Qualche tempo fa ero a casa di una mia amica che ha un bambino di 5 anni. Mentre noi bevevamo un caffè, il bambino raccontava cosa gli era successo a scuola: un compagno lo aveva aggredito e preso in giro, e lui era rimasto abbastanza male. La madre allora, una donna nel complesso anche mansueta, gli aveva chiesto: Ma tu gli hai detto che è uno stupido? E suo figlio aveva risposto di no – perché la maestra dice che cretino non si dice, cretino è una parolaccia. La madre storceva la bocca, e mi spiegava che si, a scuola le maestre dicono così. Io solidarizzavo con tutte le mie forze, con il povero ragazzino che se je menano non può: menare a sua volta, dire qualche liberatorio insulto o parolaccia, e neanche esprimere un giudizio valore negativo per quanto presente nel nostro vocabolario corrente. Cosa può fare quel povero bambino dunque? Mi chiedevo – deve esprimere una circostanziata prolusione che spieghi per quale motivo “a brutto ciccione” è una formula che egli potrebbe trovare offensiva e quindi inquinare dei rapporti altrimenti più che gradevoli? Oppure quel bambino deve evitare di risolvere autonomamente la questione e andare sistematicamente dalla maestra, anche solo a fronte di un insulto verbale – brutto ciccione – perché non è consentito mai uno duro scambio tra pari, l’aggressività tra soggetti di stesso livello non deve essere concepita e bisogna per forza ricorrere alle gerarchie? E continuavo a pensare quasi con terrore. Ma se era una bambina?
Non che tra adulti vada meglio.
Qualche giorno fa lo scrittore Christian Raimo, è stato invitato a una trasmissione televisiva per parlare di isis periferie, terrorismo e quant’altro. In quella stessa trasmissione si trovava ad assistere a una demonizzazione delle periferie romane, nel caso specifico Tor Pignattara, demonizzazione che però non riusciva ad essere corroborata da nessuna informazione specifica che la rendesse attendibile. Raimo si alzava dalla trasmissione e se ne andava, come gesto di dissenso. Il giorno dopo avrebbe scritto sulla sua bacheca Facebook che, il servizio giornalistico era monnezza, e non era insomma giornalismo. Veniva allora reiteratamente attaccato perché no! Non doveva dire monnezza! Non doveva attaccare la professionalità di quel giornalista! Non doveva dare lezioni!
In un altro contesto, quando su una bacheca di una musicista molto brava e che stimo molto ho espresso il mio dissenso su una certa sua posizione – in merito agli strumenti musicali sui mezzi di trasporto! La musicista ha reagito con un certo risentimento. La lezione la fai a casa tua!
Poi ci siamo velocemente riappacificate. Io non sono il tipo da rispondere la lezione la fai a casa tua, ma in compenso molti testimoni possono assicurare che difronte al dissenso reagisco in maniera come dire? Piuttosto muscolare. I miei colleghi mi definiscono a dire il vero animosa, con tutto il parterre di significati che questo implica in un contesto junghiano.
Ho comunque la sensazione che la gestione dell’aggressività e del dissenso siano diventati un problema collettivo, come se fossero oggetti arcaici, emersi da un passato tribale e bellicoso, che nella moderna e civilizzata contestualità non riescono a trovare una cittadinanza – specie in certe ambienti sociali ed economiche. La distonia è vissuta come malefica, come aggressione che investe la persona, come forma di slealtà. La critica scivola subito nel lessico dell’offesa narcisistica.
Oltre a una sorta di retorica del minuetto che codifica i nostri scambi, per cui quando se ne esce è subito un evento notevole, ci sono altre retoriche condivise sulle constatazioni distoniche: per esempio non si può più parlare di handicappati ma bisogna parlare di disabili, dai disabili, a causa di quel improprio dis, si è passati ai diversamente abili. Stessa trafila per i ciechi che sono diventati non vedenti, i sordi non udenti, e gli spazzini operatori ecologici. Tutta una serie di prassi linguistiche che procedono in parallelo e che non sapendo entrare magari in aggressivo scambio di ceffoni – che alle volte quelli servono – con chi discrimina in base a un’area problematica e quindi distonica, preferiscono eludere l’aspetto distonico. Diversamente abili è vero, ma quello la non cammina e ha un problema a cui deve provvedere la contestualità sociale. E inoltre, lo spazzino che dovesse essere trattato con supponenza perché di mestiere non fa il direttore di filiale in un prestigioso istituto di credito, non avrà maggior forze per contrastare il classista di turno dichiarando ma guardi si sta sbagliando sono un operatore ecologico. D’altra parte esso si è abbondantemente reso conto del fatto che, da quando lo chiamano operatore ecologico anziché spazzino, non è aumentato lo stipendio fino ai vertici del direttore di banca di cui sopra
Cosa c’è di disturbante nell’esplosione del negativo, nell’indicazione del dissenso? Nella mancanza di accordo? Perché fatichiamo?
Sotto una prospettiva sociologica si assiste in Italia a una fenomenologia curiosa. C’è ancora un relativo benessere che non fa reggere paragoni con aree disastrate del mondo, molto grandi e molto ma molto più sofferenti, e si ha la sensazione che l’abitare in questa curiosa provincia dell’impero ricco, che è sempre meglio del centro del deserto e della guerra, dia abbastanza mezzi per lamentarsi delle circostanze ma non abbastanza energie per ritorcercisi contro. Si ha una sorta di paura collettiva del disappunto radicale, e già in questo clima la discussione diventa difficile. Siamo scontenti ma mediamo, siamo arrabbiati ma ancora civili. Ha senso, anche perché c’è ancora molto da perdere. E poi siamo generalmente invecchiati – come dato materiale prima che metaforico -e tutti imborghesiti in una convenzione lessicale di carinerie che fugge in una cattiva infinità di parafrasi: in un paese di tardoni l’energia per il contrasto è insufficiente. Tutto ciò che abbiamo: beni, idee, bambini, progetti sono i gioielli di una famiglia di vecchi, persino le nostre idiosincrasie. E tuttè queste, sempre troppo poche cose, desolate e quindi poco vitali, sono più che investimenti sul futuro, vestiti del nostro narcisismo presente. L’unica aggressività che ci rimane è la reazione all’attacco a noi stessi contenuto in qualsiasi contestazione degli oggetti che portiamo. L’aggressione alla cosa, non viene mai letta come aggressione alla cosa, ma subito come aggressione alla persona.
Ce l’hai con me!
Allora accade che sul piano psicologico, la reazione che imbrocchiamo diviene facilmente impropria. Siccome l’oggetto non è considerato meritevole di dignità sua, la questione viene immediatamente letta come un attacco al soggetto. Non si entra nel merito quindi del dissenso, ma si fugge immediatamente nella difesa dalla persona e della persona. Per tornare all’esempio di prima, la lezione la fai a casa tua! è un grande classico della discussione di rete: di un certo parere si legge solo l’indicativo, e si decide di equiparare la normale convinzione con cui una persona esprime un parere, ossia un dissenso, a una convinzione di superiorità anche se non corroborata da nessun allusione in quel senso. Quindi si bypassa completamente l’argomentazione e si fa una reprimenda sulla presunta posizione che però – spesso e volentieri – è proiettata dall’altro prima che davvero sostenuta da chi critica. Oppure come nel caso di Raimo e Soriga, si cerca di disinnescare la critica concentrandosi sullo stilema lessicale, piuttosto che sul merito, e trascinando implicitamente in una sorta di errore logico per cui la scelta di dire monnezza a certa operazione professionale doveva essere di defoult riferita anche a chi l’aveva fatta. In questo modo ancora una volta si eludeva il merito.
Mille sono insomma le strategie psichiche per non confrontarsi con l’emergere del negativo.
Tuttavia, secondo me, tanto più questo negativo è eluso, tanto più ci si dimostra deboli. Io non credo che si abbia il dovere di prendere sul serio, e quindi discutere con precisione qualsiasi dissenso ci venga espresso, su qualsiasi argomento. Certe critiche possono tranquillamente essere ignorate, se non le consideriamo rilevanti, si può elegantemente soprassedere, e anzi, ammetto con molta tranquillità che relativamente poco spesso cambio le mie opinioni in vista di una critica, perché come tutti pondero le mie scelte con convinzione – e spesso da vertici anteriori alle informazioni di cui dispongono (operazione questa secondo me molto ma molto più frequente di quanto si creda). Tuttavia trovo che renda decisamente più inattaccabili, il prenderle in considerazione, il rigirarsele tra le mani, specie quando dimostrano di avere un fondamento – anche se incardinato in una prospettiva diversa quasi a prescindere dallo stile dell’interlocutore – quando è almeno possibile – e come dire preservando se stessi da ciò di cui si sta parlando. Chiamandosi fuori, tenendo a bada l’investimento narcisistico – cioè: non schiacciandosi identitariamente su ciò che si sta argomentando.
Altrimenti il rischio è l’altra caduta tristissima di questa nostra fase culturale – ossia il famoso hate speech, rumoroso, di primo acchito a volte anche spaventoso, ma in finale, tra un insulto e l’altro, mediocremente inutile e imbelle.