Cocotte

 

Lei sta seduta al tavolo sospesa, in quei momenti di requie da se stessi, dalla propria casa, dal proprio corpo, dalla propria vita non riuscita. E’ distratta, svagata. Ha fame.Una donna giovane, che sulle prime, per via dei capelli lunghi e mossi, e il trucco pronunciato e il gilè che esalta come può un seno altrimenti modesto, ecco lei parrebbe una mignotta. La minigonna ecco, e i tacchi altissimi, e la borsetta.
Proprio non le mancherebbe niente. E invece.

(la borsetta piccola ha pure uno specchietto sull’apertura e le consente gesti di studiata civetteria, la borsetta delle signorine attraenti secondo sua madre e sua nonna e i ricchi di certe telenovelas sulle reti regionali – : mettere il rossetto guardandosi nello specchietto, ostentare le unghie mentre si cercano i soldi, pochi, e sparsi perché il portafoglio non ci entra, poi non si chiude.
Una collega una volta, una dell’area contabilità le ha detto senti, secondo me non è adatta all’ufficio questa tua borsa, e pure questa gonna senti, non so come dirti, magari forse vestita così potresti andare a ballare? Ma lei non le ha dato retta)

Davanti alla cassa del bar c’è una lunga fila, ma l’uomo è quasi arrivato e può pagare il panino farcito e la coca cola, e i due caffè. Ogni tanto si gira e la controlla. E’ un signore di una certa età, uno che di mestiere potrebbe essere archivista comunale o vecchio sarto ma pure per esempio orologiaio, ma è un impiegato dell’agenzia di vecchia data, persona con una sua saggezza e un suo buon senso, se non proprio da tutti amato certo da tutti rispettato. Forse da qualcuno irriso e scavalcato –è uno che ha pagato per la sua prudenza con l’etichetta della vigliaccheria. Ha una moglie vecchia come lui che sposò per una cosa che pensava fosse amore, e forse lo era forse no, ma non hanno avuto figli.
Magari è per questo che.

Prende il panino al bancone con lo scontrino – c’è scritto sul cartello: presentare lo scontrino – e la coca cola e glieli mette davanti, tieni mangia le dice. Gentile, come fa non proprio un padre con una bambina, e neanche un nonno, perché non c’è tutta quell’intimità e a essere precisi neanche tutto quel sentimento. Forse come farebbe invece ecco, uno zio con un nipote ce vede poco spesso e di cui non gli andava tanto di prendersi cura, ma per quanto scapolo e poco destro in fatto di bestiole non può fare a meno di sentire il piccolo rispetto al grande, quel che di inerme e solitario dei bambini. Il loro modo di tenere il pane in mano con tutte le dita perché l’hamburger e la salsa scappano da tutte le parti.
Dai lascia perdere lo specchietto ora della borsa dai, controlli dopo. Ora mangia, che si fredda.
Lei annuisce, prende il tovagliolo e lo appoggia sulle gambe, inespressiva.

(Una volta, lei era entrata nell’ufficio di lui, l’azienda stava chiudendo e tutti se ne erano andati, e aveva provato, quella volta con le calze a rete e gli stivali, nel suo modo infantile e maldestro, goffo ecco, aveva provato a dirgli qualcosa, a prendergli un braccio, a piantargli gli occhi da qualche parte. Un uomo buono nel cui ventre potersi acciambellare, uno che non le avrebbe fatto niente di brutto. Lui però aveva subito letto quel tentativo come il gesto incosciente di una ragazzina, la prova sgraziata di una seduttività eternamente inesperta. Si disse che non voleva abusare della sua incoscienza ma realmente si sentì respinto dal disarmante bisogno e da una inequivocabile rozzezza. Si arrampicò sul ruolo di padre per non ferirla, e da li non si mosse più).

So che sarai sempre lo stesso in qualsiasi altrove

 

(Quando era un bambino con i boccoli neri e gli occhi di acqua, portava i calzoni corti, e già teneva nello sguardo tutta la sua personalità a venire, le battute che avrebbe fatto, l’amore per il paradosso e la dissacrazione. Il meno ebreo dei tre fratelli, il più russo di tutta una stirpe di siciliani, introversi e caparbi. Mia nonna avrebbe amato questo fratello dalle seriose distanze dell’etica, dell’impegno, della politica. Mia nonna fatta di vodka sigari e poche smancerie, non avrebbe mai capito questo fratello bizantino  ed estetico. Pure – sapeva che era irripetibile.
Quando era un bambino con i boccoli neri e gli occhi di acqua, erano gli anni 30, e mio zio provò a dire alla famiglia che aveva inventato la valigia con le rotelle e che secondo lui bisognava venderle queste valige con le rotelle che tutti le avrebbero comprate.
Risero di lui con tenerezza – e forse è andata bene così.

Quando era un ragazzo con la criniera fulva e lo sguardo da letto e da riviera, in una casa piena di Palermo e di mare, due giovani donne se ne contendevano la mano, il corpo e potendo persino la vita. Una piccola normanna gli si attorcigliò al ventre – pure – lo vinse l’altra più lunare e malinconica.
In una foto che conservo luminosa e piena di anni 50 tutti ancora da abbattere, lei sembra rimpicciolire la sua intelligenza sotto le ali del narcisismo di lui– foglie di ulivo stanno tra i loro capelli e si indovina quanto lui si sarebbe lasciato amare.
Avrebbero fatto due figli, e anziché le valige con le rotelle, una bella casa editrice. 

Quando era un uomo con la pancia di chi ha vinto e la follia di chi si tiene sveglio, capitava a Roma per delle giornate esoteriche e segrete, incontri con scrittori, mostre di fotografia, una storia d’amore con una cantante. Si faceva amare dalle donne quasi quanto riusciva a farsi amare da se stesso – e arrivava a casa, intenzionato a sedurci. Portava regali bellissimi. Valige piene di marzapane, scatoloni pieni di polizieschi, libri che raccontavano una Sicilia magica e profana. E ancora, disegni di pornografie popolari e settecentesche, scatole di limoni che un tempo andavano fino alle americhe, foto di un mondo perduto e reinventato: mercati del pesce sventrato, melograni fioriti di semi. Oppure – vecchi per mano di un asino, sull’orlo del porto.
La mattina molto presto compariva in pigiama nelle nostre stanze, e si disponeva amabilmente a chiacchierare – mia madre di lui diceva che era buffo, io gli leggevo una personale condanna all’angoscia, da evadere con la bizzarria.

Poi gli sono venute le occhiaie, i capelli sono diventati grigi, il ventre sfacciato, e gli occhi hanno preso una venatura di fatica, l’intelligenza di capire la faccenda del tempo, i figli che crescono e diventano padri, il mondo che aveva creato forte di una vita propria e da lui indipendente. Il suo nome era ora l’eleganza di un marchio – le sue donne delle gatte materne che gli allisciavano il pelo con la lingua. Era bello sentirlo parlare. una surreale competenza sul materiale, la visionarietà onirica, l’umorismo tagliente. Tuttavia, ogni tanto strizzava gli occhi, in un modo buffo e cabarettesco – a sottolineare l’incomprensibilità delle cose, la direzione illogica che prendevano, il fatto che erano da disprezzare per questa loro anarchia, e allo stesso tempo – da amare..

Era cioè, quel tipo di persona per lo più insopportabile, ma con il difetto di essere quanto meno troppo rara.).

Genti cardose

Antefatto.
Un bimbetto di otto anni conia in uno scritto per la scuola il termine petaloso, atto a indicare la caratteristica di un fiore pieno di petali, e forse chi sa in un futuro, si potrebbe immaginare la caratteristica di un oggetto pieno di roba che sembrano petali con tutte le caratteristiche del caso, tipo una gonna petalosa, e anche una signora petalosa chi sa. La maestra ad ogni modo, invia missiva alla Accademia della Crusca dove fa presente la vicenda del bimbo, e l’Accademia della Crusca risponde dicendo, con linguaggio chiaro e atto a un bimbo di otto anni, che inventare le parole è una cosa ganza anzichenò, e che però non è che basta inventarsi sbiricudantani con la supercazzola perchè diventi lessico, bisogna che lo si dica proprio in tanti.
E’ una bella trovata didattica: mette insieme nuovissime generazioni e vecchie icone culturali, facendo in modo che i nuovissimi tocchino gli antichissimi e mettano radici, e che gli antichissimi perdano un po’ di antichissima polvere. Si spiega in modo chiaro la dinamica della lingua italiana e non, e tutto nel complesso fa anche un po’ di tenerezza.
Le parole dei piccoli, parole piccole che indicano cose piccole, in mezzo alle parole dei grandi.
La maestra, che è una maestra vanesia come vanesi siamo un po’ tutti, e forse con quella marcia in più che ha la vanità in certe aree della geografia e della professione  vissute come periferiche, posta su Facebook le foto di tutta la questione.
Petaloso rulez!

Subito petalosissime reazioni.
Ossia reazioni direi, di una dolcezza femminile, materna, ostentata, decorativa e anche intenerita, reazioni che io nell’intimo ho condiviso. Il bimbo che scrive ai babbioni parrucconi e i parrucconi che rispondono, il Sapere che tocca l’abbecedario… un nonno, diamine datemi subito un nonno e siamo apposto!  O che bellino o che carino o che puccino, o che brava maestra che spiega ai piccini queste cose importanti su come si formano le parole!
Dopo le prime reazioni petalose sono arrivate però le reazioni che uno dice, critiche? tiepide? Io non direi, io le chiamerei reazioni orticose ?ma cazzo questo già l’hanno inventato! Allora cardose.
Ci avete presente il cardo che ci ha tutti spunzoni uno lo coglie pe fa le cose fiche e invece?

Nell’ordine.
1. se la mia maestra mi beccava a scrivere petaloso cinghiate
2. bambino che scrive cose insulse tutti a occuparvi di lui, maremma tegama come tutti per lui che ha fatto di così fico ha scritto petaloso mica  la critica della ragion pura eh.
3. maestra vanitosa pavonaccia schifosa
4. cruschi, ma non avete proprio niente di meglio da fare che rovinare la nostra magnifica lingua e passare i termini che non ci sono (ma non hai letto un cazzo mica l’ha passato. Ah si però lo stesso)
5.  Internettiani insulsi pavonacci schifosi che vi occupate e vi sdilinquite per questo petaloso der cà poi ve passa sotto Proust (io) e non lo cagate
6. petaloso assoreta
7. pppprrrrrr

Genti internettiane cioè che su Facebook, su twitter, a casa e non, da una prima modesta battuta, dovendo fronteggiare il fenomeno iniziale del semplice dilagare di una tenerezza facile quanto effimera, che meritava il tempo di un giusto sorriso e non di più, si spreme le meningi per uno –  due –  tre –  cinque commenti anche di notevole articolazione e spessore che nella scelta del lessico, di aggettivi, di ordine lessicale e retoriche complessive, dimostra un investimento emotivo su un episodio di folclore e pedagogia che lascia basiti. Come se una mandria di mogli tradite leggesse sulla pagina di facebook la storia di un traditore che viene dipinto come un eroe.
Bambino: devi essere piccolo, invisibile, impotente, marginale, inutile.
Maestra: devi stare al tuo posto, a parlare con le mamme e le bidelle, nella periferia dei lavori un po’ così delle donne di questo paese sessista.
Cosa vi volete proprio mettere a fare voi vorremmo sapere, inventar parole, diventar famosi, essere coccolati e citati, scomodare la Crusca
E Crusca: uffa, ma che davero ci hai un potere te, una dignità, una voce in capitolo ma che cazzo ci frega a noi.

Nel teatrale sarcasmo con cui è stata accolta una vicenda piccola, gentile quanto banale, una piccola storia di pedagogia, c’è il sapore di una disperata impotenza condivisa, il revanchismo da tavolino di chi non sa tenere tanto un piacere per se, goderselo, sfidarselo, di chi non solo non ha bambini interni sufficientemente protetti, ma manco l’ardire di una maestra vanesia, che avrà pure il difetto di essere pavona, ma per essere pavoni bisogna pure avere una bella coda, per quanto piccola.
E saperlo.

 

 

 

 

 

 

 

 

 

Genitori molto vecchi

 

Allora.

Sei uscito qualche ora prima del lavoro, e quindi riesci a fare a tempo a passare in quel negozio del centro per comprare il caricabatterie del cellulare, che non funziona più. Per caso, vedi tuo padre dall’altro lato della strada – stai per chiamarlo e invece ti fermi. Lui non ti ha visto, e tu lo osservi, sorpreso di te stesso.
Noti che non ti sembra tanto alto, noti anche che cammina piano e con fatica. Ora squilla il suo telefono e ne cogli il modo affannato di cercarlo nelle tasche.
Ti accorgi allora che tuo padre è invecchiato. Ti rendi conto improvvisamente che è davvero tanto che non puoi più dire “è andato ora in pensione”, e hai come una fulminazione, un battesimo. Per la prima volta osservi uno spazio vuoto tra te e lui, uno spazio dove quelle vecchie relazioni che c’erano e quasi vi inchiodavano a delle età eterne – tu approdato a una sorta di adultità ancora giovane e lui invece l’adulto perenne – hanno cambiato foggia. Ti potrebbe capitare di arrabbiarti, facilmente di intristirti. Spessissimo di preoccuparti. E’ la prima volta che ti trovi a temere che possa inciampare.
Ce ne saranno altre da ora in poi, e da questo pomeriggio nella vita comincia una stagione complicata.

Che è la stagione in cui, al di la di come sono stati durante l’infanzia e dopo, i genitori invecchiano e si avvicinano alla fine, ed è una stagione che può durare a lungo, considerando i progressi che ha fatto la medicina. Ci sono farmaci che sostengono, e se non ci sono farmaci ci sono interventi chirurgici, e se non interventi chirurgici anche macchinari. Si lavora perché il corpo duri e il corpo può durare molto a lungo, attraversando molte gioie sottili, diverse piccole soddisfazioni, ma tante difficoltà e tanti dispiaceri – per non tacer della prova finale.

Nel frattempo, le vite dei figli sono cambiate, e questi figli hanno fatto figli tardi. Sopra i trent’anni per dire, spesso anche quaranta. Si sentono tra Scilla dei figli piccoli o adolescenti e la Cariddi dei genitori anziani. E nel frattempo quei genitori invecchiati sono come degli adolescenti al contrario: nella complicata negoziazione della perdita di forze e dunque di autonomia. Una situazione che rende l’approccio necessario e qualche volta ineludibile, sempre comunque molto delicato.

Ci sono in effetti moltissime variabili che rendono l’occasione delicata, e in qualche caso veramente dolorosa: certe madri e certi padri sono stati per esempio madri e padri molto inadeguati, sono stati per dirla semplicemente, dei cattivi genitori. Accudire dei cattivi genitori mette spesso in situazioni di grande sofferenza psicologica, non tanto nel caso in cui un figlio riesca persino a mantenere una comprensibile per quanto apparentemente disumana indipendenza e distanza, quanto perché novanta su cento, questi genitori inadeguati misero al mondo bambini e poi adulti che fanno ancora fatica a essere emotivamente indipendenti, e che si ritrovano ora, a rivedere attivati i propri desideri di riconoscimento quando il genitore è anziano o malato – andando in contro spesso a brutte e reiterate delusioni: guarda quante cose sto facendo per te! – perché i genitori non sono guariti da quella loro miopia, o freddezza, o inadeguatezza, perché non hanno imparato nel frattempo una comunicazione emotiva più adeguata o addirittura perché la tarda età ha slatentizzato malevolenze e ostilità prima almeno impacciatamente dissimulate. In quel caso la consapevolezza dell’infanzia tradita si fa più cocente, e si entra in una spirale cattiva di aspettative tradite.
Altri figli invece, attuano comportamenti di cura fortemente ambivalenti per cui insieme all’ossessione per l’attenzione si può respirare l’aria di una impalpabile – quanto spesso non riconosciuta – vendetta: figli che per esempio tolgono aria o qualsiasi forma di autonomia, o che sommergono i genitori di quantità sinistre di farmaci fino a cibi, diete sbagliate – o prescrizioni in cui non si discrimina bene dove sta la preoccupazione e dove l’acrimonia. Accudire una persona anziana è per tanti aspetti, come accudire un bambino – quale occasione migliore per presentare un conto.
(Anche se bisogna dire, il compito sarà vano, e la percezione come sempre accade quando si è posseduti dalla vendetta, è che il conto si rinnovi perennemente).

In ogni caso ci sono anche quegli altri, i figli di genitori sufficientemente buoni, genitori che hanno fatto quel po’ di sciocchezze che fa ognuno nella sua vita, e che per quanto abbiano un compito più facile, affrontano comunque una serie di battaglie, a cui per altro non sono culturalmente sostenuti: attualmente in occidente, la cura è un concetto aut, come si hanno due lire si cerca – vuoi per i neonati vuoi per gli anziani – l’intermediazione di terzi che provengano magari da culture in cui esista ancora l’ethos dell’accudimento. I nostri maschi stentano a imparare, le nostre femmine sono stufe di pagare per tutti, e non rimangono che le badanti come cuscinetto di separazione tra il proprio corpo e quello dell’altro, tra la propria morte e la sua, che si guarda con angoscia e qualche volta pura negazione.

Il paesaggio naturale è infatti comunque ugualmente spaventoso. I genitori cadranno e alla mente capita il pensiero che dopo toccherà a noi. Nel loro affrontare la fine si comincia a fare i conti con la propria di fine, e non se ne avrebbe affatto voglia. Capita di cadere in reazioni allora comprensibili ma non proprio ottimali, per esempio sull’onda della negazione: bisogna farlo camminare! Bisogna fargli fare la fisioterapia! Bisogna cambiargli terapia!

Non tollerando l’antipatica questione del corpo esausto.

Ma c’è anche l’altra di reazione: quelli che invece ugualmente non tollerando la medesima cosa, quasi cercano di affrettare la fine, negando cure, negando interventi, e provando rabbie furiose verso la tenacia della vita – la quale come disse un mio amico che ebbe ad assistere alla fine di sua madre vince sempre: fa di noi quello che vuole, ci vive ci sopravvive e ci trasforma in qualcosa d’altro. – Questi, non necessariamente con cattiveria, anzi più spesso con autentico affetto, reificano chi ancora cosa non è.  L’ambiguità del declino risulta estenuante e destabilizzante.
In entrambi i casi, del genitore anziano è negata l’esperienza soggettiva, il diritto a una costellazione di ultimi giorni con le sue piacevolezze. Tanto fa paura quell’aggettivo ultimo da oscurare completamente la rilevanza delle piccole qualità. Vedere dei nipoti per poco. Mangiare qualcosa con un buon sapore, per favore mi mettete in soggiorno che c’è quella bella luce.

E’ difficile e non ho poi tutti questi bei consigli da dare. Se si nota che il periodo porta davvero alla luce grandi sofferenze e sentimenti persecutori di inefficacia, di dispiacere, di rabbia, di vergogna per paura di certe ombre che salgono dall’inconscio, potrebbe semplicemente essere arrivato il momento per affrontare una terapia, perché certamente – dopo la genitorialità, la malattia dei genitori è un altro importante pettine psichico, dove si fermano i nodi irrisolti. Ho la sensazione però ecco, che anche di fronte ai vecchi più cattivi del mondo latitare per quanto comprensibile sia in un certo senso pericoloso – perché da alla psiche la prova definitiva che niente sia curabile, arginabile, e che di quella inadeguatezza emotiva si sceglie di reindossare le vesti. E’ un po’ come quando si fanno i figli: essere migliori dei genitori che si ha avuto può fare un po’ bene. Non tantissimo, il passato non si cancella. Ma è se stessi che si cura in quel modo.

Aiuta anche cercare di capire nei limiti del possibile il perché di certe reazioni emotivamente molto forti, e come dire riappropriarsene il più possibile, perché magari sono in parte correlate alla questione materiale – che spesso è davvero pesante da un punto di vista logistico ed economico – ma magari hanno altre cause, nel nostro rapporto col dolore fisico, con la morte, con l’handicap e con l’esperienza del corpo e nella nostra area di incertezza che va curata quella rabbia. Così come credo sia importante tenere sotto controllo e riappropriarsi di certi contenuti proiettivi che si ficcano sulla cura verso i genitori e che riguardano i propri rapporti non solo tra loro ma anche tra fratelli. Siccome il genitore anziano fa ricapitolare la qualità della relazione di una vita, quando ci sono più figli nel calderone delle esperienze difficili da gestire ci saranno sicuramente anche i rapporti con i fratelli, i problemi che si osservano avere i fratelli con i genitori condivisi le eventuali latitanze e rivalità che possono essere anche terribili. Non è facile, e qualche volta possono scappare fuori litigate anche violente, che possono trascinarsi dietro giudizi pericolosi sulla vita privata – ma il tema è delicato e vale la pena fermarsi e mettersi cinque minuti nei panni dell’altro.
A volte critichiamo velocemente – ma se ci fermassimo cinque minuti a pensare la vita degli altri come se per esempio fosse un romanzo, ci accorgeremmo che certi epiloghi come certi momenti nevralgici della trama, non potevano andare diversamente, ci accorgeremmo che quelle ansie e quei contrasti e quelle tigne hanno qualcosa di ineluttabile. Saperlo ci fa convivere meglio. .

Ma credo che infine, sia sempre meglio per il discorso che dicevamo sopra – fare una telefonata in più e una visita in più che una in meno, Non tanto e non solo perché un giorno non ci saranno più. Ma perchè quel vecchio siamo noi se dovessimo avere la fortuna di diventare vecchi, e insomma è bene fare agli altri quello che poi possiamo sperare di dover ricevere.

 

 

 

Dove non si costruiscono sognatori.

 

E’ ancora recente la polemica suscitata dalla scelta di un ristoratore romano di interdire i bambini piccoli dal suo locale. L’argomentazione è che i bambini sono maleducati e siccome ci sono molti altri ristoranti dove la gente può andare con i bambini, lui si può permettere di restringere l’ingresso.

A scanso equivoci, per me il ristoratore romano merita una denuncia. Per quanto mi concerne mi posso adoperare per promuovere un’azione di boicottaggio: non perché non trovi i bambini maleducati, ma per una doppia questione: la prima relativamente meno importante riguarda l’evoluzione dei costumi: vi piaceva quando i bambini erano a casa con le mamme, quando i padri se ne stavano a fare vita sociale  fuori o dentro casa, mentre qualche femmina stava nelle retrovie con i preziosi eredi. Ora però le signore hanno diritto a una vita sociale, i figli sono di tutt’e due e vanno a fare casino per strada. Molte donne o non escono di casa, o si portano i ragazzini, oppure il gentile ristoratore dovrebbe pagare una baby sitter.
Il secondo motivo è di ordine etico e mi chiedo se eventualmente anche giuridico – ed è per me più importante. I ragazzini maleducati sono cittadini titolari di diritto come gli altri. Il cartello sotto il profilo etico e politico ha emuli equivalenti solo in quelli in auge durante il periodo delle leggi razziali. Dire che i bambini non possono entrare è una discriminazione per età comparabile a quelle per razza o religione.

Mi premeva esprimere il mio franco disappunto sulla scelta del ristoratore, perché mi trovo a essere d’accordo con lui sul fatto che oggi, molti bambini sono maleducati. Non sono contenuti. Questo, non tanto nei primi due anni tre anni di vita in cui – semplicemente i bambini difficilmente possono avere anche il corredo neurobiologico per rimanere composti su una sedia ed essere silenziosi, fino a un anno e spicci devono imparare a muoversi e a parlare, dopo devono diventare disinvolti e capire che ci sono le regole, e quindi solo da un certo punto in poi sarà possibile per loro il contenimento motorio, e l’interiorizzazione delle regole. Ma è vero che molti bambini di 4 o 5 o 6 anni non sono affatto contenuti e contenibili. Sembrano non avere delle regole introiettate. E mi chiedo con che cosa abbia a che fare questa cosa.

La mia sensazione è che in Italia, i bambini siano infantilizzati, disincentivati alla crescita perché ci troviamo in una situazione di scacco della funzione genitoriale: fuori da un modello vecchio – non riusciamo ad agguantare un modello nuovo, e ci concentriamo sulla cura del piccolo piuttosto che sulla formazione del grande, portando avanti un sistema di accudimento che tende a confondere infanzia con infantilismo e che si concentra più sul soddisfacimento acritico dei bisogni che sulla strutturazione delle risorse che serviranno ad avere uomini e donne forti, leali verso i propri desideri. Questo pensiero – il bisogno di lealtà al proprio sogno di vita ecco, non è mai incluso nel paesaggio del moderno accudimento. Il moderno accudimento sembra basarsi sempre sul soddisfacimento della richiesta immediata. Quasi in maniera acritica.
Per esempio. Vai nelle scuole materne, e ti vedi bambini che arrivano in passeggino, o in braccio ai genitori – troppo grandi per le braccia e il mal di schiena, e fuori misura per qualsiasi trabiccolo. Stanno stretti nelle spalle con i piedi che potrebbero strusciare per terra. Sono bambini disincentivati a camminare, disincentivati a reggere il passo veloce di adulti che devono andare al lavoro. Non potendo sopportare né di avere pazienza né di dire con piglio, eddaje forzumpò, i genitori risolvono spesso infantilizzando un infante che dovrebbe diventare un bambino. E vabbè rimani piccolo fino alla porta della classe.

 

Le capacità di gestirsi del bambino sono non di rado sottostimate. Rispetto alla nostra infanzia, per tacere su quella dei nostri genitori, aumenta moltissimo l’abitudine routinaria di giocare con i bambini, di intervenire nei loro contrasti, e quando sono a scuola di aiutarli sistematicamente a fare i compiti – al punto tale che maestre prima e professoresse delle medie dopo, chiederanno di defoult a tutti i genitori che i bambini siano seguiti. Come ebbe a dire in una formula particolarmente sintetica lo psichiatra Marco Tarantino: in questo modo di oggi gestire la crescita dei figli c’è poco superio e molto ideale dell’io – ci si mette insieme ai figli a fare con loro le cose che dovrebbero fare loro, in modo da soddisfare una serie di fantasie e aspettative e non si riesce a esprimere una sanzione come si deve. E’ tutto un desiderio sulla prestazione, ma c’è poca capacità di contenere, in modo che i bambini ottimizzino un contenitore interno che li aiuti ad amministrarsi quando sono soli. Questa cosa dicevo è pervasiva e arriva a inquinare anche i contesti di gioco: ricordo ancora qualche tempo fa quando mi trovai a discutere con una madre, di bimbo di 5 anni, che con altre madri amministrava il sacro rito dello scambio delle figurine al posto del figlio. Diceva, perché non sa leggere i numeri! Ma io ho trovato che quella madre, in perfetta buona fede compisse una rapina. La rapina di un apprendistato che è del mondo dei bambini.

Ma anche fuori. Spesso gli insegnanti si aspettano che gli alunni facciano i compiti con l’ausilio dei genitori, ma di contro si trovano a dover fronteggiare i medesimi genitori inferociti ogni volta che il loro pupillo è stato oggetto di una sanzione, di un voto basso, di un rimprovero, di una nota. Se il figlio è stato criticato, due volte su tre il genitore scatta come una molla e corre a difenderlo, attaccando l’insegnante. Non arriva neanche lontanamente la fantasia di un patto generazionale di responsabilità che tramite la prescrizione di ciò che bisogna fare e ciò che non bisogna fare aiuti sti poveri figli a uscire dal guscio. L’ipotesi di parlare con il figlio di un problema con i docenti – per lasciargli l’onere e l’onore di trovare delle strategie per risolvere un problema – di rendimento, di comportamento, di relazione – raramente è presa in considerazione. Con questa amorevole solerzia, li si condanna a un guscio eterno e a una carriera di battaglie neanche tentate, così forte si fa con il tempo la consapevolezza delle unghie mosce.

E così crescono legioni di bambini variamente maleducati, di una maleducazione che non è quella anarchica, riottosa, polemica, libertaria, hegeliana. Ma di una maleducazione parrocchiale, mammista, mammonista, che farà fatica a sfidare cose vecchie per inventarne di nuove. Una maleducazione che depotenzia le istituzioni, non ne avverte l’importanza, e quindi un domani non saprà né abbatterle né rispettarle ma saprà solo prodursi in una sorta di frignare lamentevole, che è un po’ il rumore che si avverte da diverso tempo a questa parte quando si ascolta l’opinione pubblica. Oggi a quindici anni non stanno a tavola  perché non gli hai comprato la qualsiasi, domani sarà interessante vedere se saranno in grado se non di prendere 30 almeno di organizzare uno sciopero o un’occupazione.
Lo scetticismo non è casuale, perché in fondo questo stile pedagogico nasce proprio per eludere l’asprezza del conflitto. Si fanno pochi bambini, troppo pochi, li si fanno senza il minimo contributo pubblico, li si fanno perdendo il lavoro e non ritrovandolo, li si investono dunque di una urgenza relazionale e vitale che li rende potentissimi e ricattatori per cui, vederne gli occhi delusi, arrabbiati, che protestano sembra diventare psicologicamente intollerabile – molto di più di quanto lo era quando di figli in casa ce ne erano almeno quattro. Si collude con tutti i ricatti immediati quanto individuali e quanto collettivi trasformando l’infanzia in un rituale della famiglia nucleare che non ha precedenti storici. Bambini che fanno dei corsi di lingue o di musica o di chi sa che, a 2 anni. Madri che si lamentano che all’asilo le maestre “non seguono il programma ministeriale” (?) feste di compleanno che diventano gare di kermesse di status. Coinvolgimenti in chattate chilometriche sulle tendine della classe. File di macchine alle feste dei pargoli.  Si crescono piccoli che diventano inadeguati per gli adulti, credendo in affetto e buona fede che davvero questa sia la cosa più empatica da fare.

 

Poi alla fine ci si scontra coi ristoratori romani che mettono cartelli – e che sono nemici solo in parte, in realtà sono alleati ideologici di una generazione di adulti che fanno fatica a assumersi l’antipatico ruolo di chi ha un testimone da passare. Ruolo che passa per il contrasto, per la tolleranza a un apprendistato difficile, per la sopportazione di tutto quello che comporta davvero, saper far diventare grande chi grande non è.

Se ne è andato Nicolao Merker

Mancavano poche settimane alle discussione della mia tesi di laurea in filosofia, due forse tre, e dalla segreteria mi chiamarono per dirmi che mancava uno statino, ossia un certificato di un esame sostenuto, e bisognava ritrovarlo se no non mi sarei potuta laureare. Ma io ero convinta di averli lasciati tutti gli Statini, ma certo, contati e ricontati, consegnati alla segreteria e litigai moltissimo con le segretarie, questa burocrazia lenta e disordinata, questi uffici che odoravano di provincia dell’impero. Segretarie svogliate segretarie pigre segretarie disordinate che ci mettete nei pasticci. E le segretarie mi risposero a tono e mi dissero che dovevo risolvermi il problema.

Allora chiamai il professore, la supplico professore queste segretarie del cavolo, si sono perse il mio statino professore cazzarola! Scusi se la disturbo davvero! Si ricorda la seconda annualità del suo esame? Eh si ricorda? Era due anni fa prof!
Signorina Jesurum ritorni fra una settimana che adesso controllo un po’ tutto.

Signorina Jesurum! Ho risolto. Vediamoci alla Sapienza alle 11’00. E andiamo insieme in segreteria a parlare con le segretarie.
E io mi sentii orgogliosissima, e andai all’appuntamento. Era anziano, già vicino alla pensione, ma veramente ancora bellissimo, e spesso tra studentesse avevamo riso in modo un po’ politicamente scorretto su questa elegante bellezza, gli occhi blu di un blu speciale, la pelle abbronzata e la sahariana, il corpo sottile e il naso importante. Parlava sempre pianissimo – non potevi non appuntarti tutto quello che diceva con estrema chiarezza e imparare tutto e capire tutto perché lui parlava lentissimo e scanditamente e tu imparavi per forza ogni cosa – e noi pensavamo oddio bello si, ma te lo immagini a letto o a cena che palle! Due ore! 
E ora era vicino a me, bello e prestigioso, con la borsa piena zeppa di cosa sofisticate da sapere, e mi diceva un po’ più lesto.
Sa signorina, ho guardato per bene tutto quanto, i vecchi esami, i registri. E mi sono ricordato di lei! Fece davvero un bell’esame! 30 si! Ha ragione, solo che non ritirò lo statino, disse, guardi, torno la settimana prossima – non poteva ritirarlo per non so quale motivo, ah no ecco! non aveva il documento! e non è tornata signorina eh.Sparita
Cazzo.

Cazzo.
Signorina adesso dobbiamo andare in segreteria per portare lo Statino che ho io e che lei ha abbandonato. Lei ha trattato male le segretarie mi sa. Vero?
Ehm

E andammo in segreteria, e il profesor Merker chiese molto scusa, da parte mia e sua, alle segretarie. Disse che sapeva che lavoravano tanto, che sapeva che tutto era sulle loro spalle. Ma non fu affatto teatrale, e capii che c’erano state altre occasioni sindacali forse, professionali, chi sa, in cui il professor Merker aveva difeso le segretarie dal basso e dall’alto. Mi sentii sprofondare. 
E mi dispiace tantissimo non averlo ringraziato abbastanza, di quella lezione, di cosa voglia dire esattamente Marx e sinistra, e non essere tornata a salutarlo.

A che Stadio siamo?

 

 

 

Mi chiedono di scrivere un commento sulla canzone degli Stadio, Un giorno mi dirai che ha vinto al Festival. Una canzone orecchiabile, gradevole – a mio giudizio senza infamia e senza lode musicalmente parlando, ma che probabilmente ha il merito di dare una bella ventata di retorica acrimoniosa e babbiona, nel contesto di un festival che ha avuto il merito, va detto, di essere stato progressista e delicato senza cedere a dichiarazioni arrabbiate e scene di predica apocalittica. I cantanti cantavano le loro canzoni, di periferia o d’amore, di lasciamenti o di borse di signore, con un nastro arcobaleno attaccato al braccio o al microfono a dimostrare il loro appoggio alla legge Cirinnà. E’ stata una cosa che ho apprezzato molto, nella sua delicata fermezza.
Gli Stadio il nastro non l’hanno messo, per quanto dopo – mi chiedo quanto per ragioni di opportunismo commerciale – abbiano dichiarato di essere favorevoli alle unioni civili.

In ogni caso, il loro testo seduce per una gentile e romantica misoginia. In essa un dolce papà, di spirito libero e pedagogia avanguardista, dice alla figlia che sostanzialmente gli ha rovinato la vita, che è tutta colpa sua se nonostante la legge sul divorzio e il sapido esempio di tanti attori famosi che si fanno i cazzi loro non ha lasciato sua mamma. Glielo dice a lei presumibilmente bimbetta o adolescente – giacché quella risponde ridendo, datele tempo poraccia – protetto dalla licenza poetica canzonettistica che lo mette al riparo dal costo di una terapia alla pargola, che sul piano di realtà sarebbe invece garantita.

La canzone prosegue poi, con il pensiero alla vita adulta della figliola la quale – come forse era prevedibile con un babbo del genere, va incontro a cocenti delusioni d’amore perché l’amato l’ha abbandonata. Gli uomini sbagliano! Dice il babbo per consolarla, ma dall’economia della canzone parrebbe che le femmine sono condannate per costituzione a fare una vita terribile. In cui o ci si tiene un marito che si sente obbligato, o si perde un amante perché è diventato il marito de n’antra.

Mica è cosa nuova eh, è la gloriosa tradizione culturale del maschio latino nella versione tristona, che aveva già spopolato con indimenticato successo quando Marco Ferradini –Teorema! – teorizzava le sue leggi della matematica amatoria: se alla donna le dici che l’ami ti da un calcio, se la piji a calci è tutta un sollucchero. Torme di adolescenti si erano confortate davanti a queste perle di saggezza, che fornivano una giustificazione meravigliosa ai loro insuccessi – poi fortunatamente se ne liberavano, si mettevano a canticchiar altro sotto la doccia, e avevano una vita sessuale più soddisfacente.
A meno che non incappavano in Marco Masini, e allora gnente.
Da capo a dodici.

Naturalmente la canzone colpisce perché – è sicuramente certo che nella testa di un genitore con un matrimonio infelice questo tipo di pensiero capiti spesso. E una piccola parziale verità, un segmento di narrazione lo merita anche: capita quasi sempre nella famiglia di lungo corso, al padre alla madre, la chimera di un sentiero alternativo che non si percorre guardando i figli piccini, o il partner che apparentemente o abilmente ignaro fa qualcosa in casa. Tuttavia è proprio vero che, non ti dico dopo quel demonio del femminismo ma, come diceva Hillman, dopo cento anni di psicoterapia il mondo va sempre peggio. Va cioè sempre avanti senza assumere mai le consapevolezze che dalle stanze della clinica, dai testi di divulgazione tracimano nella cultura popolare, nei film nei libri. Non dovremmo aver imparato per esempio che quando una coppia rimane a lungo insieme nonostante i dispiaceri e l’assenza d’amore ai figli si fa fare una vita peggiore che essendosi invece separati? Non dovremmo aver capito da lunga pezza che, se invece si rimane insieme ci sono dei collanti segreti che tengono uniti, che no non sono i figli, che meno spesso di quanto crediamo sono i soldi, e invece ci sono altre religioni nascoste? Se proprio un uomo rimane con una donna che non ama più, ma su cui mette addosso parti di se da cui non vuole liberarsi, se proprio deve rimanere suo malgrado in un sentiero sassoso, visto che ci porta dietro la progenie, piuttosto che sentirsi l’eroe di una canzone che pretende implicita riconoscenza dalla figlia incosciente, ma davvero ma non era meglio chiederle scusa?
Magari dopo, si potrebbe anche trovare un fidanzato che non la lascia.

Bosso

 

Dunque San Remo. Un festival con coreografie dimesse, con una conduzione ordinaria, con canzoni al di sotto della media, che rinuncia più del solito a buona parte di intenzioni pedagogiche, e che si contiene quanto può nelle slabbrature della scorrettezza politica. Opaco, noioso, Garko di qua e la comica di la, e questo Conti che ha l’unico merito di una professionalità rodata: entrare in tempo, saper presentare con ritmo, ma che naturalmente come direttore artistico, non poteva fare un festival migliore della televisione che fa quotidianamente. Non c’è paragone con certe edizioni ben più godibili, musicalmente e non – come quelle di Baudo, di Bonolis, per tacer di quella memorabile di Fiorello, gli mancano numeri etici ed estetici.

Tuttavia Conti, ha chiara neanche troppo a spanne, la semantica di fondo del festival, il quale grosso modo è anche il luogo dove possiamo fare i conti con i vertici mediamente raggiunti dall’etica pubblica, di cosa si impara a digerire, di cosa bisogna avviare. Ogni anno abbiamo la fiera del buonismo festivaliero che si condisce al cattivismo festivaliero, Alda Merini versus il veterano di Playboy, la raccolta fondi per i i bimbi, i profughi, le malattie, versus la scenetta satirica razzista, i sermoni patriottici versus i vaneggiamenti apocalittici, una volta Benigni una volta Celentano, e insieme a tutto le terrificanti interviste a certi vip calati da Saturno, Nicole Kidman chiedeva l’ineffabile Conti – chi sono per lei gli Eroi?
E quella a sto giro è persino riuscita a infilare una risposta sensata sugli eroi della ricerca scientifica.

In questo bollettino del sistema digestivo collettivo, l’esibizione di Ezio Bosso, è stata più efficace di una sessione di Roschrach. In piena sintonia con la tradizione culturale sanremesca, si tira fuori dal mare magnum della produzione culturale un musicista che ha fatto delle belle cose, e di facile accesso – come sono per esempio per costituzione buona parte delle colonne sonore – e che ora combatte con la SLA, e quindi con tutta una serie di sintomi di grande potenza semantica. Qualcuno che, senza malattia poteva rappresentare il digeribile esteticamente rispetto alla media delle proposte (che considerando l’ultima edizione pare davero Bach) e con la malattia l’apoteosi della pedagogia popolare. E’ diverso! Combatte! Il poverino lottatore. E così Bosso è arrivato, incespicando e sventagliando la difficile gestione di un corpo che gesticola per conto suo e Conti, che ad avere rispetto per gli altri è intrinsecamente negato, si è espresso in gesti del consueto rozzo patetismo de noantri – la carezza sul viso da in piedi a quello sulla sedia a rotelle, l’essere appoggiato con disinvoltura alla sedia a rotelle medesima – gesto che come mi ha gentilmente spiegato in privato una donna affetta dalla stessa diagnosi fa ribollire il sangue per la mancanza di rispetto. Abbiate pietà e ammirate QUESTO PRODIGIIIO! Gridava la territibile retorica di Conti, che sullo stomaco ci ha un intero visone.

E la pietà terribile – terribile arrivava. Bosso è nato seduttore, ne parlano le musiche che fa, ne parla il gagliardo umorismo sottile – (su twitter spinoza il giorno dopo diceva grosso modo, ma com’è che pure una persona con questo grande problema ha una pettinatura da coglione? E Bosso rispondeva titanico è che cerco di pettinarmi sa solo) ma anche il ciuffo da fu ragazzino sensuale ora quarantenne(im)punito come per esempio si può vedere in queste belle foto di Efreim Raimondi. Tutta questa seduttività fa un attrito formidabile, col corpo, con l’handicap con la terribilmente antiestetica malattia, e l’impudicizia della sfida, la sua non digeribilità quotidiana. Talmente forte l’attrito che più di qualcuno non si è accorto di Conti e si è commosso tout court, e molti di quelli che sono stati umanamente colpiti dalla semantica delle cose, invece, hanno creduto che era colpa di quel selvaggio sentimentale di Conti. Che dunque, come un cattivo esegeta davanti a un bel quadro, semplicemente scompariva.

A rendere Bosso un oggetto culturale e psichico ancora più potente ed efficace, ci sono state le cose che ha detto. La dodicesima stanza, come la stanza oscura che nessuno desidera vedere, e che bisogna imparare a esplorare. La miscela di intellettualismo e levità con cui ne parlava. Beh, un oggetto meraviglioso. E utile perché in questi tempi postmoderni e colorati ci facciamo l’illusione che postmoderna sia pure la morte, e daglie di foulard coi teschietti, e l’horror come catarsi quotidiana, e l’anima de li mortacci tua, ma si crepa e per sempre, ci si ammala ed è brutto, succede ai nostri cari e ai nostri vicini, e se esplorassimo davvero la dodicesima stanza magari tutto sarebbe più fattibile. Magari davvero si riesce a esplorare davvero il godimento.
Di poi ha suonato, una cosa semplice e gradevole e che senza dubbio arrivava dritta al cuore. Se ne andava e lasciava nelle mani psichiche di tutti quest’oggetto spinoso.

Da li al giorno dopo la rete si è divisa, tra commenti estasiati e molto accoglienti e anzi grati, per quell’oggetto in regalo. Commenti di grandi sedotti, e commenti di schifati schiftissimi, che dicevano a che merda, un mediocre, uno che sta li solo per via della sla. E io ho notato che tra questi c’erano diversi musicisti – anche se non di esageratamente noti anche perché magari molto sofisticati –e almeno dalla mia angolazione tutti, invariabilmente maschi. Molti incredibilmente aggressivi. Uno m’ha dato tipo della mentecatta musicale perché insomma ho detto che la prestazione era piacevole e il suo giudizio un tantino estremo. Un altro di solito persona mitissima e gentile me lo paragonava tipo a n sonatore de balere in disarmo. Questa cosa mi ha affascinato. La coorte di elementi emotivi evocati non permetteva a questi uomini di dare un giudizio ponderato.

 

La coorte era in effetti emotivamente minacciosa: tutta quella franca e sfacciata malattia, tanto per cominciare. Faticosa veramente da vedere considerando anche la fenomenologia retorica con cui è stata accompagnata negli ultimi anni : se pensiamo al dibattito per l’eutanasia, fino alle proteste di Stamina, è da lunga pezza che in Italia si martella il pubblico con un’idea di SLA legata alla sofferenza, alla morte, alla progressione del sintomo, al cimento con la fine. E questa idea è parzialmente vera quanto emotivamente forte. E quindi mi viene da pensare che il fatto che se ne faccia un cavallo identitario vincente sembrebbe mettere molti uomini in una sorta di difficoltà emotiva, perché neanche possono dire di voler dimostrare che combattendo la stessa battaglia avrebbero vinto anche loro. Sono costretti quindi di malavoglia a cedere il passo e non possono in questo caso non far altro che svalutarla. Posso anche concedere che il talento musicale di qualcuno di questi detrattori reggerebbe il passo – in buona fede non li conosco abbastanza bene musicalmente per dirlo – ma il punto è che la livorosa ineleganza denota un nervo scoperto.

E c’è anche quell’altra questione tutta erotica, Bosso è quello che a Roma, Dio ce lo conservi,si considererebbe  un piacione da campionato – caratteristica che in fatto di spettacolo aiuta terribilmente. Non rinuncia al ciuffo, non rinuncia a quella teatralità tipica dei grandi narcisi da palcoscenico, l’innesto con le difficoltà della sla rende il testo seduttivo incredibilmente affascinante e in effetti molte donne – e qualche gay – ci sono cadute con zelo. Nell’accettazione di queste e questi, e nella plateale ostilità degli altri ho visto anche i brandelli di una dinamica etologica.

 

In ogni caso secondo me una cosa gran bella e molto interessante. C’è un signore che combatte e dice delle cose che è bene tesaurizzare, con un linguaggio emotivamente accessibile. E’ un peccato non prendersi questa piccola cosa, che non sarà la prima né l’ultima – è il bello dell’umano, solo perché non ci si vuole fermare un attimo a gestirsi.

Analisi Terminabile e Interminabile

 

Negli ultimi anni della sua vita, Luigi Aurigemma aveva smesso di prendere nuovi pazienti in cura – sentiva la morte arrivare e si sentiva molto stanco a sua volta, aveva anche molti problemi di salute, e si dedicava prevalentemente alla scrittura, alla revisione di testi suoi. Tuttavia continuava l’attività di studio, perché aveva dei vecchi pazienti che continuavano ancora a venire. Mi ricordo con estrema esattezza il momento in cui me ne parlò, mi suonò come una rivelazione – eravamo insieme per strada e lui disse: certe persone, le devi tenere per mano tutta la vita. Mi ricordo l’espressione del volto, perché c’erano cose nuove per me, ma soprattutto, un orgoglioso, responsabile, disincanto.

Fu come dire, un importante insight. Ero fresca di studi e piena del positivistico zelo dei neofiti. Sapevo di leggendarie analisi lunghissime – 20 anni! 30 anni! Ma le consideravo imbarazzanti duetti che perpetuano una relazione che non vuole ammettere di aver esaurito la sua funzione, oppure prove provate di dipendenze non risolte da analisti evidentemente inadeguati. O in qualche caso furbastri. Ma, nonostante i tirocini nelle cliniche psichiatriche mi avessero fatto aprire gli occhi su stati di difficoltà che sembravano non conoscere redenzione – in cuor mio condividevo il grido di battaglia: la dove c’era l’es ci sarà l’io!
Vuoi che se fermi a cincischiare?

Ora invece io avevo il mio Grande Vecchio, che non era un furbastro, che rispediva indietro i pazienti che lo cercavano, che forse avrebbe anche voluto non vedere quelli che continuavano ad avere bisogno di lui, tirare fuori quegli occhi suoi, dire questa cosa, e dirla con un particolare scintillio.

Lo scintillio nello sguardo, era dovuto alle polemiche anche comprensibili di cui la psicoanalisi è stata sempre oggetto – con attacchi di vario ordine e grado, in alcuni casi condotti da addetti ai lavori che avanzavano legittime perplessità su trattamenti molto intensi, molto costosi ed estremamente lunghi il cui esito appariva incerto – in altri da una cultura popolare che aveva ed ha, un’idea approssimativa quanto di cosa voglia dire psicoterapia, quanto di cosa siano gli aspetti che la rendano efficace, quanto di cosa voglia dire esattamente psicopatologia e cosa possa essere una eventuale cronicità del sintomo – anzi la possibile cronicità è proprio un concetto estromesso dal pensare collettivo. Inoltre l’avvento della farmacoterapia, con la scoperta di molecole sempre più capaci di procurare effetti immediati senza penosi effetti collaterali, aveva reso quegli attacchi più aspri, e tante consapevolezze che ora abbiamo sull’uso degli psicofarmaci erano meno condivise – per esempio sulla loro minore capacità di dare effetti duraturi anche dopo la fine di un trattamento. E dunque, nello sguardo di Luigi Aurigemma c’era la risposta a tutto questo. Parlate parlate, ma io non li posso lasciare per strada a questi. Io mi sono assunto una responsabilità.

Magari sulla psicoanalisi ortodossa – trattamento che prevede tre o quattro sedute a settimana – protratta nel tempo, io anche ho qualche perplessità – dopo tutto quando Freud applicava questo modello le terapie duravano qualche mese o poco più. Ma le terapie psicodinamiche – cioè quelle che mantengono un’ispirazione analitica negli strumenti utilizzati ma si incardinano su frequenze settimanali relativamente meno intense– hanno bisogno di questo tempo lungo per un effetto ottimale, e oggi possiamo godere anche di molte ricerche standardizzate che ne dimostrano gli effetti nel tempo, in itinere e anche molto tempo dopo la fine del trattamento. (C’è una corposa bibliografia oramai  su questi argomenti, ma consiglio il recentissimo La psicoterapia psicodinamica basata sulla ricerca, Kachele, Levy, Ablon Raffaello Cortina).

Ma allora? Cosa dobbiamo pensare di percorsi terapeutici che sembrano non finire mai?

Intanto, stabilire la lunghezza ottimale per una terapia è un compito terribilmente arduo, se non impossibile. Si riesce meglio forse a pensare a un non meno di che un massimo a. Generalmente io tendo a pensare che un iter terapeutico sotto i quattro anni, tenda a lasciare sempre qualcosa fuori che potrebbe essere anche esiziale – molto importante, e che con una relativa frequenza potrebbe riproporre una certa sintomatologia identica come prima, dopo qualche anno dal primo trattamento, o relativamente mutata. Questo è anche spesso il problema delle farmacoterapie – che hanno il grande merito di azzittire un sintomo, ma siccome non toccano il meccanismo psichico che produce la necessità di dire qualcosa tramite quel sintomo – il quale è la parola di un linguaggio – una volta interrotto il farmaco potrebbe riproporsi oppure, riproporsi sotto altri vesti sintomatiche: la psiche di fatto, non ha smesso di lamentarsi. Questo fenomeno è facilmente osservabile per esempio nelle persone che hanno una personalità organizzata dalla dipendenza: magari smettono di assumere sostanze, e cominciano ad avere un disturbo alimentare, oppure a creare una forte dipendenza da gruppi o sistemi religiosi. O da uno stesso farmaco.

Quindi, psicoterapie di sette anni, otto anni, nove anni, magari sono lunghe, le possiamo considerare terapie lunghe, ma hanno una loro ragione di esistere – perché il lavoro può davvero avere bisogno di tempo.
Il che comunque non esclude che il paziente, ritenendo di aver tratto sufficiente beneficio dalla psicoterapia fino a un certo punto, non decida di interromperla in tempi più brevi. Come mi capita di dire ogni tanto in seduta – è lui che porta il suo corpo nella stanza e nessun altro.

 

Ma allora cosa pensare di cicli che invece superano questi margini estremi? Per una diade terapeutica lavorare a lungo implica anche trovare continuamente risorse simboliche, sapersi girare nello spazio, esplorare aspetti della vita interna che trascendano le proprie equazioni personali. Dopo tutto anche la relazione tra paziente e terapeuta e una relazione, e il paziente e il terapeuta sono una coppia, e quindi è quasi fisiologico che questa coppia insceni dei riti, delle modalità ricorrenti, dei percorsi che diventano noti, con il rischio che da noti diventino rassicuranti, e da rassicuranti a sterili. Per ogni relazione che si crea la somma delle caratteristiche di un certo analista (genere, talenti, carattere, storia sociale e familiare etc.) sarà un arsenale ricco, variamente ricco da cui la terapia può attingere proficuamente, ma siccome nessun analista è Dio, ossia quello che come diceva Galileo possiede una possibilità di conoscere che è infinita per qualità e quantità, è relativamente frequente che dopo un periodo anche piuttosto lungo, il terapeuta non riesca ad esplorare quelle aree psichiche dell’altro, o quelle modalità di funzionamento della relazione che la sua equazione personale non attiva. (Questo per esempio è un buon motivo per cui io apprezzo la scelta della formazione junghiana per cui i futuri terapeuti devono sottoporsi a due cicli di terapia con due analisti diverso, meglio se di sesso diverso.)

 

Allora può succedere questo: che un percorso terapeutico non abbia più niente di vitale da dare, niente di nuovo, che il mondo la fuori faccia paura al paziente o che il terapeuta per motivi suoi – che andrebbero esplorati e risolti – faccia fatica a far andare via il paziente, che facciano entrambi gli gnorri davanti ai segnali che la psiche manda, per esempio tramite dei sogni perché è arrivato il momento di chiudere. Non di rado può accadere qualcosa di sinistro per cui, per esempio, un certo sintomo magari è migliorato, lasciando spazio all’emergere di uno diverso – ugualmente attivo nel quotidiano ma relativamente meno pestilenziale nell’essere gestito – per esempio, una persona che da una vita sessualmente insoddisfacente passa a una relazione in cui però è molto maltrattata – e questo sintomo, rimanga abbarbicato alla terapia per certi suoi aspetti collusivi che lo garantiscono. E allora si va avanti stancamente.

 

Ma altre volte ancora, possono darsi situazioni di cronicità, correlate a un incrocio doloroso di biologico e psicodinamico, di genetico e di storia precoce, per cui una persona davvero – non può fare a meno di una terapia, di un contenitore psichico esterno perché non riesce mai ad attivarne uno interno, che funzioni del tutto che non collassi mai e non si rompa mai. Sono eventualità che possono capitare, e che hanno una loro ragione d’essere. Si dirà perché forse siamo ancora molto indietro nella ricerca sulla mente e sul cervello e questo può essere. Ho anche la sensazione che però a questa incompletezza dei risultati a questa impossibilità della vita funzionale per tutti, corrispondano delle cose che per noi sono fisiologicamente importanti, come il libro arbitrio, la nostra capacità di strutturare narrazioni. Ma queste ultime sono considerazioni filosofiche, che riguardano l’intreccio tra male, libertà, determinismo e sua assenza. Forse ne parleremo in un altro post.

Col tempo sai

Sincronicità era un concetto che ti piaceva – per quella magia misterica, per quel sogno di disvelamento che promette e forse mantiene. La contemporaneità di due eventi che capitano insieme – casuali e sconnessi, e la possibilità di una trama segreta che invece li leghi.
E ieri – una scatola cinese di sentimenti.
Ti ho pensato una volta.
Due volte.
Tre volte.

Ti ho pensato la prima volta quando sono tornata a casa, ho aperto gli scatoloni che mi aveva dato tua nipote, un piccolo falco pieno di invidie e falsi amori, e c’erano i tuoi libri per me, i Gesammelte Schriften – su cui avevi lavorato per una vita.
E aveva detto tua nipote chiamandomi con altro nome.
 Li do a te perché ti possono essere utili e so che tu eri legata alla famiglia dello zio, e mi è sembrato giusto.
E io ho un altro nome, e io non conosco nessuno della tua famiglia e io parlavo con te della mia vita e di cosa fare dei sogni altrui. E negli scatoloni dovevano esserci tutte le opere di Jung. E invece, ce n’era solo la metà.
Sai ne manca qualcuno è che non so dove li ho messi poi ti chiamo.
Il volume uno.
Il volume sette.
Poi tutti i volumi dall’undici al quindici.
Poi dei buchi.
Poi il venti.
I falsi amori di tua nipote ho pensato – a me sarebbe bastata una foto.
Ma almeno tutta intera.

Ho messo comunque questi volumi spaccati dai loro fratelli nella libreria, un pochino li ho sfogliati. E mi sono un po’ riscaldata, per via dei segni a matita, per via di certi cartoncini sparpagliati tra le pagine. Appuntamenti dimenticati in mezzo alle note di una Einfuhrung. Desiderata attorcigliati a una traumenbedeutung. Ti ho salutato corpo improvvisamente vecchio e abbandonato e per un momento ti ho ritrovato vivo nella graffite di una matita di trent’anni fa.
Ho parlato con quel segno grigio, sotto le parole stampate.

La verità è che eravamo irriducibili l’uno all’altra, intellettualmente ai vertici opposti di una stessa vocazione, ma indicibilmente e vergognosamente lontani. Lo sapevamo entrambi, forse tu più di me, e cercavamo di volerci bene come potevamo- lo sciamano e la bambina. Ma i tuoi occhi psichici arrivavano più in fondo della mia onestà e lo sapevi che nell’intimo sono allergica agli sciamanesimi. Sapevi che ero più figlia di questo tempo che tua. Ti scaldavi solo quando in momenti di distratta stanchezza mi lasciavo essere poetica, e io mi illuminavo di più quando finalmente ti sentivo – razionale come una spada arrivare nel fondo delle cose.
Ma io ero la bestia geometrica e tu l’animale fatato.
E non facevamo che deluderci l’un l’altra.
Pure ci volevamo bene sicuramente. Ci volevamo molto bene e queste cose dolcemente non ce le dicevamo mai. Ci incontravamo e ridevamo insieme e ci accarezzavamo le vite. Mi portavi in posti belli e facevi il vecchio galantuomo con la ragazzina piena di champagne. Rubavi le patatine fritte dal piatto del vicino e mi chiedevi ragguagli sul sesso e sull’anima. Era tutto quello che la nostra intimità mentale poteva permettersi, era tantissimo ed era pochissimo.
Avevo una serie di porte concettuali che non volevi aprire.
Avevi le tue che non mi facevi scoprire.
I volumi mancanti che tua nipote non mi ha dato.

E ieri sera, alla fine sai cosa è successo.
Ieri sera ho sentito questa bella canzone, una incredibile canzone francese, cantata da una incredibile cantante italiana.
E ti ho pensato, per la terza volta.

Sincronicità