Da zia Teresa a Walter Benjamin: Un’anatomia del sacro.

Roma ieri è stata attraversata da una grande processione: la salma di Padre Pio. Come era prevedibile, la salma ha attraversato la città in mezzo al trasporto e ai saluti di molti fedeli, che in tanti hanno guardato con moderato stupore – altri con stizza e sarcasmo. Ora che ci penso, io stessa ho svariati parenti acquisiti che tengono appesi al muro graziosi piattini con Padre Pio ritratto con il volto sofferente ma comprensivo, o dei quadri proprio, ho notizia di una zia audacissima che ne aveva fatto un ricamo a colori di dimensioni ragguardevoli.

Questa cosa mi affascina, perché è l’occasione di vedere lo strutturarsi di un culto secondario – una specie di insorgenza terza che nasce dal basso, si colora di etiche popolare e desideri inevasi, va anche in contro a sfruttamenti di diverso ordine e grado, fino a questa ammissione definitiva nel ventre misterico quanto sagace della Madre Chiesa.
Ma è soprattutto quel vedere la nascita del mito che mi interessa quella parte di costruzione di credenza, che si intreccia di quotidiano – Padre Pio che diventa un referente personale, un destinatario intimo e condiviso, una nuova stella polare intorno a cui edificare totem di coccetti, e preghiere, e pensierini anche naif, ma che presiedono a oggetti personali come la paura il desiderio e la difficoltà ad arginare le angherie della vita.

Le stesse zie mi avevano offerto momenti molto interessanti di ristrutturazione delle prassi religiose, libere reinterpretazioni. La mia preferita, per senso dell’umorismo e consapevolezza, per esempio la zia Teresa, sorella del padre di mio marito, conosceva a mente la messa per i morti che nel paese veniva chiamata con stanca familiarità RECHIE METERNA. Mi pento terribilmente, ora che non ci è più, di non essermela fatta ripetere con il registratore in mano. Il nome della messa era Requiem Aeterna, naturalmente, ma la zia Tersa come tutte le sue amiche e sorelle l’aveva sempre chiamata Rechie Meterna. La Rechie Meterna poi, discostandosi potentemente dal testo originale, mescolava parole in dialetto e stracci di parole latine con parole italiane, e raccontava una storia molto complicata di uno che moriva e poi gliene succedevano di ogni. Questa zia Teresa, quando mi diceva il Rechie Meterna rideva un pochino, rideva lucidamente consapevole dell’ignoranza popolare, sapeva dello scarto tra la sua versione e quella udita in chiesa, tra il prete – un tempo in latino – e lei che recitava meccanicamente davanti a un defunto, quando bambina era pagata per farlo. Ma ciò non toglie che potesse pronunciarla con molto convincimento e trasporto, diciamo, nell’hic et nunc. La zia Teresa aveva insomma il rapporto col sacro che io desidererei avere e non ho. Ci entrava e ci usciva, con un senso di intimità.

 

Quando ho visto Padre Pio, e la folla oceanica che lo salutava – ho pensato in primo luogo a Zia Teresa.
In secondo luogo ho pensato a Walter Benjamin.

Nel suo sessantaquattresimo frammento – tre paginette -, che con tripli salti mortali carpiati di furbizia capitalistica Donzelli ha trasformato in un libro, Benjamin ha parlato del Capitalismo come religione, non cioè come esito della religione protestante, dice espressamente citando Weber, ma come struttura religiosa in termini sociologici. Perché è connotato da un culto per esempio, perché all’interno del sistema capitalistico l’organizzazione ideologica è continua immortale e pervasiva e perché il tradimento del precetto capitalistico produce un senso di colpa, nei confronti dei dettami del capitale e anche perché soltanto alcuni beati, che trascendendo l’umano hanno attuato i precetti del capitale sono autorizzati a parlarne. Ed in effetti è una lettura fascinosa, che dice delle cose veritiere del nostro modo di funzionare – mette sulla strada percorsa da antropologi e psicologi sulle funzioni del culto nelle organizzazioni sociali e individuali, ma che forse ho pensato, fa crogiolare nell’idea di strutture ideologiche alternative che possano essere prive di quelle pochezze spirituali che sembrano i riti agli occhi degli atei. Io però che vengo da una famiglia di atei, con una rosea tradizione di sinistra, con anche svariati parenti sparpagliati nella storia dell’Unione Sovietica – conosco le ritualità anche di quegli altri, la funzione omoestatica di tanti oggetti sociali della costellazione religiosa, che mi sembra alla fine riaffiorare a ondate regolari. E se da una parte trovo che i regimi totalitari sfruttino a loro vantaggio la disposizione psicologica al rito e al culto, così come questi bisogni arrivano a essere quotidianamente tesaurizzati ed economizzati da truffatori di ogni ordine e grado, questo non ci permette di credere che la pulsione al sacro sia solo determinata da oggetti culturali manipolatori, e non venga da istanze anteriori – individuali e collettive.

Quello di cui cerco di afferrare il senso, non è tanto l’istanza metafisica, che a questo discorso si sovrappone e si allaccia.  L’istanza metafisica è solo un primo momento: essa almeno per me, combacia non solo con la domanda che ci si pone in merito all’ordine delle cose e la risposta che ci si da – anche l’ateismo è una risposta legittima alla domanda metafisica e una soluzione metafisica dal momento che stabilisce una spiegazione su tutto ciò che fisico e osservabile non è – ma anche con il suo riproporsi costante, quella sensazione di soluzione inevasa a cui si ritorna, e sul cui bordo capita di stare paradossalmente in misura intensa quando si esercitano professioni scientifiche, che ti mettono di fronte allo scarto che avanza dalla conseguenzialità logica. Quel momento del fisico, del biologo, del neuroscienziato che ci ha l’essere da una parte, il non essere da un’altra e Parmenide come momento della filosofia insuperato. Ma appunto l’istanza metafisica è una sorta di luogo originario della cultura che si intreccia ad altri – magari irrompendo nei nostri momenti parmenidei che capitano nel quotidiano: in assenza di fisica delle particelle ci sono sempre le magie della nascita e della morte.

In ogni caso, abbiamo una domanda a cui un individuo, ma soprattutto un gruppo culturale, da una risposta, e questa risposta a sua volta è satura di altre cose anteriori alla costruzione culturale in cui si calano o a cui molto filosoficamente diciamo potrebbero dar luogo: bisogni emotivi di contenimento dell’incerto, di reificazione di emozioni disturbanti, che possano essere guardate e contemplate, bisogni quasi cognitivi di costruzione di aspetti psichici persecutori – il diavolo, le anatomie del peccato – bisogni di organizzazione psichica delle funzioni del superio, bisogni anche di organizzazione di oggetti psichici buoni e belli ma sfumati e suggenti. Ma anche bisogni di aggregazioni complessuali del costrutto identitario, della propria appartenenza a un gruppo. Ecco queste funzioni psichiche sono gli interlocutori dell’istanza metafisica, hanno una struttura irriducibilmente irrazionale, e sono responsabili dell’edificazione dei riti, delle scelte di gruppi sociali di sacralizzazione di questo e di quello, e sono irredimibili, impossibili da eliminare, onnipresenti. Qualcosa di incurabile – ma a sua volta di curante, balsamico. Onde per cui sono un valido aiuto per un verso a situazioni di malessere psichico, vuoi per cause contingenti che per questioni endongene, e per lo stesso motivo sono ampiamente sfruttabili da persone prive di scrupoli.
Tradotto: pregare, andare a messa, tenere l’immagine di un Santo Patrono, servono a poter dare una forma al desiderio di uccidere o di vedere qualcuno stare male, al problema di tollerare l’ansia che da l’operazione per cui un marito è in lista di attesa, organizzare in legge comprensibile il fatto che secondo noi non è bello fare una certa cosa,    tollerare la terribile e insensata speranza e l’altrettanto terribile disperazione. Sapere chi si è che posizione si ha rispetto al gruppo di altri che stanno nel nostro quotidiano, e per i più fortunati essere in una profonda sintonia con se stessi, senza oggetti secondari. L’atto della preghiera.

Tutte queste cose sono onnipresenti e creano da una parte le aggregazioni ritualistiche della religione popolare, dell’uso collettivo dell’oggetto religioso dal basso, dall’altro permeano il funzionamento dei gruppi sociali nelle modalità che Benjamin riscontrava nel capitalismo facendo crogiolare qualche lettore nell’utopia per cui possano esistere forme di aggregazione sociale che possano fare a meno della onerosa gestione dell’irrazionale. Ma questa gestione dell’irrazionale o si organizza dal basso in forme varie e colorite delle diverse direzioni di culto, o si organizza dall’alto con l’imposizione totalitaria di ritualistiche che codifichino la necessità irrazionale per tutti – con esiti nefasti, a prescindere dal piano etico. Ma –  tertium non datur e l’ultimo culto moderno, edipicamente rivoltoso verso un cattolicesimo dominante, l’ateismo militante – non rifugge alle stesse dinamiche e agli stessi bisogni.

Non farei dunque confusione, e per quanto continuiamo a parlare male della nostra democrazia, sognando giustamente un sempre molto meglio fattibile, abbiamo una bella costituzione che fa la cosa giusta – rispetta le varie forme di istanza metafisica e risposta sacra – e distingue con la persecuzione giudiziaria coloro i quali ne fanno distorsione e raggiro. Certo non di rado il passaggio è sottile, sfumato, fluido – quando la moneta in cassa ribalta l’anima subito in purgatorio salta! Si sentivano dire i devoti negli anni dell’edificazione di San Pietro – ma rimane la cosa migliore da fare.

 

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5 pensieri su “Da zia Teresa a Walter Benjamin: Un’anatomia del sacro.

  1. Il rito è sempre qualcosa di molto potente , così come il senso del sacro. Impossibile per le religioni regolamentarlo e opporsi, per questo viene, come tu dici, inglobato e stemperato con l’ aggiunta di simboli canonici, rosari tra le mani del morto e quant’altro.
    Stessa cosa accade anche in ambito non religioso, vedi ad esempio la mummia di Lenin.

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  2. Proprio ieri leggevo un libretto di Iona Heath, “Contro il mercato della salute”, che fa un ragionamento molto simile, assimilando anche la sanità – come è oggi intesa – a una sorta di religione. Non basta negare questa spinta interiore: troverà sempre nuove forme per emergere

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