Dissenso

Qualche tempo fa ero a casa di una mia amica che ha un bambino di 5 anni. Mentre noi bevevamo un caffè, il bambino raccontava cosa gli era successo a scuola: un compagno lo aveva aggredito e preso in giro, e lui era rimasto abbastanza male. La madre allora, una donna nel complesso anche mansueta, gli aveva chiesto: Ma tu gli hai detto che è uno stupido? E suo figlio aveva risposto di no – perché la maestra dice che cretino non si dice, cretino è una parolaccia. La madre storceva la bocca, e mi spiegava che si, a scuola le maestre dicono così. Io solidarizzavo con tutte le mie forze, con il povero ragazzino che se je menano non può: menare a sua volta, dire qualche liberatorio insulto o parolaccia, e neanche esprimere un giudizio valore negativo per quanto presente nel nostro vocabolario corrente. Cosa può fare quel povero bambino dunque? Mi chiedevo – deve esprimere una circostanziata prolusione che spieghi per quale motivo “a brutto ciccione” è una formula che egli potrebbe trovare offensiva e quindi inquinare dei rapporti altrimenti più che gradevoli? Oppure quel bambino deve evitare di risolvere autonomamente la questione e andare sistematicamente dalla maestra, anche solo a fronte di un insulto verbale –  brutto ciccione – perché non è consentito mai uno duro scambio tra pari, l’aggressività tra soggetti di stesso livello non deve essere concepita e bisogna per forza ricorrere alle gerarchie? E continuavo a pensare quasi con terrore. Ma se era una bambina?

Non che tra adulti vada meglio.
Qualche giorno fa lo scrittore Christian Raimo, è stato invitato a una trasmissione televisiva per parlare di isis periferie, terrorismo e quant’altro. In quella stessa trasmissione si trovava ad assistere a una demonizzazione delle periferie romane, nel caso specifico Tor Pignattara, demonizzazione che però non riusciva ad essere corroborata da nessuna informazione specifica che la rendesse attendibile. Raimo si alzava dalla trasmissione e se ne andava, come gesto di dissenso. Il giorno dopo avrebbe scritto sulla sua bacheca Facebook che, il servizio giornalistico era monnezza, e non era insomma giornalismo. Veniva allora reiteratamente attaccato perché no! Non doveva dire monnezza! Non doveva attaccare la professionalità di quel giornalista! Non doveva dare lezioni!

In un altro contesto, quando su una bacheca di una musicista molto brava e che stimo molto ho espresso il mio dissenso su una certa sua posizione – in merito agli strumenti musicali sui mezzi di trasporto! La musicista ha reagito con un certo risentimento. La lezione la fai a casa tua!
Poi ci siamo velocemente riappacificate. Io non sono il tipo da rispondere la lezione la fai a casa tua, ma in compenso molti testimoni possono assicurare che difronte al dissenso reagisco in maniera come dire? Piuttosto muscolare. I miei colleghi mi definiscono a dire il vero animosa, con tutto il parterre di significati che questo implica in un contesto junghiano.

Ho comunque la sensazione che la gestione dell’aggressività e del dissenso siano diventati un problema collettivo, come se fossero oggetti arcaici, emersi da un passato tribale e bellicoso, che nella moderna e civilizzata contestualità non riescono a trovare una cittadinanza – specie in certe ambienti sociali ed economiche. La distonia è vissuta come malefica, come aggressione che investe la persona, come forma di slealtà. La critica scivola subito nel lessico dell’offesa narcisistica.
Oltre a una sorta di retorica del minuetto che codifica i nostri scambi, per cui quando se ne esce è subito un evento notevole, ci sono altre retoriche condivise sulle constatazioni distoniche: per esempio non si può più parlare di handicappati ma bisogna parlare di disabili, dai disabili, a causa di quel improprio dis, si è passati ai diversamente abili. Stessa trafila per i ciechi che sono diventati non vedenti, i sordi non udenti, e gli spazzini operatori ecologici. Tutta una serie di prassi linguistiche che procedono in parallelo e che non sapendo entrare magari in aggressivo scambio di ceffoni – che alle volte quelli servono – con chi discrimina in base a un’area problematica e quindi distonica, preferiscono eludere l’aspetto distonico. Diversamente abili è vero, ma quello la non cammina e ha un problema a cui deve provvedere la contestualità sociale. E inoltre, lo spazzino che dovesse essere trattato con supponenza perché di mestiere non fa il direttore di filiale in un prestigioso istituto di credito, non avrà maggior forze per contrastare il classista di turno dichiarando ma guardi si sta sbagliando sono un operatore ecologico. D’altra parte esso si è abbondantemente reso conto del fatto che, da quando lo chiamano operatore ecologico anziché spazzino, non è aumentato lo stipendio fino ai vertici del direttore di banca di cui sopra

Cosa c’è di disturbante nell’esplosione del negativo, nell’indicazione del dissenso? Nella mancanza di accordo? Perché fatichiamo?
Sotto una prospettiva sociologica si assiste in Italia a una fenomenologia curiosa. C’è ancora un relativo benessere che non fa reggere paragoni con aree disastrate del mondo, molto grandi e molto ma molto più sofferenti, e si ha la sensazione che l’abitare in questa curiosa provincia dell’impero ricco, che è sempre meglio del centro del deserto e della guerra, dia abbastanza mezzi per lamentarsi delle circostanze ma non abbastanza energie per ritorcercisi contro. Si ha una sorta di paura collettiva del disappunto radicale, e già in questo clima la discussione diventa difficile. Siamo scontenti ma mediamo, siamo arrabbiati ma ancora civili. Ha senso, anche perché c’è ancora molto da perdere. E poi siamo generalmente invecchiati – come dato materiale prima che metaforico -e tutti imborghesiti in una convenzione lessicale di carinerie che fugge in una cattiva infinità di parafrasi: in un paese di tardoni l’energia per il contrasto è insufficiente. Tutto ciò che abbiamo: beni, idee, bambini, progetti sono i gioielli di una famiglia di vecchi, persino le nostre idiosincrasie. E tuttè queste, sempre troppo poche cose, desolate e quindi poco vitali, sono più che investimenti sul futuro, vestiti del nostro narcisismo presente. L’unica aggressività che ci rimane è la reazione all’attacco a noi stessi contenuto in qualsiasi contestazione degli oggetti che portiamo. L’aggressione alla cosa, non viene mai letta come aggressione alla cosa, ma subito come aggressione alla persona.
Ce l’hai con me!

 

Allora accade che sul piano psicologico, la reazione che imbrocchiamo diviene facilmente impropria. Siccome l’oggetto non è considerato meritevole di dignità sua, la questione viene immediatamente letta come un attacco al soggetto. Non si entra nel merito quindi del dissenso, ma si fugge immediatamente nella difesa dalla persona e della persona. Per tornare all’esempio di prima, la lezione la fai a casa tua! è un grande classico della discussione di rete: di un certo parere si legge solo l’indicativo, e si decide di equiparare la normale convinzione con cui una persona esprime un parere, ossia un dissenso, a una convinzione di superiorità anche se non corroborata da nessun allusione in quel senso. Quindi si bypassa completamente l’argomentazione e si fa una reprimenda sulla presunta posizione che però – spesso e volentieri – è proiettata dall’altro prima che davvero sostenuta da chi critica. Oppure come nel caso di Raimo e Soriga, si cerca di disinnescare la critica concentrandosi sullo stilema lessicale, piuttosto che sul merito, e trascinando implicitamente in una sorta di errore logico per cui la scelta di dire monnezza a certa operazione professionale doveva essere di defoult riferita anche a chi l’aveva fatta. In questo modo ancora una volta si eludeva il merito.
Mille sono insomma le strategie psichiche per non confrontarsi con l’emergere del negativo.

Tuttavia, secondo me, tanto più questo negativo è eluso, tanto più ci si dimostra deboli. Io non credo che si abbia il dovere di prendere sul serio, e quindi discutere con precisione qualsiasi dissenso ci venga espresso, su qualsiasi argomento. Certe critiche possono tranquillamente essere ignorate, se non le consideriamo rilevanti, si può elegantemente soprassedere, e anzi, ammetto con molta tranquillità che relativamente poco spesso cambio le mie opinioni in vista di una critica, perché come tutti pondero le mie scelte con convinzione – e spesso da vertici anteriori alle informazioni di cui dispongono (operazione questa secondo me molto ma molto più frequente di quanto si creda). Tuttavia trovo che renda decisamente più inattaccabili, il prenderle in considerazione, il rigirarsele tra le mani, specie quando dimostrano di avere un fondamento – anche se incardinato in una prospettiva diversa quasi a prescindere dallo stile dell’interlocutore – quando è almeno possibile – e come dire preservando se stessi da ciò di cui si sta parlando. Chiamandosi fuori, tenendo a bada l’investimento narcisistico – cioè: non schiacciandosi identitariamente su ciò che si sta argomentando.
Altrimenti il rischio è l’altra caduta tristissima di questa nostra fase culturale – ossia il famoso hate speech, rumoroso, di primo acchito a volte anche spaventoso, ma in finale, tra un insulto e l’altro, mediocremente inutile e imbelle.

 

 

Passeggiata intorno alla finzione

 

Quanto ci fanno dispetto le bugie?

Quanto costituiscono problema?
E quanto, in un certo senso, una volta disvelate possono portare il bugiardo a una sanzione fortissima e ineludibile?
La veridicità delle nostre dichiarazioni è la base su cui si edifica il nostro contratto sociale, e anzi di più la nostra anteriore organizzazione relazionale. Senza quella veridicità non c’è possibilità di accordo, di patto, di organizzazione e di spartizione di compiti e dunque, siamo abituati a interloquire tra noi, quanto meno presumendo che ciò che ci dicono gli altri sia vero, perché è solo quella presunzione di veridicità che ci permette di prendere decisioni.

Tuttavia noi sappiamo che molte persone mentono, raccontano cose false di se, in maniera di volta in volta adolescenziale o puerile, altre volte in vece furba e disonesta, altre ancora invece patologica fino ai casi in cui la menzogna ha un sapore psichiatricamente rilevante.
Tutte queste diverse anatomie della bugia mi avevano all’inizio fatto pensare al mentire come un sintomo la cui diagnosi cambia a seconda della funzione che assume, ma poi mi rendevo conto che tutti i tipi di menzogna afferiscono a una sorta di vettore conduttore, un crinale epistemologicamente dirimente.
Ma andiamo con ordine.

Esempio 1.
Ho un bellissimo ricordo di menzogna sfacciatamente adolescenziale: i miei genitori erano partiti lasciandomi sola a casa con il compito di annaffiare tutte le piante. Io ricordo che le annaffiai svogliatamente e frettolosamente e che qualcuna la lasciai proprio a secco. Quando i miei genitori tornarono mia madre mi chiese subito perché non avessi annaffiato quella certa pianta. Risposi con la massima serietà e contrizione: credevo che fosse finta. Mia madre mi guardò incredula ma in qualche modo disarmata. Il primo scopo della menzogna – che era quello di arginare la sua aggressività e quello di proteggere la mia pigrizia fu dunque raggiunto. Quel primo scopo aveva a che fare con una – moderatamente onerosa per me – difficoltà ad adattarmi alle richieste esterne.

Esempio 2
Gli anni scorsi – non so se duri ancora – alcuni malviventi facevano a Roma la seguente truffa in genere a danni di persone anziane. Intercettavano la persona anziana, dicevano che dovevano consegnare un computer al figlio, la facevano parlare per avere conferma, al telefonino con uno che si dichiarava il figlio e che avrebbe confermato, e la persona anziana, invariabilmente, dava ai truffatori – che l’accompagnavano anche in macchina in banca o alla posta– una cifra intorno ai 1000 euro.
Il primo scopo naturalmente era quello di estorcere dei soldi a qualcuno che altrimenti non li avrebbe dati.

Esempio 3
Conosco un signore che diceva di avere due bambini gemelli, a proposito dei quali ci aggiornava ogni volta che lo incontravamo. Le malattie, gli studi, i successi, i piccoli problemi. Solo in un secondo momento, ossia dopo molti anni, abbiamo scoperto – da altri – che non aveva manco un figlio. Un esempio simile può essere offerto dalla vicenda di Oscar Giannino, quello che invece aveva raccontato a tutti di avere due lauree quando non ne aveva neanche mezza .
Diversamente dai primi due esempi in cui la menzogna è una funzione variamente sleale dovuta a una pressione del mondo esterno, in questi due secondi esempi la menzogna è una funzione dovuta a delle pressioni del mondo interno, per questo cominciano a esulare dal piano morale (all’epoca io mi schierai dalla parte di Giannino) e cominciano a fare testo sul piano psicopatologico. In questi secondi casi, conta più l’idea che il singolo si fa del mondo esterno e dell’opinione altrui, che la reale opinione altrui. Il mondo è pieno di gente senza figli, per non tacere dei D’Alemi non laureati. Per quanto possano esserci eventuali giudizi di valore negativi, sono sempre mediamente tollerabili e arginabili. E certo incide anche il mondo interno che se deve essere vestito di mitico, deve nella sua realtà essere percepito comunque come povero, e svilito, e poco piacevole. In questo senso, il signore senza figli e Giannino senza lauree, qualora avessero avuto rispettivamente i figli e le lauree probabilmente avrebbero sentito bisogno di mentire su qualcos’altro. E’ la loro qualifica su se stessi che non regge il piano della verità e del potere abnorme che accordano al mondo esterno sul modo di percepirsi.

Non conosco il signore senza figli men che superficialmente, e per quanto riguarda Oscar Giannino manco quello. In clinica però capita moderatamente spesso di incontrare finzioni strutturate e date all’analista, ma anche allo psichiatra e all’infermiere considerate vere e anche pericolose. Sono le organizzazioni di personalità paranoidee e hanno una storia diversa. In questo caso infatti – quando per esempio un paziente comincia a temere cospirazioni contro di lui, dal caso più ambiguo dei cattivi rapporti sul luogo di lavoro, a quello più francamente disfunzionale per cui la persona è convinta di essere osservata da spie, extraterrestri, o nemici presi dalla cronaca o dalla politica, è come se il mondo esterno svanisse e il mondo interno facesse tutto da solo, da soggetto e oggetto, con un teatrino in cui, più il problema è importante anche sul piano cognitivo più quello che viene da fuori diventa labile irrilevante, totalmente codificato da quello che invece si agita dentro. Anche in questo caso però la struttura mitica permette lo sbarramento di un accesso, e svolge forse un ulteriore funzione, perché in un certo senso lo sbarramento è impedito anche a chi di quelle paranoie soffre. La proiezione di persecuzione mitica distoglie lo sguardo dal dolore interno, offre una piattaforma alternativa, una negoziazione artefatta con il dolore, che riesce ad avere il barlume di una funzione omeostatica. Meglio parlare di ufo che di reiterati abusi fisici – per semplificare in modo grossolano.

Ho messo tutte queste possibilità in fila, che non esauriscono l’argomento della menzogna. Perché vedo nella necessità contrattuale della verità la porta di accesso della comunicazione, e che mette in comunicazione mondo esterno e mondo interno in molti caso regolando in modo fisiologicamente sopportabile al soggetto la possibilità di comunicazione. La bugia è sempre adattiva o a un esterno percepito come troppo controllante, intrusivo, richiedente rispetto a una norma interna che non gli è coerente, oppure è funzionale al contrario, al desiderio di colonizzare battere intrudere nel mondo esterno, scavalcando le sue regole. In ogni caso non è mai svuotabile di significato e per questo epistemologicamente si più dire che nelle stanze di analisi strictu senso quasi non esiste.

Si può capire cioè che un paziente decida di mentire, succede frequentemente di fronte a terapie imposte da terzi – per esempio i genitori di un minorenne, o un tribunale di fronte a una coppia litigiosa la cui prole è stata affidata ai servizi sociali. Succede in modo relativamente frequente con pazienti che percepiscono i terapeuti come quello stesso mondo che vogliono impressionare, i genitori che vogliono concupire. E certamente intercettare la menzogna è un passaggio importante anche per disvelare dinamiche di transfert, oltre che per raggiungere più agilmente quel canale di comunicazione.
Allo stesso tempo però, siccome siamo costretti strutturalmente alla comunicazione, non esiste bugia che non porti un messaggio ed è il motivo per cui nelle stanze di analisi si tratta di false bugie. Di narrazioni alternative, come sogni, come racconti, come test proiettivi. Nella bugia si consegna una rappresentazione la cui decodifica è solo più lenta delle altre.

 

 

Lacrime, politica, personale, politico

 

Mi ha colpito la reazione della Meloni alle lacrime della Mogherini, dopo l’attentato di Bruxelles. La Meloni ha infatti criticato il ministro perché con quelle lacrime avrebbe dato un’idea dell’Italia poco forte e responsabile – mollacciona diciamo. E’ un commento che ha suscitato più scandalo di quello che dovrebbe, considerando il personaggio: Meloni è una piccola fascista, giustamente si attiene al suo copione e a quello che in grado di dire coerentemente con le sue premesse: i fascisti dicono cose fasciste– e lo scandalo dovrebbe essere che lei è appunto arruolata a sindaco di Roma, non per quello che ci ha nella pancia che anzi, magari potrebbe contribuire a risolvere il vero problema – che è quello che ci ha nella testa.

 

Mi ha colpito dicevo, perché la sanzione delle lacrime mi ha rimandato ad altre lacrime sanzionate, quella volta da molte più persone e da tantissime a sinistra, ossia le lacrime della allora ministra Fornero che fece una legge sui lavoratori ancora oggi molto discussa. Sulla legge, e in generale sulla sua gestione dei cosiddetti esodati,si parlò moltissimo (allora come oggi io ancora non ho deciso se fece malissimo o se questa congiuntura economica non permetteva alternative, davvero non lo so) ma quando a seguito di una decisione che avrebbe lasciato comunque molti agonizzanti sul terreno, Elsa Fornero  si mise a piangere, l’opinione pubblica si appese alle sue lacrime, e anche la stampa, e la satira, e i commenti di rete che si sprecarono.
Fornero coccodrillo. Fornero ipocrita. Chi ti crede Fornero.

Ora qui io non voglio discutere della buona fede dell’una o dell’altra. Credo che fossero entrambe in buona fede, e che purtroppo questo è forse il grande problema della politica: ci piacerebbe pensare che chi ha il potere prende spesso decisioni che non ci piacciono per cattiveria, perché il buono e il giusto sono una cosa unica sola e facilmente accessibile e invece no, disgraziatamente, un sacco di gente pensa in buona fede delle cose che reputiamo orrende e pensa che il nostro concetto di buono e bello non sia affatto accessibile. Sostenere la buona fede altrui rende la lotta molto più aspra infatti che svilire nel comodo ritratto della cattiveria – e infatti in questo paese alla deriva politica, dominante è la retorica del martirio cittadino e del potere sempre cattivo.

 

Ma la questione che mi ponevo era questa. Donne che vanno in politica e ottengono ruoli di prestigio, possono ogni tanto rivelare comportamenti tipicamente femminili e tutto sommato periferici l’azione politica, come del resto sono periferici le nostre azioni quotidiane. Non so come funziona a casa vostra, ma se io per esempio piango a dirotto perché devo pagare delle bollette, a casa mia è dirimente che io le paghi più che io pianga o meno. Il pianto è una qualifica emotiva privata al tutto legittima e ininfluente l’atto pratico, in cui indulgono più facilmente donne e anche donne pubbliche – ma per quanto si possa sottolineare la cosa, non ha alcun effetto pratico per la cittadinanza. Il terrorismo non lo argini né con i pianti né col sorriso, e anche il problema dei contratti di lavoro, non ci ha queste svolte epocali con il frigno o la risata.

 

Probabilmente la muscolare fratella d’Italia avrà invidiato la sublime occasione squisitamente fascia – terroristi arabi e che c’è di meglio! Forse i terroristi froci? Ma non ne fanno, i terroristi ebrei purtroppo hanno perso il treno – di dire cose come li scannerei uno a uno con le mie mani, tutti al paese loro possibilmente a calci in tutte le zelanti variazioni di una futura madre a cui purtroppo è deficitaria la produzione della prolattina, ma quello che qui interessa è che anche lei ora, come noi allora, e come tutte le volte che stiracchiamo il privato per farlo diventare politico anche quando non è – ecco, e io devo dirlo, qualche volta non è – si appiccicata a qualcosa di flebile per farlo diventare sostanziale.

 

Non è solo colpa della Meloni e non è un problema che riguarda solo le donne in politica, ma certo le riguarda in misura decisamente maggiore di quanto capiti ai loro colleghi uomini. Ma se un tempo si poteva rivoluzionariamente dire che il personale è politico, ora pare che il personale da solo sia l’unico sinonimo di politico, specie quando la politica la fanno le donne, ma bisogna dire non solo, per cui l’emozione vince sul progetto, il privato sul pubblico, la coerenza sulla qualità delle idee, i piccoli segnali di un presunto interno sulle cose pronunciate e decise all’esterno. Fino a contraddizioni macoscopiche che intrattengono l’opinione pubblica più delle cose che realmente la riguardano. La Mogherini accusata di piangere per Bruxelles non va tanto lontano da Casini accusato perché divorziato – e forse, in tempi più recenti la colpa di Nichi Vendola di aver avuto un figlio tramite utero in affitto. Ma rispetto a questi altri, abbiamo anche una lunga storia di donne in politica il cui operato non è mai valutato e preso in considerazione dai detrattori, ma viene invece sostituito da oggetti periferici appunto privati: come si vestono, che scarpe comprano, se sono dotate di mariti o meno, se sono belle o brutte. Dunque,  la retorica sulle lacrime della Mogherini, al di la del profumo fascista dell’estetica di fondo è, l’ennesimo segnale della nostra povertà politica e di un certo orientamento sessista di sfidare le donne, anche da parte di altre donne.

Storia di un posacenere (a mio padre)

Solo raramente ci sedevamo in un bar o in un caffè – e quella rarità per me non era oggetto di interrogativi, ma un ordine naturale delle cose, un dover essere scritto, una regola sancita. Sedersi nei caffè implicava un costo aggiuntivo che non aveva ragione di essere, un costo troppo effimero specie per la quotidianità invernale. Il gelato seduti, era per esempio una prassi tipica della villeggiatura, una cosa agostana da fare rigorosamente abbronzati e all’aperto con tante altre persone da vedere solo l’estate e con cui ridere nel tardo pomeriggio. 

Tuttavia, pure se avevamo il cappotto ed eravamo solo in tre, quella volta prendemmo posto.
Doveva essere stato per un’atmosfera di levità che circolava in famiglia, un senso di unione casuale che doveva essersi materializzato poco prima- magari cantando una canzone, magari ridendo di qualcosa tutt’insieme, doveva esserci stata una folata di lessico familiare.
Ci sedemmo dunque. Il bar era grande, elegante e pieno di specchi, e aveva le tazzine e i posaceneri orlati di oro e merletti, luccicavano i bottoni dei camerieri e gli ottoni delle vetrine, e c’erano rustici di una perfezione nobiliare, pizzette dai colori struggenti, io avevo otto anni e mi ricordo ancora il senso di divertimento, la goduria dell’insolito. Forse avrò preso una cioccolata calda, forse delle paste.
I miei genitori presero un caffè.
E tutti i tavoli, tantissimi tavoli per tantissime stanze mi sembrò, avevano un posacenere orlato di oro e merletto con il nome del bar scritto dentro, in corsivo, e sia io che mia madre li trovavamo bellissimi – anzi, li guardavamo con improvvida e garibaldina lussuria. Perché per la verità, specialmente al mare in agosto, ogni tanto ci piaceva portarceli via i posacenere dei bar, o anche che ne so, un cucchiaino, o il piattino di una tazzina. E io adoravo questa cosa di mia madre. Perché era come se tornasse bambina, come se coltivasse qualcosa di anarchico di disubbediente, qualcosa di quando era come me. Mia mamma rubava i posaceneri in un teatrino che era un po’ per me un po’ per se, roteando gli occhi come se fosse un fumetto, ammiccando ai camerieri spesso impassibili, e i proprietari dei bar erano come i nostri genitori. 

Tornavamo a casa, e per un po’ il nuovo posacenere troneggiava nel mezzo del salotto come se fosse il più prestigioso dei pezzi di antiquariato. Poi piano piano perdeva rango, di lavaggio in lavaggio scivolava fuori dalla stanza, prima indugiava nel limbo dell’ingresso, poi caracollava fino al mobile del corridoio, fino a venire archiviato in cucina, alle volte nell’indecorosa funzione della scodella per gatti. E mi credevo che mio padre non sapesse niente. Mi credevo che per lui questi piattini spurii, isolati che fiorivano negli armadi come margherite nelle aiuole fossero un esito delle stagioni domestiche, il flusso delle stoviglie che gira sui tavoli, che entra dai negozi e dai regali, mi credevo che mio padre non li vedesse questi piattini, come non vedesse il resto, per via della priorità che sempre sembrava avere per lui, un suo mondo personale lontano inaccessibile e molto meno prosaico del nostro. 

E allora quella volta, mia madre anche rubò per me e per se il posacenere del bar di lusso, e forse un cameriere la vide da uno degli specchi perché sembrò fissarla con particolare riprovazione, se non sdegno, e questo contribuì moltissimo al nostro divertimento, diede un tono spregiudicato, sancì in maniera incontrovertibile il sapore della malafatta e solo per quello credo che ne avremmo rubati almeno altri dieci, se solo ne avessimo avuto la possibilità. All’uscita dal bar ridevamo contente, anche se lei era forse un po’ nervosa, e io mi misi a frugarle nella borsa per tirare fuori la preda e mostrarla a mio padre. E mi ricordo che era sera, forse si era proprio nei giorni di natale, la vecchia piazza romana era piena di luci, io saltavo come un grillo e mia madre cercava di zittirmi imbarazzata.
Invano.

Papà guarda!
E mio padre guardò, e invece di essere contento e ridere con noi, non fu contento affatto e disse con una severità che non gli avrei incontrato una seconda volta. Vergognatevi, non si fa. Ma papà è solo un posacenere, ne hanno un sacco. Vergognatevi non si fa. Ma papà ne rompono uno al giorno. Ladre, siete delle ladre, vergognatevi. E non disse altro. E noi continuammo a essere contente per un po’ anche se ci vergognavamo del fatto di essere contente. Cercavamo di far finta di essere serie, e non tirammo fuori il posacenere dalla borsa, e a casa il posacenere andò subito in cucina, senza neanche un giorno di gloria vicino al vaso dei fiori freschi. E quello fu l’ultimo dei nostri posaceneri. 

(Ha sempre avuto un senso del giusto e dell’ingiusto quasi giusnaturalista, senza alibi di differenza di classe, di privilegio o assenza di privilegio. Mia madre è sempre stata più edonista e liquida di lui, e si perdonava peccati veniali per la consapevolezza, a ragione direi, di una solida etica di fondo. Forse si perdonava, questo a torto, anche se suo malgrado senza saperlo, perché si sentiva protetta da una appartenenza di classe – senza quel bel cappotto la marachella non era più una marachella, e il cameriere l’avrebbe rincorsa. E infine per quanto in una forma piuttosto disgraziata, mia madre aveva un codice familiare da sfidare, una lotta edipica da consumare.
Mio padre, non ha mai concepito queste distinzioni, non c’è alibi, non c’è scala, non c’è sfumatura. L’etica è un salto da fare a piedi uniti. E infine, figlio di suicida, non ha mai avuto niente da dissacrare, perchè per lui tutto è stato sempre troppo sacro.

Ma quello fu il mio ingresso nei dieci comandamenti, e gliene sono grata).

Interventi tempestivi

 

Ogni volta che l’opinione pubblica è scossa da un terribile fatto di cronaca, che nella stragrande maggioranza dei casi ha in seno le stimmate della diagnosi psichiatrica, ci si chiede che cosa si possa fare in termini di prevenzione. Ci si chiede che cosa è in nostro potere per evitare che delle tragedie si replichino. Ora, per quanto io sia segretamente portata a pensare a una sorta di necessità del male nella logica delle relazioni, una sorta di costante negativa funzionale alle variabilità dei rapporti e alla libertà di identità e di espressione – non posso che condividere desiderio di prevenzione e spesso ho parlato degli interventi sociali ed economici che potrebbero essere attuati per evitare l’emergere di quelle patologie che presiedono successivamente a comportamenti criminali.
E’ comunque un’impresa titanica – per la quantità di variabili che determinano la strutturazione della personalità di ognuno e l’impossibilità di poter contare su una matematica certa del determinismo psichico per cui, fai così ora dopo andrà sicuramente in un certo modo.

Tuttavia, proprio in questi giorni, mi sono ritrovata a riflettere sul gran numero di situazioni sintomatiche che a un’analisi attenta e con un po’ di preparazione psicologica, potrebbero essere rilevate come preoccupanti e anomale e invece ciò non succede perché i comportamenti sintomatici vengono confusi con comportamenti congrui secondo le aspettative sociali. Qualche volta arriva un blando sospetto, ma il timore di quel qualcosa di oscuro che si associa al disturbo di ordine psicologico o psichiatrico addirittura, fa stiracchiare l’aspettativa sociale, fa mentire in un’organizzazione forzata delle cose. E questo è un errore che costa molto, perché le psicopatologie quando si prendono subito possono essere non dico fermate, anche se si qualche volta anche si, ma perlomeno arginate, o portate in direzioni più gestibili e sintoniche per l’io. Trattate precocemente non cronicizzeranno ecco e diventano meno terribili.

Un esempio.
Conoscevo di una donna che viveva in un piccolo centro in campagna. Mestiere casalinga. A un certo punto, di punto in bianco si sostenne, la donna ebbe dei deliri persecutori. Un giorno disse che c’erano gli ufo, che i marziani volevano entrare dentro casa e farle del male. Uscì scappando e fu molto difficile farla tornare indietro perché era terrorizzata. Soltanto in quell’occasione la famiglia prese atto di un malessere grave e si trovo costretta a chiedere aiuto. Fui molto colpita da questa vicenda – certo può capitare che improvvisi mutamenti di processi logici possono avvenire per cause organiche, tumori, malattie biologiche, ma raramente comportamenti così esplodono senza nessun segno prodromico, senza un crescendo pregresso. Più probabile invece che, in un contesto rurale a scarsa alfabetizzazione, preoccupazioni, comportamenti depressivi, processi logici incongrui non siano stati notati anche per una bassa aspettativa di prestazione logica correlata al genere. E’ donna, moglie, casalinga, non tanto istruita ma che te voi aspettà.

Questo è un tranello esemplare che può aiutarci a considerare una cosa utile per avere una reazione vigile: l’essere umano sa essere molto mutevole e adattivo rispetto al suo ambiente: queste capacità lo rendono la specie vincente su tutte le altre. Quando ci sono cambiamenti nel suo ambiente l’umano funzionante li coglie e li usa. E quindi siccome anche in una zona rurale e poco alfabetizzata arriva quel tanto di mass media di televisione e stampa e radio e oggi internet – da modificare le risorse cognitive a disposizione a mettere le persone in un grado di sofisticazione intellettuale più alto di competenze razionali etc. quando in una donna si vede un comportamento cognitivo impoverito – che spesso prelude all’esordio della schizofrenia – o ossessivamente reiterato, con ragionamenti sottilmente incongrui rispetto al contesto, preoccupazioni che non modificano, è utile rivolgersi a qualcuno anche perché la qualità della vita di quella persona si sta compromettendo. Qualcosa non sta andando per il verso giusto.
Le aspettative sociali alle volte coincidono in maniera curiosa con certi comportamenti sintomatici impedendo a chi li osserva di coglierli per quello che sono.

La differenza tra un sintomo e un comportamento elettivo è che il sintomo è in un certo senso coatto. Sembra che una persona stia facendo una cosa perché la vuole fare, ma in realtà non è in grado di farne un’altra e spesso sa fare solo quella. In generale la psicopatologia corrisponde a una riduzione della libertà per cui le persone hanno una tendenza a dire cose diverse facendo sempre le stesse cose. In questo senso, a fronte di molte diagnosi importanti, Tolstoj aveva drammaticamente torto: la sofferenza non è così esageratamente variegata ma più aumenta e più converge in un vertice di banalità. Quel che rende le famiglie diverse ognuna a modo suo è dunque il margine di felicità e di possibilità evolutiva – la risorsa soggettiva che fa reinterpretare il malessere. Quindi una seconda cosa da tenere a mente per farsi venire un sospetto è l’osservazione di una scarsa flessibilità nel comportamento– anche se congrua socialmente.

E’ la questione per esempio dei disturbi da ADHD, il disturbo da deficit dell’attenzione e iperattività. Questo disturbo quando è grave è molto penoso per i bambini perché impedisce loro di portare a termine qualsiasi attività sia di lavoro che di gioco e anche di relazione. Non è semplicemente e soltanto il non riuscire a stare seduti su una sedia quando c’è da fare qualcosa di noioso, ma anche il non riuscire a coordinare le regole di uno sport con dei compagni. E’ quindi davvero penoso e sintomo di una depressione grave che sta emergendo. Spesso però si tarda a diagnosticarlo perché si ritiene che i bambini si sa sono rumorosi, capricciosi, discoli e si spera di sovrapporre il sintomo all’aspettativa sociale. Ma non è vero.
Un bambino vivace sa fermarsi quando gli conviene.

Anche altre sintomatologie piuttosto allarmanti rimangono non viste per un’idea confusa di infanzia o preadolescenza. Se si vedono dei bambini comportarsi reiteratamente in modo sadico contro un animale per esempio, facendo delle torture o quant’altro, c’è obbiettivamente qualcosa che non va: c’è ossia una dimensione sadica e persecutoria che viene attualizzata e va vista tempestivamente. A livelli più gravi quando forme di bullismo, che già di per se è un buon catalizzatore di diagnosi in che lo pratica come in chi ne è oggetto, degenerano in aggressioni fisiche, torture e quant’altro è un altro vistoso campanello di allarme che chiede la consultazione.
E cosa forse non tanto ovvia, chiede la consultazione per la vittima. Non tanto perché come si crede, è provata psicologicamente dall’aggressione dei compagni, che è sicuramente vero. Ma perché ci deve essere qualcosa nella sua organizzazione interna, nell’uso che fa di comportamenti e proiezioni a fare in modo che si costelli esattamente in quella posizione e finisca esattamente a essere vittima di quelle dinamiche. Questa cosa rientra nel concetto di vittimologia, ma insomma ci sono situazioni e assetti psicologici che portano le persone a essere vittime di abusi più frequentemente di altre. Quindi più che cambiare scuola, e pensare a società persecutoria disvalori e quant’altro quando un figlio è vittima dei giochi sociali ha un problema doloroso da risolvere.

Un ultimo esempio che posso fare, riguarda le aspettative di angoscia e malessere che socialmente sono associate all’idea di adolescenza e in genere giovinezza, per cui si associa a una fisiologica insoddisfazione e irrequietezza quelli che invece sono i prodromi di un disturbo di personalità franco e in qualche caso pericoloso o quanto meno i segnali di una depressione clinica diversa dal normale trambusto adolescenziale – che si fa fatica a gestire. Se si osserva un adolescente per esempio procurarsi dei tagli, farsi del male, porsi reiteratamente in condizioni di pericolo, assumere le movenze di una sorta di comportamento estremamente provocatorio che ha un che di sinistro disperato angosciato – e qualche volta si mischia con una incertezza rispetto alla propria identità di genere quella è una situazione clinica di grande disagio, che l’adolescenza potenzia, ma che da essa è distinta. Il comportamento provocatorio e pericoloso per se è un modo parossistico sia di sentirsi vivi e contattarsi quando solitamente si ha l’impressione di non riuscirci, sia una ricerca di limite e di attenzione che magari stentano ad arrivare.
Questi sono solo alcuni esempi, e volendo ci possiamo ritornare o trovarne altri. Credo però che la capacità di cogliere il momento di disagio sia importante, e che questa capacità vada potenziata elaborando e disabilitando invece le istanze emotive e narcisistiche che ci tengono lontano da una presa di coscienza di un problema. Per un partner, per un genitore considerare che una persona amata e vicina abbia bisogno di un intervento specialistico può essere un problema. Questo problema apparentemente assume contorni altruistici o concreti: perché far sentire non normale la persona da noi amata? Perché mettere in discussione le sue scelte di comportamento? A ruota si diceva materiali: perché imbarcarsi nell’impresa di cercare uno specialista, seguire una terapia e quindi spendere tanti soldi e tanto tempo?
Spesso e volentieri però c’è ben altro. Se la persona con cui noi siamo in relazione ha bisogno di un intervento specialistico che lo metta in discussione, si dovrà mettere in discussione la nostra relazione, e indirettamente sul tavolo delle trattative ci finiremo noi stessi, e i nostri sogni desideri e valori. Se la nostra relazione va in terapia ci si trova a sospettare che la nostra capacità di coltivare i nostri sogni e desideri e modi di stare con l’altro e in generale di edificare la vita non siano efficaci, utili buoni. Per cui un familiare in terapia sembra la prova ultima di un fallimento esistenziale.

Ora aldilà delle considerazioni che si devono fare sull’utilità di un intervento tempestivo piuttosto che tardivo, soprattutto per i figli – che un clinico mi diceva, sai sono come le piante, prima intervieni più facilmente crescono dritte – forse un buon puntello narcisistico lo può dare proprio una sorta di orgoglio, che secondo me è giusto e legittimo e che spesso ho trovato negli occhi di molti pazienti a terapia avanzata e a fine terapia. Quella cosa li di dire: io cavolo io sono forte perché io, mi ci sono messo sul tavolo operatorio a vedermi da solo le parti più brutte delle mie viscere e a cercare di rimetterle apposto, quindi non mi potete dire niente, perché io ho fatto questa prova e ho vinto. E’ cioè difficile da anticipare, ma il senso di coerenza, di forza, di aver fatto la cosa giusta, anche di coraggio, che può dare questo tipo di percorso non è da sottovalutare. E ha una sua verità perché davvero spesso e volentieri la terapia fa riscoprire risorse che non si credevano di avere.

 

Figlio mio, diventerai quello che vuoi

 

Recentemente su il Post è stato pubblicato questo articolo, molto interessante,  di una psicologa americana Erica Reischer, sull’abitudine diffusa in questo momento storico, e soprattutto nel suo contesto culturale, di dire ai figli che – qualsiasi cosa volessero fare della propria vita l’avrebbero ottenuta. Trovo utile parlare di quell’articolo non tanto per come affronta il tema trattato quanto perché sia i nuclei problematici che individua, che i valori che presuppone, sono così fortemente legati al contesto di appartenenza da rendere quelle considerazioni incongrue per il nostro. Il che ci può far riflettere sia su alcune caratteristiche del nostro mondo culturale, che sulle soluzioni ai problemi sociali e psicologici del nostro contesto che a un livello superiore e più vasto sulla relazione tra psicologia e contesti sociali, così come infine, sulla possibilità di far emergere delle categorie trasversali abbastanza raffinate da essere applicate a qualsiasi contesto.

Il tema dell’articolo è la promessa di successo in qualsiasi campo lo si desideri che secondo l’autrice sarebbe l’ingrediente saliente della pedagogia culturale americana. Sii quello che vuoi basta volerlo! Pare si dica ogni piè sospinto in America– partendo dai libri per bambini, passando per le retoriche dei genitori, e andando avanti nella carriera scolastica. Se non che avverte Erica Reischer a questa pedagogia dell’ambizione sul desiderio si correlano molte ansie da prestazione per un verso, la ricerca di comportamenti anche scorretti per primeggiare, e si portano gli sventurati figli di fronte a cocenti frustrazioni perché no, non sempre si diventa ciò che si desidera e nella retorica della concretizzazione del desiderio non si iscrive mai l’importante contributo del caso. La verità è che se nel destino dell’attrice Lane non fosse capitato il noto talent scout la nota attrice Lane, non sarebbe diventata la nota attrice Lane.
Reischer  concludeva dunque, che forse queste retoriche sono ricettacolo delle proiezioni, e aspirazioni genitoriali e che forse i genitori dovrebbero applicarsi a contenerle.
In un contesto statunitense la preoccupazione della collega ha un parziale fondamento. La logica della concorrenza e della reificazione del desiderio di se, è un mito culturale e fondativo degli Stati Uniti. Il concetto di Self Made Man è una cosa che viene dalla loro storia politica e sociale e permea la loro quotidianità, questo concetto ha adesso nel corpo del primo presidente Usa di colore una iconografia simbolica entusiasmante. Magari si va affievolendo ma di fatto anche la privatizzazione di qualsiasi servizio e il porto d’armi insomma tutto confluisce in una norma culturale della concorrenza come luogo psichico dell’affermazione di se così potente da poter diventare persecutorio.
Tuttavia anche l’autrice dell’articolo condivideva con il suo contesto alcuni misunderstanding fondamentalmente nevrotizzanti, perché se lo si legge bene esso assume e confonde in un solo termine: essere quello che vuoi con l’essere ricco e famoso in quella certa categoria rispetto agli altri. Per l’autrice dell’articolo uno che sogna di diventare che ne so attore, sogna di diventare Robert De Niro se no non vale. L’essere quello che si desidera è confuso con l’avere il massimo successo in quella certa professione. E credo che questo sia un bias culturale che anche occhi di ricercatori statunitensi avrebbero individuato e suggerito di scorporare. Ad ogni modo a un’italiana questo bias sarebbe saltato all’occhio perché dobbiamo dire, nella curiosa mescolanza nostrana che unisce in un mix irripetibile società arcaica e rurale con capitalismo relativamente avanzato, la retorica del vinci a tutti costi è assolutamente estranea.

Noi non abbiamo affatto un problema di pressione delle aspettative genitoriali, men che mai di gente che fa comportamenti disonesti in virtù della cocente ambizione.  Noi abbiamo il diffuso problema opposto di una bassissima aspettativa genitoriale, di una sostanziale incapacità di porsi come sanzionante, e se abbiamo – come abbiamo – un problema con eventuali comportamenti illeciti è per un’infiltrazione diffusa dell’illecito nell’orizzonte culturale più che per un raggiungimento disonesto delle aspettative culturali, che sentono a mala pena i figli di alcune e solo alcune ristrette fasce della borghesia. Il tema di diventerai quello che vuoi si mischia con una pedagogia che poco aiuta – mi sa qui per un verso li per un altro e si scontra con una crisi economica che già non aiuta nessuno, figurati se solleva dalla frustrazione una generazione a cui non è stata insegnata né la sanzione né l’affetto per i propri desideri.

Come clinico, io conosco sia la percezione drammatica del carico di aspettative narcisistiche sulla testa dei bambini, che la collusione culturale italiana che sembra non avere mai grande aspettative, fino al caso desolato opposto, di quei poveri figli che non hanno l’occhio di nessuno a desiderare per loro. L’amore passa tramite un combattuto narcisismo, una proiezione di realizzazione e di felicità estare senza quella proiezione e in un certo senso senza quella lotta secondo me è ancor più devastante che soffrirne troppo. Io, come chiunque faccia il mio mestiere più di molti altri, ho realizzato un mio desiderio anche piuttosto costoso in termini di tempo, denaro e risorse emotive. Non credo che quindi sia mai lecito nella nostra posizione andare in giro sanzionando il desiderio di incarnare un progetto di se esattamente come è riuscito a noi, nel momento in cui almeno si sta scrivendo e rampognando (facciamo i debiti scongiuri). E credo che invece il concetto di realizzazione di se, il capire esattamente come sarebbe la nostra vita facendoci stare più a nostro agio con quello che facciamo, sia un concetto importante un obbiettivo prioritario – che però non deve implicare necessariamente l’eccellenza nella carriera, ma il fare quello che si vuole. Che può essere l’orologiaio, il meccanico, lo studioso di questo o di quello. Successo e oggetto in cui il successo si consegue sono questioni diverse. E forse, insistere sulla disciplina per conseguire uno scopo è davvero ancora molto importante. Ma questo passa anche dalla generosa capacità dei genitori di sopportare di rimproverare l’assenza di impegno per qualcosa, e la capacità di saper far arrivare l’idea che ti dispiace per lui, elaborando il problema per cui in parte ti dispiace anche per te. Non vuol dire incoraggiare per forza il successo, vuol dire incoraggiare l’individuazione. E credo che davvero il concetto di individuazione possa essere una variabile importante a qualsiasi latitudine.

(Dopo tutto ciò si dirà, arriverà la mazzata di un contesto economico che non perdona, e che rende difficile concretizzazioni di progetti di diverso tipo. Ma questa è un’altra rubrica di problemi reali e concreti, che però non deve essere usata autolesionisticamente, come capro espiatorio della mancata fedeltà a se stessi. Perché c’è anche da dire: noi siamo un solo desiderio? Siamo sicuri che non c’è qualche desiderio di minoranza che non abbiamo ascoltato e sia più attuabile?)

Note molto spontanee e poco ponderate

 

E’ innegabile lo charme quasi erotizzante che esercitano gli orrori di cronaca nell’opinione pubblica. La capacità del mostruoso di attrarre attenzione ed energie. Il malvagio emana un effetto magico, che mischia una sorta di curiosità del mistero al rito apotropaico della sua frettolosa spiegazione. Inoltre, in questo momento storico, con l’uso che possiamo fare di internet e il flusso abnorme di informazioni che garantisce – soprattutto proprio soprattutto nel privato, l’area d’eccellenza della cronaca nera – queste nostre pulsioni sono più che mai saturate: si trovano foto di morti ancora vivi, di assassini non ancora assassini, si pilucca in profili facebook e in diaristiche twitter, si guarda l’abnorme da vicino in un rimescolio di sentimenti contrapposti.
Qualora non ci fosse internet, c’è sempre Bruno Vespa, che della perversione ha fatto una professione, e ad usare l’altro come mezzo anziché come fine ci si è addestrato da tempo – per cui, in barba a qualsiasi deontologia professionale e etica dell’umano, ti intervista il padre del reo confesso in prima serata – gettandolo nelle avide fauci dell’opinione pubblica – la quale titillata quanto disorientata da tanta efferatezza ha potuto dire: ah padre spudorato e cattivo! Ah come figlio modello uno che fa una cosa del genere.
La vicenda, per chi non lo sapesse è la seguente. Due giovani uomini sui trenta, Foffo e Prato concepiscono l’idea di vedere cosa si prova ad ammazzare una persona e, dopo una due giorni di alcool e cocaina, riescono ad attirare nell’appartamento in cui sono insieme un giovane di ventitré anni Luca Varani,   con la promessa di pochi soldi in cambio di un rapporto sessuale. Dopo poco il suo arrivo, Luca verrà lungamente martoriato e gravemente torturato, e alla fine verrà ucciso. Foffo confesserà di li a poco, tentando anche il suicidio, ma parrebbe che ora lui e il suo complice si dichiarino disposti a collaborare con le forze dell’ordine.

La questione che aggancia e titilla e avvinghia, anche a me che ne sto scrivendo, non è tanto l’omicidio, concetto a cui in questi tempi atroci siamo più abituati di quanto vorremmo, e forse persino l’idea dell’omicidio tanto per vedere com’è, è un’idea a cui siamo stati già esposti da certe estetiche e certe retoriche, per quanto infernali, cupe o di stampo gotico. Non è proprio cosa nuovissima. La cosa che aggancia è: due persone giovani che ne prendono una più giovane e le fanno male reiteratamente per ore. Molto male. La cosa che lascia spiazzati è una sorta di fenomenologia del sadismo e del cannibalismo. Perché diciamoci la verità: a Foffo e Prato non interessava tanto sapere com’è ammazzare uno, ma com’è fargli del male fisicamente. Com’è usurparlo del corpo pezzo a pezzo. Incorprorarselo: a noi, giustamente, ci sciocca quella che almeno a me pare una forma upper class di cannibalismo.

Per cui si tenta l’intentabile mettendo in causa le spiegazioni più ridicole. Dai giovani d’oggi privi di valori viziati e pieni di lussi, a quelle che riguardano sempre i suddetti giovani d’oggi privi di senso di responsabilità, fino alla frontiera opposta del degrado, per non tacere dell’abuso di una psicologia spicciola e dozzinale su presunte carenze familiari – certo con un padre così.
Oppure, altra difesa antitetica altrettanto umanamente comprensibile purchè contenuta si cede alla manfrina: de il male c’è sempre stato, ci sono le cose brutte no? Ecco questa è una cosa brutta non ci mettere mano.

Tutte queste cose sono legittime, l’emotivo è legittimo e io credo anche il desiderio di puntellare subito una cosa orribile in un orizzonte di senso. E io credo che oltre che orribile sia anche necessario chiamare l’orrore con il suo nome, che si chiami Foffo oggi, che si chiami Izzo o Ghira ieri. Ma una volta che abbiamo dato sfogo a questi nostri obblighi e doveri psichici, non possiamo tirarci indietro dalla necessità di sopportare che queste cose esistono e bisognerebbe capire perché esistono. Ma capire perché esistono e prevenirle è un’impresa molto lunga e complicata, che non possiamo portare avanti su due piedi, né posso farlo io in questa sede, senza aver avuto la possibilità di conoscere direttamente e a lungo nessuno dei protagonisti della vicenda e senza che per altro ancora esista una cosiddetta verità processuale.
In ogni caso, anche assumendo che la confessione di cui disponiamo si avvicini già molto alla verità processuale ci sono delle cose che in questi ambiti occorre tenere a mente.
Una cosa così titanicamente abnorme come efferatezza – specie in considerazione del nostro contesto culturale – non è ascrivibile alle mere cause sociali: quando le cause sociali producono effetti sulle psicologie individuali, questi effetti sono più frequenti, le psicologie si muovono in parallelo e certe prassi diventano più diffuse – vedi la moda di ammazzare le persone tirando sassi dal cavalcavia. Ma anche quando questo succede non dobbiamo pensare mai a un potere totale del contesto: le psicologie individuali scelgono un certo sintomo in virtù di un assetto interno particolare, il sintomo culturale è il guanto della taglia di una mano.
Non è niente che sia – almeno in questa causalità diretta, capace di produrre tout court una mano.

Anche la teoria della qualità genitoriale della famiglia di appartenenza di un criminale va saputa maneggiare, anche se può avere del vero, perché l’inadeguatezza della capacità genitoriale può essere – purtroppo – qualcosa di ben più sottile delle macro categorie che siamo abituati a utilizzare nel nostro quotidiano. Non è semplicemente mamma cattiva o babbo cattivo, alcolizzati e depressi. Sono cose che possono essere molto più impercettibili a occhio nudo – magari coperte da comportamenti sociali che si giudicano congrui. Inoltre non bisogna affatto sottovalutare una radice biologica segreta. Ogni clinico si confronta per esempio con l’esperienza di pazienti che a fronte di una famiglia moderatamente disfunzionale vivono forme di malessere molto paralizzanti nel quotidiano e invece persone che vengono da contestualità ai limiti dell’apocalisse, sono tutto sommato anche se certo con delle difficoltà capaci di andare in giro nel mondo.

 

Proprio in virtù di queste cose sottili e segrete non è davvero possibile offrire spiegazioni esaustive del comportamento di questi due e tutto sommato di un terzo che si è ficcato in questa terribile tragedia. Si possono avanzare delle ipotesi – io tendo a guardare con le molle per esempio questa speranza collettiva di individuare nel tipo di droga un ulteriore capro espiatorio – ma queste ipotesi non possono andare molto avanti senza un approfondimento diretto con le persone incriminate. Mi è solo molto dispiaciuto per questo giovane e molto fragile, e credo non casualmente attraente per la sua fragilità. Ho lo confesso una fantasia di stampo psicoanalitico dietro a questa vicenda terribile: mi sembra che si sia violentato un giovane in quanto giovane, in quanto indeterminato, in quanto confuso, in quanto perseguibile. Colpito proprio perchè il fatto stesso di ficcarsi in quel guaio era parte della sua personalità ci vedo appunto delle fantasie di incorporazione. Ma sono congetture mie che non possono prendere molto spazio, e che non hanno molto materiale non sapendo io niente della famiglia di appartenenza.
Tuttavia ecco, indagini in quella direzione andrebbero comunque fatte: al di la della sanzione non dovremmo perderci il dovere della prevenzione.

uomini violenti: appunti

 

 

(Concepisco l’8 marzo, come il giorno della memoria, o altri tristi anniversari anche eventualmente non istituzionalizzati, ricorrenze di ordine politico pedagogico. Che possono servire a fornire un’occasione esplicita per fare il punto della situazione di qualcosa che non va come vorremmo. Per questo oggi, delle tante cose di cui si potrebbe parlare, metto insieme alcune riflessioni di cui ho già parlato in passato riguardo la violenza di genere, la quale vedo è già passata in seconda battuta rispetto agli onori del dibattito pubblico e delle cronache. Per i vecchi lettori ci potrebbero essere ben poche novità, salvo qualche nuova sfumatura aggiunta dalla mia esperienza con pazienti nell’area della violenza di genere più recente. )

Quando si parla di violenza di genere io noto la presenta di un’ellisse argomentativa, i cui due fuochi sono la spiegazione antropologica e quella psichiatrica. Un uomo uccide una donna, oppure le fa molto male, reiteratamente, oppure si esprime in modalità molto aggressive incongrue per qualsiasi contesto, e si decide che questo è dovuto o a una sua partecipazione a un sistema culturale sessista o invece a un suo problema di ordine biologico e appunto psichiatrico. I due poli dell’ellisse nell’opinione pubblica combaciano il primo con un estremo atto di accusa: perché l’uomo fa questa cosa con cattiveria e aderendo a quelle parti del sistema culturale che si vorrebbero vedere cambiate ed evolute, il secondo come un estremo atto di giustificazione perché l’uomo farebbe questa cosa in preda a forze nn corrispondenti alla sua identità nello stato vigile, in preda a un’alterazione biologica senza alcuna relazione con un sistema culturale involuto la cui nocività non viene particolarmente presa in considerazione.
In un certo senso, sono vere entrambe le prospettive. In un altro sono false entrambe. In alcune circostanze prevale il primo tipo, in molti altri il secondo.

Per capire bene di cosa parliamo, è bene ricordare la distinzione tra maschilismo e misoginia. Il maschilismo è un’organizzazione politica dei rapporti tra i generi, che prevede una maggior quota di potere per il maschio – il cui esercizio riguarda la sfera pubblica e una minore quota per le donne – il cui esercizio riguarda la sfera privata. Tanto più una società è maschilista tanto più la quota di pubblico rosicchierà il dominio privato – decurtando potere decisionale alle donne per esempio sul loro privato o su cosa devono fare per dire con i bambini o nel loro spazio. Questo però non ha a che fare con la misoginia e non implica necessariamente malessere e violenza di genere. Questo è semplicemente un modo politico di gestire la vita di un gruppo culturale. A cui ci si può giustamente opporre.

La misoginia è invece quella variabile emotiva – perché la parola richiama l’odio – correlata al genere – quindi alle questioni specifiche del genere. La misoginia odia il femminile in virtù del suo più specifico esercizio, la qualità di piacere e di sedurre, la libertà di essere titolari di quel potere, la titolarità primaria della capacità di generare, la profonda relazione di dipendenza che è in grado di generare e che può far disperare. La misoginia è un’acuta condizione di sofferenza correlata a vicende endopsichiche remote, per gestire la quale si scivola nell’agito. In un’azione di scarica.
La parola, l’atto, l’azione patologica, la costellazione patologica, la vita patologica.

Ci sono purtroppo diverse culture in cui la misoginia diventa un oggetto condiviso e culturalizzato. Non ne voglio parlare perché non ho le competenze antropologiche per farlo. Ho delle mie teorie e congetture che avrebbero bisogno di approfondimenti più seri sul perché società in cui il femminicidio è un crimine diffuso in maniera molto più pervasiva che in Europa o Usa e Canada siano società che hanno a che fare con una grave povertà e una territorialità avara di risorse. La terra è una proiezione del materno, sono luoghi dove le madri allattano fino a 4 anni per non far morire i bambini di fame, luoghi dove il materno si sovrappone semanticamente alla vita e in cui sopravvivere è arduo e si è alla merce di una natura matrigna. Dove quindi i maschi adulti si vendicano sulle loro donne per il potere della vita che gli vedono proiettato addosso e dove alla natura matrigna si sovrappongono sistemi di violenza familiare a loro volta patogeni fino alla produzione di assetti psichiatrici. I maschi che uccidono le donne in questi contesti, o che le colpiscono violentemente, e le maltrattano, sono maschi che sono stati bambini e hanno avuto padri fare lo stello alle madri.

Anche nel nostro paese ci sono aree culturali in cui la misoginia è ancora ampiamente culturalizzata, ma raramente credo arriva a giustificare l’uxoricidio, o l’omicidio della fidanzata, o della ex compagna, dal momento che in generale le conseguenze sono piuttosto antieconomiche. In molti contesti l’aspetto misogino patologico salta all’occhio perché non c’è affatto questa sperata continuità tra sessismo e misoginia, è anzi nelle caratteristiche del nostro contesto culturale è quasi il contrario: il sessismo celebra ciò che la misoginia detesta. Al sessismo che la donna seduca e faccia figli ed esca a divertirsi con le amiche e eserciti il potere nel suo va benone. Qualche volta può arrabbiarsi e fare del sarcasmo quando la donna esrcita o cerca di esercitare un potere fuori dalla cornice semantica tradizionale del suo sesso, ma in generale il reazionario sessista senza psicopatologie gravi non fa una piega: la ignora. Che è senz’altro il problema politico di questo paese quando per esempio organizza convegni ma non invita donne, quando le donne vincono premi ma la stampa se ne frega – ma che sta su un binario separato rispetto ai fatti gravi correlati alla grave violenza di genere.

 

E allora, come funzionano psicologicamente questi uomini? Dov’è l’organizzazione patologica?
Ci sono senza dubbio molte situazioni e storie diverse, e magari la mia esperienza è contenita. Ma ecco.
Nella mia esperienza diretta con uomini che hanno avuto un problema più o meno grave, anche con la giustizia, a causa dei loro comportamenti violenti verso una o più partner io trovo quasi sempre una paradossale idealizzazione interna del femminile, vissuto come potentissimo e minaccioso, rispetto al quale questi uomini si sentono molto dipendenti e inermi. Questa cosa arriva poco allo stato cosciente, anzi essi vi reagiscono come per contrasto – ma arriva molto frequentemente con sogni piuttosto potenti di subalternità, inefficacia, angoscia rispetto a un femminile potentissimo e divorante.
Per avere una chiara idea di quello che può essere l’immaginario psichico di questi uomini, si può per esempio pensare alla Venere in Pelliccia di Polansky: dove una donna superseduttiva controlla e fa oggetto di sadismo un uomo in un complesso gioco di rappresentazioni e incastri, riucendolo all’impotenza.
Ma altra cosa importante, spesso a questo percepito interno di sudditanza psichica di impotenza e di abnorme difficoltà nel gestire un esagerato senso di dipendenza, e quindi a articolarla, corrisponde una variamente consistente capacità di toccare i propri sentimenti, di descriverli, di usare parole precise per parlare di se e di quello che si prova. Alla grave violenza di genere si correla dunque una forma altrettanto grave di alessitimia. Le persone non riescono cioè ad avere un’immagine sofisticata delle proprie dinamiche interne e proiettano tutto quello che hanno dentro sulla donna percepita come cattiva, traditrice, egoista, furba, approfittatrice. In un certo senso, la psicologia di queste persone ha molti punti in comune con la psicologia delle dipendenze e l’atto violento o il pensare violentemente alle donne, è la loro sostanza psicotropa e la loro valvola di scarico. Per cui in terapia parte del lavoro è anche portarli lontani dal sintomo piuttosto che ragionarci su ossessivamente, e conviene comportarsi come con le altre dipendenze, o come con i disturbi alimentari. Ed è molto difficile perché si tratta quasi di un lavoro di alfabetizzazione psicologica. Di appropriazione di un linguaggio interno.
E spesso è ancora più difficile perché questi uomini, specie nel nostro contesto culturale, finiscono spesso per scegliersi partner che colludono con il loro mondo interno e che sono veramente capaci di fare quei comportamenti disonesti, seduttivi, onnipotenti, manipolatori che poi questi partner violenti lamentano. Moltissime sono le coppie in cui la violenza di genere è l’esito di una erotizzazione del conflitto nella coppia, dove magari dopo una lite aggressiva e feroce, persino davanti a bambini, si finisce con l’avere un rapporto sessuale.
Mi devo fermare qui. Ma magari esce fuori qualcosa nei commenti.

Evocazioni psichiche della surrogacy

 

Premessa:
Quando arrivò internet e poi i social, in molti credemmo che fosse arrivata l’epoca delle relazioni finte, tarate sulla simulazione e l’inganno, connotate dalla freddezza della scrittura che diversamente dal linguaggio verbale lascia il tempo di pensare. Ci eravamo sbagliati – perché con la pratica dei social e della scrittura in rete, avremmo poi scoperto che proprio l’assenza di parola e di corpo, incoraggiava una comunicazione molto autentica e poco ponderata, talora maleducata e minacciosa: a voja a netiquette, la parola scritta – come mostrano le sequele di commenti in calce agli articoli dei quotidiani e che paiono deliri, chi scrive su internet non deve più fronteggiare i bastioni dell’organizzazione borghese dei rapporti, e su Facebook dove la gente crede che gli scripta non manent ma volant per miracolo divino, è tutto un profluvio di scambi concitati, di disinvolti proclami, di accidiose recriminazioni, di estenuanti ostinazioni. Quando la questione emotiva pungola insomma, siamo nel regime della libera espressione.
E’ facile allora capire, che la rete e la discussione sui social sugli argomenti che diventano incandescenti siano una vera e propria manna per lo psicologo. Esso può disporre di una mappatura scritta delle spontaneità orali e associative di qualsiasi oggetto culturale, che il contesto vada a promuovere in oggetto simbolico.

A queste cose ho pensato in questi giorni leggendo le spontanee reazioni e contestazioni in merito alla maternità surrogata, e vedendo come tutte le opinioni in campo fossero intrise di ridondanze psichiche senza che fosse palese il punto focale da cui erano generate. Questo punto secondo me è invece molto saliente e riguarda l’immagine interna ad ognuno della relazione tra madre e bambino. In questa sede non voglio quindi parlare della questione in se, o della mia eventuale posizione (piuttosto interdetta e sofferta) ma ragionare intorno a quei retroterra simbolici psichici ed emotivi che presiedono alla strutturazione razionali delle opinioni e in qualche modo indirizzano le formulazioni definitive, quanto meno parzialmente. Prendere atto di queste grandezze simboliche, degli echi interni che producono può aiutare a rendere il dibattito più produttivo e meno sterile.

Per cominciare. Ricordiamoci che siamo sempre nati dal ventre di una madre, e anche noi che parliamo siamo nati da questo ventre. Lo dico non per difendere una posizione tout court ostile alla surrogacy, ma perché la nascita è oltre alla morte il punto dell’ellisse metafisica dentro cui è iscritto il nostro esistere. L’idea di manipolare il primo fuoco dell’ellisse ci risulta come dire, epistemologicamente spaventosa. Ci schiaccia al muro. A voja a dire che sta cambiando il paradigma della famiglia, che potrebbe essere pure vero. Non basta a esaurire il senso di smarrimento che da il giocherellare con questo oggetto che già ci trova inermi e piuttosto effimeri e che è il nostro stare qui. Il primo punto di certe reazioni sulle surrogacy dunque ha qualcosa di biblico e suona più o meno come la voce di Dio che si arrabbia perché si gioca col fuoco.

Il secondo punto dell’aura simbolica del materno è evocato dal fatto che il materno è appannaggio della donna. E’ il corpo della donna che genera e che mantiene questo incredibilmente misconosciuto potere di specie – mai trattato apertis verbis come tale, ma anzi spesso disprezzato, svalutato, irreggimentato – e ricacciato nell’inconscio. E’ lo stesso potere che un tempo veniva iconizzato nelle veneri del paleolitico e che ha suggerito al grande psicoanalista junghiano Eric Neumann il lavoro sull’archetipo della grande madre come struttura psichica che si annida nel pensiero inconscio.
Ed è anche lo stesso potere che ha fatto intuire a una freudiana di prima generazione come Karen Horney il concetto per cui anche gli uomini invidiano la sessualità delle donne, la loro capacità generativa. Se le donne dovevano invidiare il pene per la sua capacità simbolica di incarnare il potere sociale degli uomini, e il loro potere fisico sulle donne, gli uomini dovevano invidiare quel potere di generare. E soffrire per il loro essere dipendenti e subalterni al ventre della donna.
Nell’acrimonia di molti uomini che parlano di surrogacy in un verso o in un altro, rileggo –come fu per l’aborto, le tracce di quella disperata dipendenza a cui si cerca di reagire con il potere che ancora si possiede: legiferiamo, controlliamo, decidiamo, recuperiamo con le norme ciò che sfugge al nostro potere. Ed è una reazione problematica perché mette in campo due diritti psichici che si fa fatica a tenere entrambi sul tavolo: il diritto delle donne ad avere titolarità sul proprio corpo e il diritto degli uomini a poter partecipare al destino del proprio seme. Come era per la questione dell’aborto dunque, non penso che ce la si possa cavare appoggiandosi solo a una delle due polarità.

Ho anche la sensazione che nel modo di concepire la surrogacy di molte donne precipiti la propria esperienza di maternage, qualora siano già madri. Sopravvive in loro il ricordo emotivo della loro gravidanza, di come l’hanno vissuta della loro relazione con il bambino nella pancia, e dei giorni immediatamente successivi. A molte di queste madri, la gravidanza ha fatto toccare la metafisica con un dito, e hanno vissuto come magica e investita simbolicamente quella sequela di esperienze psicofisiche: dalla musica che desta il bambino e lo fa muovere dentro al fatto che appena nato strepiti come un ossesso, quella se lo metta addosso e magicamente si cheti. Questa cosa non riguarda tutte le donne e ce ne sono diverse che figlie di una maternità a sua volta fredda verso questa classe di sentimenti ed esperienze non la riconosce e anzi ne diventa quasi ostile. Dalla mistica della maternità ci si sposta molto facilmente all’odio mistico del materno, al suo disprezzo. Le prime celebrano una relazione e forse in qualche misura ne amplificano la portata, le seconde la sviliscono e l’annullano.
Devo confessare che io tendo ad appartenere alle prime e dopo cinquant’anni e spicci di Threvarten Infant Research esperimenti di psicologia evolutiva e quant’altro sul rapporto tra neonato e madre , non riesco a far a meno che questa sia, al netto dei deliri arcaizzanti e vetero cattolici mi sembra la posizione più vicina alla consapevolezza di cosa c’è in gioco. La relazione cioè esiste.

Ma d’altra parte penso che bisogna trovare il modo di interloquire e di rispettare quelle psicologie che entrano nel dibattito con addosso il lutto di quella esperienza relazionale negata, per le più svariate scelte biografiche. Nelle retrovie dell’inconscio si annida il potere della relazione esistente e negata, e a fronte del dispiacere di non poterla esperire o della rabbia, si è come dire sollevati dalla possibilità della surrogacy, dall’idea della grande importanza che ha per i bambini tutta l’esperienza del quotidiano dopo, l’idea che il desiderio di un figlio e la serenità familiare siano capaci di strutturare in maniera globale e in caso persino cancellare. E’ un’idea balsamica – che ha per altro una sua parziale verità, che io per prima anche da un punto di vista strettamente clinico sarei propensa a sottoscrivere. L’importante io credo è non chiedere a quella capacità ristrutturante di una famiglia funzionante di essere capace di ristrutturare proprio tutto, di coprire la zona d’ombra della relazione generativa.

 

 

Questo per quanto riguarda la relazione madre figlio. Sicuramente poi nel dibattito entrano anche altre variabili e argomentazioni molto importanti – ma non di rado sono subalterne e vincolate a questi aspetti di fondo, strumentali: mi affascina per esempio come l’importante variabile di classe sia usata come grimaldello da entrambe le posizioni, dimostrando ipso facto di non riuscire a essere il vero punto di partenza per un occidente che prima di tutto continua a farsi gli affari suoi: le ostili alla surrogacy usano la classe per dire alle altre che se ne fottono dello sfruttamento del capitalismo biologico sui corpi delle donne indiane, russe e quant’altro. Le fautrici della surrogacy invece rimproverano le altre di non essere sodali con le necessità di sopravvivenza che impone quello stesso capitalismo biologico.
Nel buio della lontananza geografica e psichica, sta il rapporto con il materno di queste donne.