A che Stadio siamo?

 

 

 

Mi chiedono di scrivere un commento sulla canzone degli Stadio, Un giorno mi dirai che ha vinto al Festival. Una canzone orecchiabile, gradevole – a mio giudizio senza infamia e senza lode musicalmente parlando, ma che probabilmente ha il merito di dare una bella ventata di retorica acrimoniosa e babbiona, nel contesto di un festival che ha avuto il merito, va detto, di essere stato progressista e delicato senza cedere a dichiarazioni arrabbiate e scene di predica apocalittica. I cantanti cantavano le loro canzoni, di periferia o d’amore, di lasciamenti o di borse di signore, con un nastro arcobaleno attaccato al braccio o al microfono a dimostrare il loro appoggio alla legge Cirinnà. E’ stata una cosa che ho apprezzato molto, nella sua delicata fermezza.
Gli Stadio il nastro non l’hanno messo, per quanto dopo – mi chiedo quanto per ragioni di opportunismo commerciale – abbiano dichiarato di essere favorevoli alle unioni civili.

In ogni caso, il loro testo seduce per una gentile e romantica misoginia. In essa un dolce papà, di spirito libero e pedagogia avanguardista, dice alla figlia che sostanzialmente gli ha rovinato la vita, che è tutta colpa sua se nonostante la legge sul divorzio e il sapido esempio di tanti attori famosi che si fanno i cazzi loro non ha lasciato sua mamma. Glielo dice a lei presumibilmente bimbetta o adolescente – giacché quella risponde ridendo, datele tempo poraccia – protetto dalla licenza poetica canzonettistica che lo mette al riparo dal costo di una terapia alla pargola, che sul piano di realtà sarebbe invece garantita.

La canzone prosegue poi, con il pensiero alla vita adulta della figliola la quale – come forse era prevedibile con un babbo del genere, va incontro a cocenti delusioni d’amore perché l’amato l’ha abbandonata. Gli uomini sbagliano! Dice il babbo per consolarla, ma dall’economia della canzone parrebbe che le femmine sono condannate per costituzione a fare una vita terribile. In cui o ci si tiene un marito che si sente obbligato, o si perde un amante perché è diventato il marito de n’antra.

Mica è cosa nuova eh, è la gloriosa tradizione culturale del maschio latino nella versione tristona, che aveva già spopolato con indimenticato successo quando Marco Ferradini –Teorema! – teorizzava le sue leggi della matematica amatoria: se alla donna le dici che l’ami ti da un calcio, se la piji a calci è tutta un sollucchero. Torme di adolescenti si erano confortate davanti a queste perle di saggezza, che fornivano una giustificazione meravigliosa ai loro insuccessi – poi fortunatamente se ne liberavano, si mettevano a canticchiar altro sotto la doccia, e avevano una vita sessuale più soddisfacente.
A meno che non incappavano in Marco Masini, e allora gnente.
Da capo a dodici.

Naturalmente la canzone colpisce perché – è sicuramente certo che nella testa di un genitore con un matrimonio infelice questo tipo di pensiero capiti spesso. E una piccola parziale verità, un segmento di narrazione lo merita anche: capita quasi sempre nella famiglia di lungo corso, al padre alla madre, la chimera di un sentiero alternativo che non si percorre guardando i figli piccini, o il partner che apparentemente o abilmente ignaro fa qualcosa in casa. Tuttavia è proprio vero che, non ti dico dopo quel demonio del femminismo ma, come diceva Hillman, dopo cento anni di psicoterapia il mondo va sempre peggio. Va cioè sempre avanti senza assumere mai le consapevolezze che dalle stanze della clinica, dai testi di divulgazione tracimano nella cultura popolare, nei film nei libri. Non dovremmo aver imparato per esempio che quando una coppia rimane a lungo insieme nonostante i dispiaceri e l’assenza d’amore ai figli si fa fare una vita peggiore che essendosi invece separati? Non dovremmo aver capito da lunga pezza che, se invece si rimane insieme ci sono dei collanti segreti che tengono uniti, che no non sono i figli, che meno spesso di quanto crediamo sono i soldi, e invece ci sono altre religioni nascoste? Se proprio un uomo rimane con una donna che non ama più, ma su cui mette addosso parti di se da cui non vuole liberarsi, se proprio deve rimanere suo malgrado in un sentiero sassoso, visto che ci porta dietro la progenie, piuttosto che sentirsi l’eroe di una canzone che pretende implicita riconoscenza dalla figlia incosciente, ma davvero ma non era meglio chiederle scusa?
Magari dopo, si potrebbe anche trovare un fidanzato che non la lascia.

8 pensieri su “A che Stadio siamo?

  1. Concordo sulla mediocrità della canzone degli Stadio, che pure mi stanno simpatici e dunque mi fa piacere che abbiano vinto.
    Sui nastrini arcobaleno non concordo, ma proprio per niente.
    Li ritengo, al solito, il risultato di uno stomachevole conformismo (di sinistra?) e di un comodo (e ipocrita) adeguamento alle “mode” del momento e, a questo punto, sono più credibili gli Stadio che hanno fatto capire che non c’è bisogno di addobbarsi con questi simboli vuoti per credere in un diritto.
    Non posso non ricordare quando, non mille anni fa ma una quindicina supergiù, i movimenti sedicenti pacifisti riempivano le piazze, anche di casa nostra (poi vabbè, molti non riuscivano ad andare oltre al “chi non salta berlusconi è”… ma pazienza), addobbandosi con straccetti bianchi simbolo di pace annodati alle borse o, ancora una volta, con le bandierine arcobaleno. Ora non si sa che fine abbiano fatto, per dire la convinzione piuttosto che il conformismo …
    Poi voglio dire, l’uso del mezzo pubblico per la propaganda di parte va bene o non va bene o va bene solo quando ci pare e soprattutto ci piace?
    Non oso immaginare i commenti se, al contrario, i cantanti si fosssero messi bracciali o foulard con su scritto “Abbasso Cirinnà”!

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  2. Ammazza il testo è tragicamente (nell’accezione fantozziana) d’altri tempi! Del resto uno convinto che una ragazza di oggi davanti alla fragilità maschile e paterna possa avere pensieri tipo un padre non deve piangere mai, un uomo deve proteggersi sai, è palesemente rimasto ibernato ai tempi del Drakkar e l’han scongelato appena prima di San Remo. Immagino la stessa situazione cantata dalla figlia a X-Factor, dal titolo “Ma ke te devo D?” e più o meno suona come “Bel padre del ca**o che invece di prenderti le tue responsabilità vieni a rinfacciarmi piagnucolando di aver perso il treno dei desideri per causa mia… e in più mi gufi pure! “

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  3. Mi permetto di aggiungere, fra i classici veramente fastidiosi per il loro finto femminismo piagnone, anche “Gli uomini non cambiano” e “Quello che le donne non dicono”. Dolcemente urticanti.

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  4. Ci stiamo dimenticando l’incommentabile Kekko che, pur essendo giovane, si fa sempre portavoce di un maschilismo paleolitico: “”Inginocchiati, concediti, accontentami, guardami, piangi, prega e chiedi scusa…e implorami di non ucciderti” … Ma più di lui mi disgustano le donne che lo trovano “romantico” e lo adorano (?!?). Ripigliatevi.

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  5. see, chiedere scusa. manco davanti al plotone, chiedono scusa. che se no si devono spogliare del manto del superpotere del martirio e assumere la faccia dell’essere umano che ha fatto del suo meglio e gli spiace che a posteriori non sia stata la scelta migliore. e piuttosto che ammettere questa fragilita’, questa sconfitta (non della coppia, della scelta some genitori) se fanno anni senza un abbraccio o una telefonata. che tanto fa martire, e il martire per la famiglia si porta in tutte le stagioni.

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