazione e i primi suoni che udirà saranno del corpo e della voce della gestante. Di li a poco si formerà l’olfatto. Gli occhi invece – quelli che contano di più per la nostra civiltà super – razionale si formeranno definitivamente qualche settimana dopo il parto) Quindi, la separazione del bambino da chi lo concepisce è INVARIABILMENTE un grave trauma. Un canovaccio di sventura, una calamita di profezie della separazione dolorosa. Per questo sempre di più si testano le capacità della coppia adottiva nell’accudire un piccolo e le psicodinamiche che le caratterizzano, perché una coppia adottiva deve essere capace di sanare quella ferita originaria quindi con un arsenale di risorse in più. Quindi quando la techne introduce la fecondazione eterologa sarebbe ideale quanto meno rendersi conto che non diversamente dall’adozione questo bambino andrà in contro a una frattura: l’innaturale frattura col materno che l’ha concepito.

Dopo di che c’è anche la narrazione di quella frattura che è un’altra questione contundente: se non detta diventa incredibilmente pericolosa   – i non detti in età infantile sull’origine sono dei terribili detonatori di patologie gravi, fino al campo psicotico – ma se detta è comunque alla base di una grande sofferenza: la madre che non ti tiene perché non gli interessi, la madre che non ti tiene perché le facevano comodo dei soldi. Alla mente infantile non importa che sta a disagio, che ha altre bocche da sfamare, perché davvero nessuno di noi sente di valere un prezzo definito.

E ci sarebbe naturalmente anche da riflette in termini psicodinamici non proprio tranquillizzanti molto sulle donne e gli uomini che decidono di dare il proprio corpo o seme per un bambino che non terranno che sulle coppie o single che si organizzano in queste vie alternative per avere un figlio. Però qui l’argomento si fa eticamente accidentato almeno per il mio modo personale di vedere le cose. I minori hanno diritto a vedersi protetti dall’emergere di una patologia e di un torto che sembra arrivare prima di loro, ma io per parte mia anche se posso avere delle perplessità sulla salute psichica di chi compie certi gesti, e posso pensare che il farli possa anche peggiorarla, non credo di avere il diritto di usare quelle perplessità per chiedere un intervento sul piano giuridico – e come ho sempre pensato che tutti anche le persone oggettivamente peggiori e inadeguate hanno diritto di riprodursi, non posso fare a meno di credere che sul piano giuridico certe scelte non debbano essere tout court impedite.

Posso però ragionare sugli strumenti che il campo psicologico può offrire per una riduzione del danno. E questi strumenti viaggiano su diversi binari.
Il primo riguarda una sorta di riconoscimento del limite e delle priorità. Io non credo quindi che chiedere di proibire la surrogacy sia davvero eticamente praticabile e praticamente possibile, ma penso che sia sacrosanto per esempio introdurre la norma per cui fino all’ultimo fino alla nascita e un pochino oltre la gestante possa cambiare idea. Trovo di una violenza inaudita quella separazione tra madre e bambino e ritengo che la negazione di quella relazione sia un grave problema del nostro atteggiamento bioetico. E quindi se da una parte non trovo corretto anteporre la mia idea di meglio a quella che una donna ha per se e per il suo corpo, e se da una parte la coerenza con la lunga storia della nostra sostanziale cattiveria di specie ci impedisce a proteggere i bambini fino a questo punto, trovo però imprescindibile che, proprio nel momento in cui quella relazione vitale si forma, che abbia una finestra di salvezza aperta fino all’ultimo.
Una madre deve potersi tenere il suo bambino.

 

In secondo luogo la processualità della surrogacy dovrebbe poter contare su un contesto specializzato che aiuti a elaborare le tappe simboliche al fine di eliminare dal campo eventuali non detti che diventino molto pericolosi. Come per l’adozione, in questo paradossalmente le coppie eterosessuali hanno maggiori necessità delle coppie omosessuali perché il vissuto di sterilità ha connotazioni di sofferenza e sanzione interna ben maggiori che per le altre – per le quali la mancata procreazione normale è un fatto logicamente conseguenziale della loro posizione esistenziale. Il figlio della coppia omosessuale avrà addosso meno formazioni fantasmatiche sinistre, meno questioni da riscattare, meno fallimenti da obnubilare – essendo semplicemente il figlio di una coppia che voleva un bambino e che se avesse avuto altri gusti sessuali avrebbe tranquillamente potuto avere. Invece, intorno all’eterologa e alla surrogacy per la coppia eterosessuale possono agitarsi fantasmi pericolosi, problemi di vario ordine e grado, che poi potrebbero trovare un capro espiatorio simbolico persecutorio e quindi pericolosissimo nell’oggetto estraneo il seme paterno che viene da lontano, la parte genetica che non si conosce, l’ovulo di un mondo segreto e magari disprerezzato. Oggetti su cui si potrebbero incrostare questioni pregresse dell’infanzia e dell’esperienza di figli dei genitori che ora fanno un figlio.

 

Queste sono le riflessioni, mi rendo conto insufficienti che mi vengono in mente intorno a questa complicata vicenda. Non sono esaustive e servono anzi per avviare un dibattito magari un po’ più sofisticato e attento alle tante variabili. Da cui magari potrebbe emergere un secondo post.

Power of Music

(cominciare da qui)

(In alcuni fortunati momenti, ritorna viva come ne aveva perduto il ricordo, le mani le braccia e le gambe si riprendono un dominio dimenticato, si vogliono mangiare lo spazio, rivendicano l’identità che anni fa aveva barattato  – la giovinezza lasciata al suolo come la pelle di una lucertola.

Camminare con quella falcata che si mangia il mondo, l’arroganza dell’illusione di eternità, non guardare dove si mettono i piedi, tanto che importa se caschi, che cos’è mai una storta, rivivere quegli anni beati senza una schiena e una responsabilità – anni di onori possibili e oneri impercettibili, a cavallo di calzoni sottili, anni in cui se si stanca il corpo c’è tutta la domenica per dormire.

Riprendere lo swing beato di quell’epoca di pirateria erotica e sentimentale, le disinvolte forme di arrembaggio, le strategie di non curante incursione, la levità impavida che faceva uscirne sempre con la pelle liscia e il rimmel colato, ricordare certe malinconie per lo più riottose, che non l’abbattevano ma le mettevano un fioretto un mano e un rossetto nuovo.

Ascoltare una cantante che sente come sorella delle cose epidermiche di vita, ed esserle grata per aver tirato fuori dalla coltre delle mute abbandonate la ragazzina che è stata, i gestacci che faceva a quello che le tagliava la strada, le battute infelici a sua madre, il modo di tirare indietro la grandissima quantità di capelli che per fortuna ha ancora – chi sa per quanto.)

Post Proust

 

Alle volte mi capita di guardare i bambini con i loro genitori, o anche da soli con altri bambini, e faccio caso a quel paradosso curioso per cui certi gesti belli di cui sono oggetto diventeranno parte del loro corpo, ossa della loro personalità, eppure non ne avranno memoria.
Il modo di quella madre di chiudere il cappottino alla figlia – la sua brusca precisione.
Quel padre che arriva sull’orlo della pazienza davanti a tre bambini piccoli due dei quali sono suoi e si vede che sta per urlare e non lo fa. I riti dei figli degli amici, dei nipoti, quelle quotidianità altrui che sono un po’ nostre e sfioriamo per un momento. E ci fanno capire delle cose, anche non sempre belle, del futuro altrui che si dipana.

Si diventa vecchi e il passato diventa remoto, l’imperfetto magico. L’infanzia è un’isola che si da per scontata e che se ti giri a cercarla è già persa nella nebbia.Che cosa vi ricordate? Ci sono cose belle che siete riusciti a trattenere? Cose molto antiche?
Non sono tremendamente poche?

  1. A Livorno i miei nonni avevano una casa con i pavimenti di graniglia lucida. C’era un cane vecchio e tremante le cui unghie scivolavano faticosamente. Il cane era un barboncino grande, con tanti ricci. Ed è stata la mia prima esperienza con la tenacia e la devozione. C’era una cucina grandissima. Mia nonna mi comprava un formaggio in crema dover, che vendevano in un bicchiere e che io amavo molto. Mia nonna invece amava i bicchieri del dover e ci riempiva la credenza. Avevo due o tre anni. La cucina era in formica rosa – oggi la troveremmo orribile. Io la trovavo enorme. La ricordo in una prospettiva dal basso, e il tavolo che torreggiava come se io fossi un gatto, e anche le sedie le ricordo molto grandi.
  2. A Livorno in macchina capitava che la nonna guidasse e il nonno si trasformasse e diventasse incredibilmente aggressivo e rabbioso – la nonna faceva delle manovre che lui considerava con uno scandalo più etico che pragmatico. Non sbraitare! si difendeva la nonna! Ed era uno scenario che mi metteva in grande imbarazzo. Tuttavia, i bambini capiscono ogni cosa e anche in quel frangente era chiaro il gioco di forze. Mia nonna era la regina, la divina, l’amata. La bellissima intelligentissima e non esattamente buonissima. La macchina era una delle poche aree di riscatto – di cui lei si rendeva conto con paziente supponenza.
  3. Mia nonna che nel tinello mi dice una cosa come. Io voglio bene a te, a tua sorella, a tua madre, e al nonno. Basta. (Era una cosa tremenda da dire, lo capii anche allora, ma l’ho adorata. Non ho una rosa così ristretta di amati – tuttavia ho fatto mia quella lucidità emotiva, quella cattiva onestà, quella franca ostilità alla retorica dell’affetto.)
  4. Sempre con mia nonna pomeriggi sterminati a fare il gioco delle fate. Il gioco delle fate era una sorta di gioco di ruolo ove c’erano appunto diverse fate che noi impersonavano e che credo avessero nell’ordine molti problemi di relazione e di vestiti. (Temi che qualche maligno potrebbe dire – mi sono rimasti cari) Mia nonna soffriva di insonnia per cui ogni tanto interrompeva per dirmi, fammi dormire cinque minuti. E ricordo che si addormentava, passavano un po’ di minuti in cui io aspettavo seduta e zitta poi si svegliava e si ricominciava il gioco delle fate.
  5. Io in braccio a mia madre ma anche a mio padre loro che mi chiedono quanto vuoi bene a mamma, e poi a papà di quantificare con l’ampiezza delle braccia, e io che cerco di mettere insieme logica e rispetto dei sentimenti altrui, oltre che questioni matematiche, così no così un po’ di più un po’ di meno. Ma sulle ginocchia dei genitori, mi sentivo molto importante.
  6. La sensazione della promessa tradita. Ti porto li te lo prometto e invece no.
  7. Un vestito rosa a fiori appeso alla maniglia della mia camera. E’ un ricordo vecchissimo, una cosa dei primissimi anni, a posteriori la prima materializzazione della vanità. Il vestito brillava di un’eleganza discreta – era rosa antico, con dei fiorellini piccoli neri.
  8. Mia madre e mia sorella che mi facevano il solletico da piccolissima e non smettevano credendo che mi divertissi, non capendo che invece dovevano fermarsi ed è in tutta onestà un bruttissimo ricordo – anche se sono sicura non vi era alcuna cattiva intenzione anzi al contrario, il divertimento dovuto al credere di far divertire, e la difficoltà di mia madre di capire la mente dell’altro. Non fate a lungo il solletico ai vostri bambini, violate dei confini, li costringete a sfidare qualcosa di fisico che non possono però dimostrare di non poter tollerare.
  9. Le mattine sul ponte per andare a scuola con mio padre, il freddo sulla pelle della faccia. Mio padre mi raccontava delle storie complicatissime quando mi accompagnava a scuola e in particolare c’era questo personaggio Johanna, credo summa di tutte le aspettative erotiche di mio padre, che era bellissima, ma molto molto capace con il karatè, e quando arrivavano i cattivi sulla nave lei con una piccola mossa di karate li stendeva tutti. La mossa di karate arrivava sempre sul ponte. Mio padre faceva un gesto complicatissimo con la mano, una strana rotazione che partiva dal basso e che gli costava un certo impegno, “ e allora Johanna Sebastian Dick faceva tzik! “ e tsik era questo gesto magico che avrebbe steso con la grazia dell’economia minimalista decine di nemici.
  10. Gli occhi malati della vecchissima gatta immobile sul termosifone.

    (Potrei continuare con cose più belle e molto meno belle. E’ tranquillizzante)