Negli ultimi anni della sua vita, Luigi Aurigemma aveva smesso di prendere nuovi pazienti in cura – sentiva la morte arrivare e si sentiva molto stanco a sua volta, aveva anche molti problemi di salute, e si dedicava prevalentemente alla scrittura, alla revisione di testi suoi. Tuttavia continuava l’attività di studio, perché aveva dei vecchi pazienti che continuavano ancora a venire. Mi ricordo con estrema esattezza il momento in cui me ne parlò, mi suonò come una rivelazione – eravamo insieme per strada e lui disse: certe persone, le devi tenere per mano tutta la vita. Mi ricordo l’espressione del volto, perché c’erano cose nuove per me, ma soprattutto, un orgoglioso, responsabile, disincanto.
Fu come dire, un importante insight. Ero fresca di studi e piena del positivistico zelo dei neofiti. Sapevo di leggendarie analisi lunghissime – 20 anni! 30 anni! Ma le consideravo imbarazzanti duetti che perpetuano una relazione che non vuole ammettere di aver esaurito la sua funzione, oppure prove provate di dipendenze non risolte da analisti evidentemente inadeguati. O in qualche caso furbastri. Ma, nonostante i tirocini nelle cliniche psichiatriche mi avessero fatto aprire gli occhi su stati di difficoltà che sembravano non conoscere redenzione – in cuor mio condividevo il grido di battaglia: la dove c’era l’es ci sarà l’io!
Vuoi che se fermi a cincischiare?
Ora invece io avevo il mio Grande Vecchio, che non era un furbastro, che rispediva indietro i pazienti che lo cercavano, che forse avrebbe anche voluto non vedere quelli che continuavano ad avere bisogno di lui, tirare fuori quegli occhi suoi, dire questa cosa, e dirla con un particolare scintillio.
Lo scintillio nello sguardo, era dovuto alle polemiche anche comprensibili di cui la psicoanalisi è stata sempre oggetto – con attacchi di vario ordine e grado, in alcuni casi condotti da addetti ai lavori che avanzavano legittime perplessità su trattamenti molto intensi, molto costosi ed estremamente lunghi il cui esito appariva incerto – in altri da una cultura popolare che aveva ed ha, un’idea approssimativa quanto di cosa voglia dire psicoterapia, quanto di cosa siano gli aspetti che la rendano efficace, quanto di cosa voglia dire esattamente psicopatologia e cosa possa essere una eventuale cronicità del sintomo – anzi la possibile cronicità è proprio un concetto estromesso dal pensare collettivo. Inoltre l’avvento della farmacoterapia, con la scoperta di molecole sempre più capaci di procurare effetti immediati senza penosi effetti collaterali, aveva reso quegli attacchi più aspri, e tante consapevolezze che ora abbiamo sull’uso degli psicofarmaci erano meno condivise – per esempio sulla loro minore capacità di dare effetti duraturi anche dopo la fine di un trattamento. E dunque, nello sguardo di Luigi Aurigemma c’era la risposta a tutto questo. Parlate parlate, ma io non li posso lasciare per strada a questi. Io mi sono assunto una responsabilità.
Magari sulla psicoanalisi ortodossa – trattamento che prevede tre o quattro sedute a settimana – protratta nel tempo, io anche ho qualche perplessità – dopo tutto quando Freud applicava questo modello le terapie duravano qualche mese o poco più. Ma le terapie psicodinamiche – cioè quelle che mantengono un’ispirazione analitica negli strumenti utilizzati ma si incardinano su frequenze settimanali relativamente meno intense– hanno bisogno di questo tempo lungo per un effetto ottimale, e oggi possiamo godere anche di molte ricerche standardizzate che ne dimostrano gli effetti nel tempo, in itinere e anche molto tempo dopo la fine del trattamento. (C’è una corposa bibliografia oramai su questi argomenti, ma consiglio il recentissimo La psicoterapia psicodinamica basata sulla ricerca, Kachele, Levy, Ablon Raffaello Cortina).
Ma allora? Cosa dobbiamo pensare di percorsi terapeutici che sembrano non finire mai?
Intanto, stabilire la lunghezza ottimale per una terapia è un compito terribilmente arduo, se non impossibile. Si riesce meglio forse a pensare a un non meno di che un massimo a. Generalmente io tendo a pensare che un iter terapeutico sotto i quattro anni, tenda a lasciare sempre qualcosa fuori che potrebbe essere anche esiziale – molto importante, e che con una relativa frequenza potrebbe riproporre una certa sintomatologia identica come prima, dopo qualche anno dal primo trattamento, o relativamente mutata. Questo è anche spesso il problema delle farmacoterapie – che hanno il grande merito di azzittire un sintomo, ma siccome non toccano il meccanismo psichico che produce la necessità di dire qualcosa tramite quel sintomo – il quale è la parola di un linguaggio – una volta interrotto il farmaco potrebbe riproporsi oppure, riproporsi sotto altri vesti sintomatiche: la psiche di fatto, non ha smesso di lamentarsi. Questo fenomeno è facilmente osservabile per esempio nelle persone che hanno una personalità organizzata dalla dipendenza: magari smettono di assumere sostanze, e cominciano ad avere un disturbo alimentare, oppure a creare una forte dipendenza da gruppi o sistemi religiosi. O da uno stesso farmaco.
Quindi, psicoterapie di sette anni, otto anni, nove anni, magari sono lunghe, le possiamo considerare terapie lunghe, ma hanno una loro ragione di esistere – perché il lavoro può davvero avere bisogno di tempo.
Il che comunque non esclude che il paziente, ritenendo di aver tratto sufficiente beneficio dalla psicoterapia fino a un certo punto, non decida di interromperla in tempi più brevi. Come mi capita di dire ogni tanto in seduta – è lui che porta il suo corpo nella stanza e nessun altro.
Ma allora cosa pensare di cicli che invece superano questi margini estremi? Per una diade terapeutica lavorare a lungo implica anche trovare continuamente risorse simboliche, sapersi girare nello spazio, esplorare aspetti della vita interna che trascendano le proprie equazioni personali. Dopo tutto anche la relazione tra paziente e terapeuta e una relazione, e il paziente e il terapeuta sono una coppia, e quindi è quasi fisiologico che questa coppia insceni dei riti, delle modalità ricorrenti, dei percorsi che diventano noti, con il rischio che da noti diventino rassicuranti, e da rassicuranti a sterili. Per ogni relazione che si crea la somma delle caratteristiche di un certo analista (genere, talenti, carattere, storia sociale e familiare etc.) sarà un arsenale ricco, variamente ricco da cui la terapia può attingere proficuamente, ma siccome nessun analista è Dio, ossia quello che come diceva Galileo possiede una possibilità di conoscere che è infinita per qualità e quantità, è relativamente frequente che dopo un periodo anche piuttosto lungo, il terapeuta non riesca ad esplorare quelle aree psichiche dell’altro, o quelle modalità di funzionamento della relazione che la sua equazione personale non attiva. (Questo per esempio è un buon motivo per cui io apprezzo la scelta della formazione junghiana per cui i futuri terapeuti devono sottoporsi a due cicli di terapia con due analisti diverso, meglio se di sesso diverso.)
Allora può succedere questo: che un percorso terapeutico non abbia più niente di vitale da dare, niente di nuovo, che il mondo la fuori faccia paura al paziente o che il terapeuta per motivi suoi – che andrebbero esplorati e risolti – faccia fatica a far andare via il paziente, che facciano entrambi gli gnorri davanti ai segnali che la psiche manda, per esempio tramite dei sogni perché è arrivato il momento di chiudere. Non di rado può accadere qualcosa di sinistro per cui, per esempio, un certo sintomo magari è migliorato, lasciando spazio all’emergere di uno diverso – ugualmente attivo nel quotidiano ma relativamente meno pestilenziale nell’essere gestito – per esempio, una persona che da una vita sessualmente insoddisfacente passa a una relazione in cui però è molto maltrattata – e questo sintomo, rimanga abbarbicato alla terapia per certi suoi aspetti collusivi che lo garantiscono. E allora si va avanti stancamente.
Ma altre volte ancora, possono darsi situazioni di cronicità, correlate a un incrocio doloroso di biologico e psicodinamico, di genetico e di storia precoce, per cui una persona davvero – non può fare a meno di una terapia, di un contenitore psichico esterno perché non riesce mai ad attivarne uno interno, che funzioni del tutto che non collassi mai e non si rompa mai. Sono eventualità che possono capitare, e che hanno una loro ragione d’essere. Si dirà perché forse siamo ancora molto indietro nella ricerca sulla mente e sul cervello e questo può essere. Ho anche la sensazione che però a questa incompletezza dei risultati a questa impossibilità della vita funzionale per tutti, corrispondano delle cose che per noi sono fisiologicamente importanti, come il libro arbitrio, la nostra capacità di strutturare narrazioni. Ma queste ultime sono considerazioni filosofiche, che riguardano l’intreccio tra male, libertà, determinismo e sua assenza. Forse ne parleremo in un altro post.