Sullo stalking. Brevemente alcuni punti.

 

Premessa.
Regolarmente la cronaca ci parla di episodi tragici di violenza di genere, che esitano in femminicidio. Meno spesso la cronaca parla dei frequenti casi in cui la violenza di genere esita in un’aggressione fisica anche molto grave, arti rotti, nasi rotti, sfregiamenti del volto o accoltellamenti. In questo post vorrei proporre delle indicazioni generiche, forse ipersemplificate, ma proprio per questo io spero maggiormente fruibili, da utilizzare come dispositivo di partenza per contrastare la violenza di genere, che nasce nelle relazioni violente. Esistono infatti altre forme di violenza contro le donne, ma nel nostro contesto culturale quella che nasce nella coppia patologica è quella più allarmante. Ma ecco, intanto per noi:

1.
Nelle relazioni che esiteranno in un femminicidio almeno uno dei due partner ha un rapporto patologico con la relazione di dipendenza emotiva. Ci potrebbe essere frequentemente una vulnerabilità biologica, ossia una predisposizione psichiatrica, ma questa predisposizione è diventata organizzazione di personalità a causa di una famiglia patogena a sua volta: per esempio perché si nasce in una famiglia dove la violenza di genere era già presente, oppure si è bambini esposti a intollerabili separazioni e frustrazioni precoci, quando ancora il bambino non ha la strumentazione di bordo per reggere la separazione. Un buon consiglio quindi potrebbe essere quello di farsi vedere come coppia genitoriale da uno specialista quando si vede che la genitorialità e la coppia versa in condizioni gravi e pericolose per l’infanzia, ma forse un consiglio migliore e più immediato, è che quando ci si rende conto di essere genitori insufficienti, perché si sta male per esempio, perché si affrontano guai grossi, può essere saggio esporre il bambino o la bambina a delle figure protettive più accessibili ed emotivamente disponibili. In questo senso per me, per questa come per altre questioni di ordine psichiatrico – non si è ancora ben intenso il ruolo essenziale e salvifico di asili nido e scuole dell’infanzia. Se state male, mandate un figlio fuori di casa, prendetevi una pausa giornaliera dal dover essere affettivamente disponibili.

2.
In termini pedagogici insegnare a bambini e bambini un’estetica dell’autonomia relazionale. Compito delicatissimo perché i figli sono programmati per essere oppositivi e quindi bisogna trovare un modo sottile e molto diversificato per ogni famiglia di promuovere l’indipendenza, un’idea di coppia che abbia sempre uno spazio di sicurezza. Se si ha in mente che la coppia è un luogo dove ci deve essere posto per tante cose, la relazione asfittica che poi genera in stalking e violenza viene riconosciuta con più prontezza. Io credo che questo funziona di più se i figli hanno davanti un modello relazionale di moderata autonomia reciproca. Ma parlare di queste cose in modo furbo male non fa.
In ogni caso però non arrabbiarsi, non sanzionare quando questo processo non riuscisse nei ragazzini: prima di tutto perché l’adolescenza è il momento degli eroici furori, e poi perché davvero non serve, e anzi, se ci fosse una propensione peggio ancora.

  1. Le coppie che esitano in un femminicidio hanno in comune una storia di stalking. E si diceva lo stalking ha a che fare, con una patologia della relazione che non tollera l’autonomia, e che quindi brucia le tappe. Predittori dello stalking sono confidenze immediate, regali esagerati, disponibilità di tempo fuori misura, scoraggiamenti dell’autonomia del partner perché mettono in uno stato di angoscia intollerabile. Quando in una relazione si osservano questi comportamenti entrare in risonanza e abbandonare al più presto possibile la relazione. Per semplificare, l’egoismo è umano, l’amore lo converte con un tempo fisiologico e nelle relazioni più fortunate mai del tutto, un uomo che appare subito totalmente dedito, è un uomo che deve immolare se stesso a qualcos’altro, e quando questo qualcos’altro dovesse abbandonarlo, si ritroverà in uno stato di panico intollerabile.

    4.
    Le coppie dove c’è una costante violenza di genere, senza riscatto e senza soluzione di continuità, sono coppie dove c’è un potente incastro di patologie psichiche rinforzato magari da variabili contestuali di patologia sociale. Queste coppie resistono a lungo e non si separano. Non ci saranno omicidi, ma una violenza costante e un’asimmetria come norma.
    Le coppie dove invece c’è stalking sono invece spesso formate da un partner che ha una diagnosi nell’area dei disturbi di personalità e un partner più funzionale che però sta attraversando un periodo di grande difficoltà. Un lutto, un terremoto, un licenziamento, qualcosa che ha tolto le risorse psichiche quotidiane e che fa fare il fraintendimento per cui quel fidanzato che da troppo da quel tanto che fa sentire di nuovo bene, e valida e amata. Poi la donna si riprende torna a essere più autonoma se ne va, e il sistema salta. Fare moltissima attenzione a questa pericolosa retorica psichica del partner che da il nutrimento nel momento di difficoltà. Meglio in questi momenti, attivare le risorse ambientali: amici, parenti, un hobby, un centro di ascolto, tutto tranne che una relazione con un uomo che si pone come madre, perché in realtà è un figlio cronicamente bisognoso, che non permetterà l’allontanamento della sua fonte di sostentamento.

  1. La persona vittima di stalking deve attivare tutte le risorse di cui può disporre, e bisogna darle man forte, perché lo stalking brucia le fonti psichiche e materiali. Devi cambiare lavoro, casa, telefono, abitudini che fortificano e che sostengono molto più di quanto si creda. Una vittima di stalking dovrebbe attivare un supporto psicologico oppure dovrebbe attivare un itinerario di sostegno presso un centro antiviolenza. Questo anche perché, siccome quando il comportamento di stalking si è avviato la psicopatologia è già diventata florida e con connotazioni psichiatriche, e quindi piuttosto stabili nel tempo e relativamente modificabili, non ha il minimo senso interagire con lo stalker, e la vittima deve in primissimo luogo evitare di entrare in relazione. Qualsiasi cosa anche un insulto è letto come un rinforzo, e un insulto che arriva dopo mesi di indifferenza e resistenza è letto come un premio. Reggere però è difficilissimo per molte ragioni che vanno dal vecchio coinvolgimento alla relazione, alla paura che non rispondere peggiori. Non è vero. E’ rispondere che peggiora.
  2. Non andare all’ultimo appuntamento per nessun motivo. Men che mai da sole, men che mai di sera, e in luogo solitario. Ma davvero non andare all’ultimo appuntamento. Quando lo stalker capisce che una donna davvero non tornerà più con lui, vivrà l’idea della morte di lei in parte come punizione ma anche come una sorta di fantasia cannibalesca, allucinata di incorporazione. Di riuscito desiderio di dominio della propria volontà. Chiedere un ultimo appuntamento simulando un pentimento o un desiderio di confronto pacato, è una strategia messa in mano a questa allucinazione di incorporazione. Che è quella che provoca le morti di cui parliamo.

 

  1. Purtroppo quando c’è lo stalking la patologia psichiatrica è franca e strutturata, e si tratta di un’organizzazione psichica che la persona avverte come funzionale a se stessa. E’ difficile quindi che una persona che ne soffra, per quanto sia correlata a forme di acuto malessere, fino a dimensioni tragiche, se ne accorga e percepisca il suo star male derivato dal proprio comportamento più che dalle circostanze. Quindi sperare in un trattamento psicologico quando già è esploso è improprio, più che mai in una scelta volontaria. Possono esserci delle possibilità solo dopo un eventuale arresto. Quindi è molto importante denunciare lo stalker e sostenere la vittima nel lungo ed estremamente faticoso iter legale.

 

Mi fermo qui. Se ci sono delle domande o altre questioni generali esorto a proporle nei commenti, cercherò di rispondere, più di quanto faccia abitualmente, in modo da rendere questo post più utile possibile.

Gli ultimi vecchi (2014)

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Mia madre faceva delle grandi feste, piene di gente allegra anche se piuttosto impolverata, feste di registi grassi, di giornalisti con le occhiaie, di alcolisti ben temperati, qua e la una bibliotecaria dal culo largo, giacche di velluto con le spalle sformate, gomiti con le toppe, i blister delle medicine nelle tasche, mani macchiate dal tempo che cercavano sigarette nella borsa.
Poi arrivava lui, con la sua abbagliante differerenza, con il fulgore della sua ortodossia: medico di grande fama – un luminare! – , bellissimo come un divo del cinema, destro nei sorrisi da salotto, nel modo di incrociare le gambe, nelle cose giuste da dire. Con un’infelicità da romanzo tutta novecentesca, e perciò impercettibile, che a fronte di un matrimonio molto conveniente quanto vuoto, lo faceva scappare nei letti delle donne senza mai fermarsi a lungo. 

Quando entrava le signore si aprivano sui tappeti come margherite nei prati, mentre i mariti, gli intellettuali e gli accademici, ribadivano la loro distanza esistenziale, confortandosi per la differenza di rango estetico con un ingiustificato snobismo. in mezzo a quei tappeti e quegli alcolici lui era uno straniero – per via della carnagione scura, dell’altezza incredibile, dei capelli neri e del naso perfetto, e per via di tutto quel sapore di primo mondo addosso, quell’odore di convegni, di soldi che girano, di potere. Mentre quelli parlavano male della televisione, lui in televisione ci andava- e mi era difficile immaginarlo parlare con mio padre, di questione private e intime, come invece è accaduto regolarmente per tantissimi anni. Si incontravano nel suo ufficio, e parlavano.
Perlopiù di donne e malanni.

La complessità di mio padre, il suo annodato modo di essere francamente infelice, quel disarmante desiderio di stare in un mondo magico al di la del fiume – mio padre scriveva favole – dovevano risultargli ostici, incomprensibili e spaventosi. Non credo che potesse capirlo a fondo, perché aveva abiurato da tempo a tutti i mezzi notturni della conoscenza, ed essendosi piuttosto aggrappato, tutta la vita, al diurno, all’apollineo, al geometrico. Ma si parlavano, e dalle vette del suo successo professionale, si è sempre occupato di proteggerlo – si è sempre occupato del suo corpo malandato.
Come se monitorarne gli esami, sorvegliane gli specialisti, indirizzarne le scelte fosse il suo modo per tenere caro quel delicato pezzo di cristallo, come se la dedizione e l’esercizio della sua autorità fossero un secondo linguaggio, con cui ringraziare un modo di capirlo e di ascoltarlo, il modo di quelli che conoscono il fiume e non ne scappano.

Ora mio padre è in ospedale, nel tentativo poco convinto di turlupinare il tempo, in uno scomodo enpasse tra due sentimenti disgraziati, la scomodità della morte e quella della vita. Sta sul letto di reparto e diligentemente sopporta la noia, l’assenza di scelta, il pervicace attaccamento dei suoi cari, e dei tubi che di quello sono il simbolo. (Dialisi, flebo, sangue, catetere. La fine ti conquista per stanchezza.)
Lui è subito venuto. 

Ha volteggiato per le corsie – ora si tinge i capelli, porta gli occhiali attaccati a una corda insieme alle chiavi, ma nel cappotto sartoriale fa sempre la sua figura – è approdato al letto dell’amico come il cavaliere di una fiaba, come il re buono di un lieto fine. Ha tirato fuori la spada e lo scudo e ha parlato con medici e infermieri e portantini e addetti alla mensa. Ha controllato macchinari e ha intimorito, in una feudale e arcaica concezione dell’amicizia, in uno spudorato esercizio di carisma e medioevo
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Poi è tornato al letto dell’amico e si è arrabbiato perché è dimagrito.
Mio padre allora l’ha guardato, con una sorta di tenerezza
.

Cara Daria

Parrebbe, secondo il Messaggero, che Daria Bignardi abbia convocato truccatrici e addette ai costumi della rete che dirige, per imporre un dress code alla giornaliste di Rai tre. Avrebbe infatti suggerito la necessità di vestiti sobri, di orecchini discreti, di trucco accennato, e tacchi non troppo alti – niente tubini neri, per dire. Un modo di porsi un po’ polveroso e variamente apprezzabile che, come qualcuno ha notato, combacia più o meno con il suo modo di vestire.
La prassi di dettare il modo di vestire alle donne in un’azienda, è una questione molto antica e che risale più o meno al tempo in cui le donne hanno messo piede nel mondo del lavoro. Siccome, a dispetto di quello che credono spesso le persone, le donne con il modo di porsi veicolano molti importanti contenuti, una parte dei quali riguarda il modo di abitare la propria identità di genere, ma un’altra parte aspetti identitari di riferimento rilevanti – ceto sociale, ambizioni ideologiche, età desiderata, una sorta di target di riferimento – i luoghi di lavoro dove ci si interfaccia con il pubblico e che monetizzano il loro interfacciarsi, tendono a imporre un dress code alle dipendenti, e a dire il vero, anche ai dipendenti uomini. Da caso a caso è interessante quanto alle donne viene richiesta una prestazione estetica o un’avvenenza fisica, come parte del pacchetto ideologico commerciale che fortifica il business – per esempio, per decenni le hostess degli aerei sono state solo magre e grandissime gnocche, oltre che vestite tutte uguali, mentre la sobrietà invocata da Bignardi ha una storia antica in televisione, da sempre in imbarazzo con la semantica femminile, e io ricordo sia la puntata in cui essa si lasciò rimproverare aspramente da Lucia Annunziata per via della camicia sbottonata, ma ancora di più ricordo un racconto di Rosanna Cancellieri che citava la sua battaglia con Curzi, per potersi mettere dei vistosi orecchini quando faceva il telegiornale.

Devo confessare che per una parte la teoria bignardesca mi suscita una certa simpatia. Se si mette da parte l’ossessiva centralità del corpo e la consolazione compulsiva che proviamo quando ci dedichiamo alla sua decorazione, specie noi donne, e specie quando siamo in condizione di potercelo permettere (non sapete che conforto è per certe bimbe e certe commesse la divisa dell’orario diurno – che protezione) la teoria bignardesca chiede semplicemente di mettere l’accento sulla qualità della soggettività professionale, e di toglierla dal corpo, dice che in quel contesto l’interesse è su quello che fai, mentre gli orecchini non si dovrebbero mettere in campo. E’ molto simile al suo estremo opposto, quello che obbliga le donne al tacco dodici e che licenzia chi non è disposto a portarli – ma a scegliere una semantica discreta della comunicazione risparmia la codifica di un obbligo estetico e prestazionale. Capisco che sono simili ma non mi sembrano uguali. C’è il rischio quando infatti sei istigata alla bellezza di ordinanza, che di quello che pensi e fai non importi molto.

Tuttavia, mi rimane il sapore di una regressione. Non grave, non merita insulti e starnazzamenti che quando esagerano portano la puzza di un maschilismo dissimulato. Sia per la motivazione alfa fatecele vede nude! Pure se fanno le giornaliste. Che per la motivazione beta: Curzi imponeva e si arrabbiava, come testimoniava Cancellieri e non si facevano articoli di giornali, io credo perché erano altri tempi, ma anche perché non era una donna che si era permessa di far carriera.
Rimane però il sospetto che quella centralità del corpo della donna e del suo bisogno di essere eventualmente visto, e interpretato e fatto oggetto di comunicazione sia una sorta di incandescenza con cui il servizio pubblico non è in grado di convivere, dimostrando quasi di averne paura. Ritiene come i peggiori maschilisti che quando una donna si mostra come bella e attraente con una scarpa che ne valorizza per dire la gamba, o degli orecchini che ne illuminano il volto, non si possa più chiederle come sta andando quel progetto a cui sta lavorando con i fondi della regione, o come è andata con quell’assegno di ricerca  – ma bisogna fare, per forza come il Cavaliere con Emma Marcegaglia. Ma forse Daria, il servizio pubblico dovrebbe dimostrare la possibilità di quella convivenza, non osteggiarla.
Se no cara, io te lo dico con simpatia, e con contentezza vera per la tua nomina –
Non ce la faremo mai.

La mia

 

Premessa.
La rete e facebook mi ha dato tante cose belle e durature, per le quali non smetterò mai di provare autentica gratitudine. Mi ha fatto entrare in contatto con tante belle persone, alcune delle quali sono diventate grandi amicizie, e altre delle quali interlocutori da cui imparare ad apprezzare delle cose. Magari comprandone i libri. Mirko Volpi è uno di questi grandi regali della rete per me. Perché non lo conoscevo, e invece il suo Oceano Padano è un libro delizioso e leggero e capace di fare, in una maniera antica e rizomatica Cultural Studies sulla nostra tradizione territoriale. Io so che a dire questa cosa, a Mirko do una coltellata, ma è un uomo umoristico e gentile, galante con le signore che parlano di cose orrendamente postbelliche e quindi non si arrabbierà troppo. Sono grata a Facebook perché mi ha dato Mirko Volpi, perché io se no, non ce l’avrei mai avuto, non l’avrei mai rincorso altrove. Perché Mirko è uno squisito liberale di altri tempi, un cattolico di cui purtroppo si è perso lo stampo, un uomo leale e fedele a una genealogia ideologica che mi è sideralmente distante, che io seppur merita rispetto, io riesco a rispettare solo in lui, perché mi basta una lenticchia in più del beceronismo triviale ed etico che lui con gentile orgoglio celebra nel suo libro, che io subito ho un desiderio immediato di sganassoni fortissimi proprio.

E allora è successo, che nella giornata contro l’omofobia Mirko scrivesse sulla sua bacheca di Facebook . A Nosadello non ci sono culattoni. Nel lessico emotivo di Volpi questa cosa, voleva dire per come lo conosco e lo intendo io, che Nosadello è un mondo antico, premoderno che si ferma a certe cose antiche, l’ultima isola in cui certe diavolerie del mondo contemporaneo non entrano. Per Mirko tutta la questione dei diritti civili per le persone omosessuali rientra nella semantica di un cambiamento sociale che gli è antipatico, e a cui si rassegna e a cui non riconosce dignità morale. E questo non fa di Mirko un omofobo, però fa di Mirko una persona che sostanzialmente rimane interdetto da quelle battaglie civili. Io non ho ancora capito se le battaglie civili per le persone omosessuali gli siano indifferenti o lo dispiacciano proprio – sospetto la seconda. E così come in buona fede non si deve essere soffermato sul rischio di essere frainteso, di essere accomunato a qualcuno peggiore di lui – in parte perché si sente, giustamente, garantito da se stesso.
Tuttavia Mirko da Facebook è stato bannato, perché da qualche suo contatto segnalato. Una quarantena veloce, che lo ha portato a descrivere sul suo giornale – il Foglio – la parabola di un ostracismo culturale. Il vissuto di una minoranza, quella dei buoni reazionari che non sono cattivi e che non sentono di avere spazio.
E io capisco che uno come lui ha ragione, ed è il motivo per cui ho discusso in privato con lui di questa vicenda, senza bannarlo io a mia volta. Di solito le sue posizioni sono portate avanti da elettori e cittadini ed esseri umani che non possono essere neanche blandamente stimabili. L’onestà intellettuale la capacità intellettuale di un Mirko Volpi di solito in chi parla di culattoni sono del tutto assenti.. Anche il tentativo di Mirko di cercare di tenere in piedi un rispetto dell’altro pur essendo indifferente a certe sue urgenze, è una cosa rara.
Ma io sono ebrea. Se nel giorno della memoria qualcuno avesse scritto “a valguarnero caropepe non ci sono giudei” io non credo che avrei retto. Dirlo nel giorno della memoria vuol dire: me ne sbatto del fatto che ci sono state le persecuzioni razziali. Me ne sbatto di tutta questa cosa che per me è solo retorica. Me ne frego che tu Costanza ti puoi offendere. Io sono insofferente al fatto che tu percepisci un problema.” Io non credo che avrei segnalato Mirko, ma penso che lo avrei bannato di certo.

Così come sono stata in grande difficoltà di fronte alla levata di scudi di tanti amici che abbiamo in comune, e che in comune con me hanno festeggiato le unioni civili. Perché tutti, tutti hanno pensato che Mirko fosse stato sospeso da Facebook per un uso spiritoso di un linguaggio e di un argomento. Tutti hanno pensato agli omosessuali come a un complemento di argomento. Nessuno ha pensato che un contatto omosessuale di Mirko potesse essersi offeso, e averlo mandato a fanculo. Certo in una maniera vigliacca – non a viso aperto. Che per me è sintomo di grave poraccismo, nessuno ha fatto due più due, e ha associato la freddezza di Mirko sulle unioni civili – freddezza per me legittima e coerente con il suo modo di pensare – con la frase sui culattoni. Nessuno è stato messo a disagio da quella frase pensando a un amico che si è sentito ferito.
E questo il mio punto.
Io non sono in polemica con Mirko – di cui accolgo linguaggio e conseguente riflessione amara sul suo giornale – e di cui apprezzo la coerenza. Capisco il suo senso di difficoltà quando deve essersi trovato persino un parto delle associazioni scout al governo dire ho giurato sulla costituzione e non sul Vangelo. Mirko è nel suo. Certo, non nascondo a me e a lui come lui non lo fa con nessuno, che non condivido certe sue premesse ideologiche.
Ma mi sconvolge sempre l’autolesionistico derivato di 70 anni di pacifica democrazia e seghe alle code dei gatti, che permette di dare più liceità alla libertà dell’uso delle parole, mettendo sempre più tra parentesi i significati che si portano appresso, per una sorta di adolescenza protratta che sbava pure sull’uso del linguaggio. Mirko è coerente bene, ma possibile che siamo arrivati a tollerare che uno scriva a brutto frocio sporco negro e quant’altro, senza battere ciglio in nome della libertà linguistica che si permette di fare l’occhiolino a quelle stesse costruzioni politiche che noi solo dieci minuti prima abbiamo disprezzato? Mirko dovrebbe essere garantito dalla contestualità che è costituita dal suo linguaggio in genere e quello che lui è – per me non tanto, confesso – ma siamo sicuri che tutti devono sapere come è una persona prima di offendersi o di scandalizzarsi per gli eventuali rimandi semantici di una frase? Non ci accorgiamo che così, quando in un altro momento parliamo di politica e diritti civili e di razzismo, non parliamo di nostri concittadini destinatari di quelle politiche, ma dei nostri concittadini come un argomento astratto, un oggetto linguistico vuoto che non ha concretezza e di cui non ci importa? Perché se quei cittadini li prendete nella concretezza no cazzo culattone, non lo scrivete, negro non lo scrivete e manco lo difendete se lo scrivono i vostri amici. Non voi che avete messo le bandiere arcobaleno nei vostri status e sognate di fare da testimoni ai matrimoni gay.
Io trovo questa cosa politicamente adolescenziale, e se vogliamo anche come dire epistemologicamente fallace. Quando qualcuno fraintende qualcosa che noi diciamo, portandola in una direzione che non ci pareva implicita in quello che abbiamo scritto, le cose sono due: o l’interlocutore era in cattiva fede, oppure noi abbiamo detto male quello che volevamo dire per amor di un’ambigua sintesi.

Infine. Io ho avuto quarantene ben peggiori su Facebook. Una di un mese (perché avevo mandato troppi messaggi a tante persone per il mio compleanno credo – un mese mi pare) e una invece definitiva perché ci stavo con uno pseudonimo. Regole infrante per sciocche che siano. Mi dispiacque e quando mi dovesse di nuovo capitare, mi dispiacerebbe ugualmente. E certo ricapiterà perché la delazione è il mezzo che hanno le persone di colpire personaggi relativamente noti nella rete. Ma anche qui, la retorica del martirio della libertà – è stata la prova di una sintassi politica alla canna del gas. Ecco, a me pare che abbiamo un problema.

 

Non so se sono riuscita a spiegare quello che avevo in mente questi giorni.

 

 

 

Volevo dirvi

 

(Occupatevi dei vostri amici quando la moglie dice ho buttato la pasta e allora pensate, gli telefono dopo cena, che poi lei comincia a chiamare tante volte, la pasta si fredda, i ragazzini fanno cadere le forchette o fanno finta di piantarsele nella mano, sono così in effetti i ragazzini.
Occupatevi degli amici senza pensare a quella volta che il figlio più grande davvero si era piantato la forchetta nella mano, come atto rabbioso e dimostrativo, sei ore con la mano sotto all’acqua. E quello che diceva ma uffa.

Occupatevi degli amici quando non sono più tanto vostri amici, e paiono affondati in una nebbia di vita aggrovigliata, perché magari si sono trasferiti in un’altra città, un altro matrimonio, in un altro partito. Occupatevi degli amici che siccome sono innamorati della vita hanno tradito il vostro passato, hanno perso la fedeltà a dei ricordi usurati, hanno smesso di riconoscersi in quello che ancora siete.
Telefonate ai vostri amici lucertole, camaleonti, coccodrilli.

Accarezzate le vostre amiche api, farfalle, colibrì, che si appoggiano gentili sui colori delle cose, succhiano il nettare di certi loro aperitivi, che siano cuba libre di eterne ragazzine, o caffè corretti di grasse parannanze. Un buffetto, un saluto, una seggiola, un passaggio in macchina a quelle con la vita incasinata, gli amanti nell’armadio e i figli nella gonna, o a quell’altre dritte come fusi che prendono un calcio e poi s’ammaccano.

Perdonate i leoni, le tigri, e i gatti di appartamento troppo permalosi o peggio sciocchi, quelli che graffiano per distanze provvisorie, che non accettano gli scarti della vita, che se ne stanno ridicoli e puntuti sopra i cuscini di velluto, a dire uffa allora io allora io allora io, rincorreteli, spesso si stanno pentendo, spesso vi stanno pensando, siate pazienti, è questione di una pizza, di un cinema, di un messaggio di una riga.

Soprattutto però riempite di grazia, e di favori e di pensieri, i cani da pastore, che nel dolore si occupano di voi, e vi abbracciano e vi stanno vicini, e li sentiti pure se ci son state due parole. Quelli che fanno una telefonata noiosa, quelli che scrivono un messaggio inaspettato, quelli che ti sanno dire il pensiero necessario che non avevi formulato, o più semplicemente che sanno darti una scatola con delle cose, che rimarranno quando smetterà di infuriare il vento.

E infine, godetevi il vostro zoo, la vostra voliera, la vostra riserva, il vostro parco , il vostro cerchio, quando arriva la tempesta – come io sto facendo adesso. )

Kaddish

 

E’ morto triste e solo e anche estenuato, per il fatto che non si decide di morire ma invece, si è vissuti dalla vita, si è il campo di capriccio di qualcun altro, qualcos’altro. Il suo corpo era stato negli ultimi tempi, la radura per arresti, e scivolate, e anche per scontri, bombe che desertificavano il pensiero, febbri alte, infezioni, l’aria che mancava, allagamenti, siccità, le sue mani come i boschi senza rami il giorno dopo un incendio.
A casa non poteva stare, irretito da fili e tubi e li l’ossigeno qua l’azoto e pure il piscio a dire il vero. A ondate regolari nella giornata arrivava una figlia, la moglie, una badante sconosciuta. La sua amica degli ultimi anni infatti è andata in India dai suoi bambini, maledizione, lei si avrebbe voluto salutarla, maledetti bambini.

I suoi amici sono tutti morti, e la stanza dove si compie l’ultima battaglia è di un rosa tenue, alberi di periferia dalle finestre. Che bella vista diceva sempre sua moglie quando guardava fuori con le lacrime agli occhi, che bel posto. Per la verità dopo una certa ora è tutto un brulicare di coltelli, di intenzioni incerte, di organizzazione della tenebra, ma la moglie la sera non veniva mai, o forse, poiché non era mai stata una donna ingenua, preferiva cocciutamente ignorare, ridisegnare, decorare, eludere le metafore e le minacce.
Non trovi che oggi sia un po’ più sereno?

Sereno.
Tutte le sue tracce identitarie erano state cancellate dalla guerra in corso. Era stato un uomo introverso, costitutivamente perplesso, e spesso anche gentilmente buffo. Amava molto certi formaggi dozzinali, certe caciotte insipide, che alle volte addentava e lasciava in frigo lasciando la forma dei denti. Lasciava continuamente cravatte in giro. Molto disordinato, ovunque si sentiva ospite e non stipulava relazioni con gli oggetti, era stato un professionista onesto ma non brillante. Amava moltissimo la geografia, e gli atlanti, e le cartine, e conosceva fiumi e città e catene montuose e governi, e certamente stragi, conflitti e dittature, di cui era stato estremamente appassionato, di cui si occupava con luciferina dedizione. Era invece in un rapporto di conflittuale relazione, sofferta e incorreggibile con i soldi e il guadagno e ancor di più con le persone e le relazioni. Non sapeva tenere, non sapeva comunicare, ma provava sempre, offriva cose, provava a dire a toccare ad accarezzare ma con scarso successo. Come ora la morte – i soldi e le persone e gli affetti se lo prendevano e se ne allontanavo e si avvicinavano e lo rimproveravano e insomma lui era anche questa incolpevole inettitudine.

Era stato anche un bambino, la cui madre si era ammazzata e il cui padre si era disinteressato a lui, era stato anche un bambino che a nove anni aveva dovuto decidere per la strada bombardata: dove scappo per evitare che mi ammazzino. Torno dai preti che mi nascondono, o vado da un’altra parte.
Era andato dall’altra parte per fortuna, e il collegio dei preti era stato ridotto in cenere.
E tutta la vita è andato dall’altra parte. Fino a che ha potuto.

 

Qui

Joan’s ornithology

L’aristocrazia novecentesca aveva un rapporto complicato e ambivalente con i giudei. La rivoluzione francese prima e quella industriale dopo, continuavano a mangiarle i talloni, l’edera spaccava le crepe nelle mura dei castelli, nei prati sterminati cresceva la gramigna, nuove oligarchie rivendicavano bottoni dorati e calici e penne costose – persino i servi in cucina.
Nelle stanze dei bottoni non era rimasto più nessuno, principi e duchi e conti manco in faccia alle monete, qualche reale sulle scatole dei biscotti, alle gentildonne non rimanevano che i pomeriggi sul ferro battuto, i bambini a teorizzare di caccia alla volpe e tutti, tutti ad assaporare sul broccato, il nuovo ruolo dell’alienazione, dell’estraneità perenne. Riti perduti e non compresi, cerimoniali d’elezione come stimmate di una tribù lontana.
La borghesia era come un olio sulla superficie delle cose, e loro come macchie di vino che non si potevano a mescolare.

Cosicché l’ebreo di corte era un concetto che poteva solleticare in quel dorato tramonto – ancor oggi non del tutto compiuto. Una parentela utile alla psiche decadente, che con le sue giacche di velluto e le sciarpe e gli occhiali di metallo, rammentava le siderali distanze di classe e la possibilità di una sudditanza di censo, mentre nella persecuzione e nella impossibilità di integrazione un rispecchiamento confortante, altro vino e altro olio. Si poteva passar per eleganti e liberali.
Ma certo ancora più spesso, si poteva tenere in casa qualcuno da odiare ancor di più, un’identità culturale insolubile, e non riconducibile a niente. Qualcuno che per esempio studiava per qualcosa di appassionato e identitario, più che per un precettore esasperato.
Gli ebrei dei nobili, erano topi per i gatti.

E deve essere per questo ho sempre pensato – che Joan Riviere, una che si sarebbe alzata dal tavolo di un ristorante se accanto le mangiava un rabbino, si era invaghita di Melanie Klein quando quella sbarcò a Londra da Berlino. Joan la bella e cattiva, Melanie la goffa e imprevedibile, Joan lunga modiglianesca e diafana, di pendenti e collane d’oro, Melanie askenazita, paffuta, lanosa, i vestiti che tiravano sul ventre, i cappelli fuori misura, i colori smodati. Sopra la plebe la prima, cacciata oltre il bordo la seconda, Intelligentissima e logica Joan, ma quell’altra di più, quell’altra maga strega, obliqua, incredibile misterica.

Joan che guarda Melanie, che contro ogni previsione possibile, satura di cattivo gusto e gesti discutibili, spacca la società psicoanalitica e seduce tutti, ammalia, incanta e trascina. La sua Ara Macao, il suo Uccello del Paradiso.
Libri insieme, progetti insieme, pranzi pomeriggi, discussioni spicchi di mondo. Chi sa forse da parte Joan, supponenti tentativi di catarsi, di dispotica redenzione.
Cara, ma non credo sia davvero il caso di mettere quell’abito.

Ma Melanie. Sola, straniera, fragile e fantasiosa, con quel linguaggio stregonesco nella mente e sulla bocca, con quelle metafore indigeribili. Melanie che inventava nuovi bambini, affatto borghesi e per niente vittoriani. Bambini che desiderano seni immensi, e giocano con i falli del padre e li mangiano, bambini che si sgretolano nell’allucinazione e si ricompattano precariamente, bambini esplosivi di cattiverie intollerabili e cannibalismi metaforici. Bambini soavemente psicotici. Melanie veniva da un altro pianeta, difficilissimo e intraducibile. Incantava gli ignavi e si incantava a sua volta. Ma con Joan si ancorava anzi, alla siderale distanza di ciò che forse una parte di lei desiderava, l’eccentricità come complesso di superiorità, il collo e l’abito giusto per essere fuori dal mondo ma desiderata dal mondo. La dama ricca e altera che ha poco margine di godimento se non nella dannazione altrui. LA cattiva Joan che stroncava gli analisti e non superava sei mesi su un lettino. L’unica che potesse forse aiutarla a trovare una sedia, una poltrona, una liceità. Che avrebbe fatto spazio in mezzo ai rovi della prouderie novecentesca ma che forse, gliela avrebbe fatta pagare con un una smorfia sul volto.

Hard Times

 

Qualche giorno fa il signor Francesco Starace, nome quanto mai evocativo, amministratore delegato dell’Enel, è stato invitato a parlare dinnanzi agli studenti della Luiss e ha potuto così illustrare – bisogna dire in una delle peggiori deturpazioni della lingua italiana che sia mai capitato di ascoltare – le linee guida della sua strategia di direzione, i principi base del management poraccista, che effettivamente in questi tempi poracci deve essere sicuramente vincente, portando a dei successi poracci anch’essi. Starace, come potete leggere qui, si è generosamente profuso nel ruolo del cattivone di Dickens, nel capitalista dei film americani degli anni 50, si è slanciato nel recitativo della zia cattiva di Marchionne, proponendo come totem del moderno management quasi tutti i comportamenti che, una volta siano dimostrati fanno vincere a una vittima di mobbing una causa contro il datore di lavoro. Giuslavuristi grati a Starace!

Per capire la strategia professionale del nostro nonché la sua deontologia, può essere utile ripassare uno dei sacri testi dell’economia politica, che è Teorema di Marco Ferradini. Secondo questo importante economista di riferimento infatti: se una donna la tratti bene, sei rispettoso, le dici cose gentili, la porti a cena fuori non te la da. Se invece sei cattivaccio bruttone e la maltratti, Un giorno ci sei n’antro chi lo sa, allora essa sarà a tua disposizione proprio in tutte le salse. Se la piji a calci anche meglio. Donne e impiegati funzionano allo stesso modo! E le gnocche sono come i quadri, i comparti dirigenziali, se le maltratti alla fine obbediscono. Fanno quello che voi te! E quindi per introdurre il cambiamento e facilitare quel pianto linguistico che sono i cambiatori bisogna fare tutte cose terribili ai dipendenti sovversivi (I cambiatori dice proprio così. Intendendo persone che portano il cambiamento nell’azienda, poi dici petaloso – ma se la Crusca mette una cimice dentro all’ufficio di Starace schiatta l’intero comparto dirigenziale). E quindi, dicevamo:

  1. portare i cambiatori
  2. individuare elementi contrari ai cambiatori
  3. colpirli platealmente senza pietà tipo pena esemplare
  4. distruggere fisicamente dice (?) i nuclei ostili al cambiamento.

Questa operazione suggerisce molte riflessioni.
Il primo pensiero per me per esempio è stato il seguente: tu pensa uno così che personale sveglio e ricco di sfavillanti iniziative deve aver preso. Mi ha ricordato un misurato saggio sulla storia giuridica del fascismo Aquarone L’organizzazione dello stato totalitario,  un saggio davvero molto attento a dare una valutazione oggettiva della macchina statale nel ventennio, e che premiava diverse scelte amministrative di Mussolini, l’intelligenza, la visionarietà, ma ne sanzionava certe partnership pericolose: pare che Mussolini si contornasse di invidiosi e di cretini, di pavidi e di opportunisti, perché questo è il tipo di gente che si presta più zelantemente a una certa idea di leadership, solo questo tipo si fa braccio di una simile abiezione morale e da questo tipo di soggetti in quanto che realmente o simulatamente manipolabili sono attratti i dittatori.
Quindi i migliori qui – o sono deboli e sciocchi, oppure è gente che un giorno ti farà le scarpe. Come puntualmente è successo.
Le dittature sono efficaci, ma sono estremamente fragili.

Il secondo pensiero ha riguardato la mia disciplina. La psicologia sa che non è che Teorema di Marco Ferradini sia completamente una panzana, la signora di Marco Ferradini esiste eccome – e pure il signore eh, la psicologia lo sa perché è tutta gente che prima o poi viene in consultazione: desidera una relazione ma non la sa mantenere, si nega la felicità amorosa e la produttività perché le donne che per amare devono farsi prendere a calci, o prendono i calci e non godono, oppure sono accarezzate e non godono perché la carezza non collima con la nevrosi e la disprezzano, e quindi alla fine si pongono da sole senza volerlo nella condizione dell’eterna estromissione dalla coppia sana. Non sono certo le lunghe e proficue relazioni quelle dove stanno queste signore, non sono persone che sono messe in grado – da se stesse – di compicciare qualcosa di buono, e se dovesse mai accadere è per analisti, o al limite fidanzati che sanno far loro apprezzare il vantaggio del caldo emotivo.. Se in un’azienda quindi importi questo modello relazionale su larga scala, otterrai certo il cambiamento come lo vuoi tu, e troverai degli interlocutori con una diagnosi psicodinamica che ti siano funzionali, in qualche caso questa diagnosi la procurerai tu stesso, ma poi dovrai finire invariabilmente come certe coppie a cena che non si dicono una parola e si muoiono di pizzichi ancorchè di corna. Mangiano per carità, vanno pure a teatro dopo, ma a letto una noia mortale. A lei verrà mal di testa.

A voja poi a chiamare consulenti aziendali esperti del marketing a risollevare le sorti di un fatturato mesto. Mi ricordo miei amici che in Francia facevano queste consulenze a grandi aziende – e che si mettevano le mani nei capelli, quando toccavano con mano le conseguenze della psicologia del lavoro – se così la si vuol chiamare – di marca dikensiana . Personale arrabbiato, grandi conflitti interni, nevrosi di diverso raggio, motivazione alla produttività ai minimi termini. Persone che facevano cioè quello che voleva qualcun altro, molto di malavoglia e quindi il fatturato ne risentiva pesantemente.

Tutto questo comunque si inquadra in un’aria del tempo, dove i diritti dei lavoratori vengono erosi, la qualità della loro vita sul posto di lavoro è diventata secondaria rispetto al ricatto morale di un regime di crisi, e cominciano a sorgere come funghi teorizzazioni bislacche proposte come innovative, audaci, magari titolari di una amareggiata franchezza, oppure con il vanto di una narcisistica sfrontatezza, presentate come rivoluzioni copernicane della produttività industriale quando semplicemente sono la scoperta dell’acqua calda, o più precisamente la riscoperta di una ricetta che è sempre stata usata in passato, quando – come oggi – la crisi era l’ombrello sotto cui nascondere quanto la propria inettitudine,  quanto la propria mancanza di prospettive. Tempi in cui però certe cose era lecito non saperlo, certi modelli aziendali ancora non si erano visti.

Forse alla Luiss dovrebbero invitare qualcun altro.

Diagnostica psichica e sociale del tafazzismo. A proposito dei vaccini

Da anni imperversa, la minoranza deleteria e rumorosa di coloro i quali polemizzano contro i vaccini.  Sono molto arrabbiati, molto umorali, e per questo molto seduttivi. Per questo sono riusciti recentemente, ad arrivare persino al servizio pubblico – per cui qualche giorno fa, è toccato vedere in una trasmissione Rai, Red Ronnie che farneticava gravemente su temi terribilmente delicati.
Ora. Questo episodio della Rai merita la levata di scudi che c’è stata, e la crocefissione mediatica di chi l’ha consentita, come del medesimo ReD Ronnie. Ma bisogna farsi un po’ di domande sul dilagare di una mentalità così gravemente autolesionista per la collettività. Bisogna capire bene come funziona questa cosa per cui noi abbiamo una cosa buona e vogliamo privarcene pensando di fare una cosa buona. Qui faccio allora, un lungo – mi si perdoni – tentativo di analisi.

Il primo punto e il più grave davvero è lo stato di inadeguatezza diffuso davanti ai saperi strutturati, stato di inadeguatezza che spaventa se confrontato con il lessico di cui dispongono e il grado di istruzione a cui hanno avuto accesso le persone che si dichiarano contro i vaccini. Arriva uno e dice loro una serie di assunti senza fondamento – tipo, e loro lo ritengono vero. Allo scetticismo di chiunque oppongono il nome di un testo medico che difenda la tesi da loro proposta. Di solito al nome di quel dottore si accompagna l’ammirazione dovuta a qualcuno che si azzarda a sfidare un regime, e a proporre la verità che sovverte il sistema. Lo fanno gli ostili ai vaccini, lo fanno i seguaci dell’allattamento fino a 3 anni, e probabilmente ci sono altri fenomeni diversi come contenuti e uguali come meccaniche. In tutti i casi, i criteri che aiutano le persone moderatamente istruite a utilizzare i saperi che non possiedono, non sono utilizzati: questi criteri riguardano il processo di conferma a cui vanno incontro le teorie, e i circuiti della loro divulgazione, oggetti per i quali noi profani non particolarmente eruditi su questo o quell’argomento solitamente utilizziamo delle agenzie: per esempio se un libro di qualsiasi argomento è pubblicato a spese proprie ha meno credito per noi se è pubblicato da una casa editrice specializzata nel settore. Di due teorie scegliamo quella che ha subito la critica e la disamina di un maggior numero di persone afferenti a quella disciplina, perché quel maggior numero è una prova di validità. Quando nella comunità scientifica una certa tesi prende la maggioranza degli scienziati, i quali per quanto partecipino a un orizzonte culturale omologizzante vengono pur sempre da storie diverse, quella tesi è da prendersi sul serio. Il problema dell’affidabilità delle teorie solitarie non è come si vuol credere, in una semplice diffidenza verso ciò che è minoritario, ma nella consapevolezza che hanno semplicemente tutte le persone che dominano un’esperienza sia di cucina delle torte salate, che di reparti burocratici della corte dei conti: chi sovverte un sistema di regole, è quello che le conosce benissimo, e le supera dall’interno, essendosi dimostrato in grado di rispettarle, non quello che agisce da solo a cazzo ignorandole. O’ sapete che c’è c’è una relaizone tra vaccino e scarpe a fiori?

Anche il secondo punto è una specie di scandalo logico. Nei dibattiti sull’opportunità dei vaccini si assiste a una riscrittura del passato sociale nonostante quel passato sia stato ampiamente studiato e appreso negli istituti superiori, foss’anche di ragioneria ma certamente in tutti i licei. Perché questo è il bello, la maggior parte dei detrattori dei vaccini sono persone che hanno studiato almeno almeno fino a diciotto anni e magari sono anche laureate. Eppure, credono davvero che importanti scoperte come il vaccino contro il vaiolo o la polio, non abbiano inciso sull’argine alla diffusione di quelle patologie. E in genere riportano i bei tempi andati come un eldorado in cui si era tutti più coraggiosi e si affrontavano i guai della vita con levità e forza d’animo. (E’ una cosa da raccontare a quelli che hanno perso una persona cara per via dell’aids questa. Ahò quelli il coraggio ce l’hanno, schiattano uguale però).

Il tutto – terzo punto – è condito dalla disagevole sensazione che sempre porta il parlare con qualcuno il cui vertice di partenza è determinato da un complesso di inferiorità. Ci avete mai fatto caso a come è l’atmosfera in questi casi? Ve lo dico io – plumbea. Il sentimento di inferiorità, di estraneità alle logiche del potere, una percezione di se come inefficace inerme inutile, porta a scambi dove dominano i ricatti morali, il livore, i rancori e i sarcasmi inutili, non si parla mai tra pari scambiandosi informazioni, si frigna in coro. E’ devastante, e la persona che prova a introdurre un regime di comunicazione diverso oscilla tra la frustrazione e la sensazione che non vuole provare di occupare il posto vuoto della superiorità: Io so, voi non sapete. Se poi lo occupa – Io so, voi non sapete leggete questi dati, e questi rapporti etc, la sua percezione peggiora, perché gli pare di sparare sulla croce rossa. Mentre il coro continua a frignare con voce più alta. È penoso, esi finisce con l’abbandonare il campo. Anche quando, come nel mio caso, l’opposizione non si gioca tra ostilità fideistica alla medicina contro fideistica fiducia nella medicina, ma tra fideismo in qualsiasi cosa contro allergia al fideismo in qualsiasi direzione. In ogni caso, personaggi pubblici discutibili come Red Ronnie o Eleonora Brigliadori, cavalcano questo complesso collettivo e forniscono con la loro celebrità – per quanto ottenuta in altri contesti – il grande riscatto.

Ma ritornando, muoversi agevolmente nei saperi strutturati vuol dire questo: capire che certi oggetti (cure, terapie, pasticche, vaccini, itinerari riabilitativi, progetti architettonici, sonde aereospaziali) possono essere ben fatti o mal fatti, possono subire pressioni sociali ed economici o non subirle, possono subirle e funzionare e subirle e non funzionare, possono essere deleteri se applicati a quel singolo contesto, quella singola persona, quella circostanza o no, possono essere, possono essere soggetti a usi e abusi, ma la ricerca sperimentale e le agenzie di riferimento mi aiutano a muovermi e a fare dei passi conseguenziali in accordo con un personale concetto di ragionevolezza. Se ci dovesse essere un vaccino per l’aids testato e ritestato, io aspetterei un po’ ma soprattutto a mio figlio lo farei. Viceversa, non ho ritenuto urgente fargli il vaccino per la varicella. Ma non perché penso ai loschi interessi economici che portano alla diffusione del vaccino – il mio rapporto con il mio alimentari di fiducia mi ricorda di non avere questa cattiva idea degli interessi di lucro, lui come i miei parenti scappati dall’URSS, semplicemente se si becca la varicella non more. Altri vaccini potevo forse non farli, contando sulla paraculistica constatazione che altri li hanno fatti e mio figlio è moderatamente protetto. Moderatamente: l’immigrazione di cui siamo oggetto ha portato per esempio nei nidi una diffusione un po’ inquietante di TBC.

La domanda è: se il dato statistico dimostra che, in termini di probabilità una certa scelta è decisamente più vantaggiosa di un’altra, perché esiste un gruppo di persone che propone per se e per altri la scelta meno vantaggiosa e si accanisce contro quella migliore? Cosa significa sociologicamente e psicologicamente il rifiuto di un salubre buon senso? Perché coagularsi intorno al padre coinvolto in un incidente tragico e come dire appoggiarsi psicologicamente al suo lutto insormontabile abbeverandosi el al suo dolore? Facendo propria, in termini di comunicazione l’etichetta con il nome dei bambini morti? Perché che lo faccia lui, io lo capisco. Mi addolora ma capisco. Ma che se ne approprino altri e come si dice su FB “facciano girare” mi inquieta. Perché abitare quel regno del complesso di inferiorità e dell’estraneità al sapere? Che cosa significa in termini individuali e in termini collettivi?

Il vaccino ha di per se qualcosa di magico ed evocativo. In qualche modo richiama le simbologie sciamaniche di cui parla Ellemberger nel primo volume de alla scoperta dell’inconscio. Il meccanismo del vaccino si fonda sull’introduzione di un agente patogeno – eventuali lettori medici mi correggano se sbaglio – in un dosaggio minimo di modo da dare all’organismo la possibilità di imparare a combatterlo e a espellerlo per sempre, con una strategia che si riproporrà ogni volta che l’agente patogeno si dovesse presentare. È uno di tutti i piccoli microcosmi che costellano la medicina e che simbolizzano l’eventualità della morte – come gli sciamani di Ellemberger che si facevano mettere un insetto sotto pelle e passavano un periodo di trance. Nelle modalità che adottano i nemici del vaccino per scongiurarne l’utilizzo l’odore che si sente è più quello del rito apotropaico che della lotta per la civiltà. Tutti i comportamenti di queste collettività che si pongono alla marginalità del sapere condiviso – senza sapere cosa sia esattamente questo sapere condiviso che contestano molto a grandi linee – hanno nei loro comportamenti e atteggiamento tanto del comportamento religioso e arcaico. Essi fondano delle asfittiche sette post moderne, che come in tutti i periodi di decadenza, più che ringraziare i frutti donati da un dio positivo, scongiurano con cori e macumbe le demoniache tentazioni di un Demonio tutto negativo. Il terribile vaccino viene costellato nelle segrete e per lo più imperscrutabili aree di un capitalismo lussurioso, che seduce con la sua conquista mortale, con la falsa promessa della salute ma con i segreti intenti di un cannibalismo esistenziale ed economico, le cui icone votive più note sono le industrie farmaceutiche. Le parole sacrileghe e quindi da usare con ossessione morbosa diventano quelle dell’interesse economico, del potere segreto, della lobby, del mondo kleinianamente desiderato come proprio e da cui ci si sente psicologicamente crudelmente estromessi.

In un certo senso – temo che abbiano ragione. La diffusione di questi fenomeni da una parte alligna in strutture psicologiche e problematiche individuali – sostenere il sapere scientifico comporta la sopportazione della delusione e dell’incertezza che da sempre sono implicite in tutto ciò che ha a che fare con l’umano. Il vaccino può ammazzare, può far male, può far bene. E’ intollerabile il numero di variabili così incisive sul piano emotivo per persone che hanno delle debolezze a monte, meglio cadere in un salubre manicheismo che almeno nella sfiga costante – dell’estromissione eterna dal potere desiderato – non deluderà mai. Ma in parte è l’esito di un materno cattivo proprio come la klein lo aveva disegnato. Queste voci, sono le voci di una piccola e media borghesia che ha potuto contare sui risultati raggiunti dalla generazione precedente, ma che diversamente dai padri non riesce a entrare e a partecipare alla strutturazione del corpo sociale. Il primo sentimento che c’è dietro alla demonizzazione della medicina, e al rito apotropaico contro la casa farmaceutica non è nient’altro che una torva invidia sociale che ha cominciato a prendere forma quella volta in cui si è provato un concorso pubblico ed era truccato, quell’altra in cui si è rimasti fermi fermi fermi per vent’anni di fila nello stesso posto di lavoro senza mai vedere un avanzamento di grado, l’assenza di quel cambiamento che seduce e sitmola, quella volta in cui una ci sarebbe anche tornata a lavorare ma con i figli piccoli ma chi te lo da il lavoro. E’ la voce di un’area intermedia di soggetti, che non è stata molto fortunata, non è stata molto determinata, non è stata molto curiosa ed è stata abbandonata dalla cultura della lotta al potere per il tramite del sapere che un tempo era il grande merito della sinistra italiana, persino di una certa democrazia cristiana e il cui risentimento è stato strumentalizzato e rifocillato da vent’anni di cultura berlusconiana che si è sempre peritata di cavalcare l’onda del complesso di inferiorità verso il sapere intellettuale e sofisticato e di associare il mondo intellettuale con un mondo di saperi e privilegi, e non come un mondo che poteva offrire delle opportunità.

Non è manco la metà di tutto quello che avrei voluto dire. Ma vi prego di intervenire, dire la vostra anche sollevare obiezioni, potrebbe venire un bel dibattito.

Nono Mese

 

Si rigirerebbe nel letto se il ventre glielo permettesse, e tutto il corpo che le sembra diventato immenso, immense le gambe e immense le braccia, immenso di quest’altra questione immensa a cui deve ancora dare un nome, angelo antonio alberto ancora non lo sa non ha deciso, il padre ha lasciato a lei la scelta, suo sarà il cognome, Angelo no pensa, guarda quanto si muove e quanto mi fa male. Chi sa quanto sarà agitato quando nascerà, un bambino davvero vivace, un bambino che si arrampica come un ragno sui divani e gli scaffali, un di quei maschi tutti di gomiti e ginocchi, che non si fa vincere da rami e da altezze, che ogni olivo è suo e ogni ciliegio, quanto arriverà in alto questo mio bambino.

 

Il sogno dell’altezza le va di albero in albero, mentre cerca il sonno e rimane come appeso a un ramo, perchè le torna il ricordo della prima ecografia, quando la dottoressa grassa aveva detto:guardi qua è questo!
Lei aveva guardato lo schermo e non aveva distinto tanto bene, qui qui! Aveva detto la dottoressa- e sua madre aveva gonfiato il seno come se fosse il suo uovo, mentre lei si vergognava come una ladra. Non aveva distinto proprio niente, nero con delle cose bianche e una di quelle dovrebbe essere un figlio, un bambino sugli alberi, un ingegnere, un maresciallo.
Però poi aveva sentito il raddoppio del battito, il secondo ritmo accelerato, tra quelle strie e macchie, una macchia bianca tutta di cuore.

Quel pensiero la lasciava senza fiato, glielo ricacciava dentro per portarsi dietro, con una logica magica e animale, la nuova e terribile esplorazione della morte. Che se tocchi l’inizio con un dito, l’immagine della fine è li vicina, prossima, attaccata, non ne scappi. Per questo insomma la sera faceva sempre fatica a prender sonno, non i calci e non i dolori, ma questo essere in una sorta di metafisica materiale e non poterci fare niente, godersi e soffrire l’ordine delle cose, essere spostata vicino a un limite da un centro dove ora c’è un altro, e non poter far niente di meglio che cominciare a guardare dentro le tombe le versioni del suo corpo, le possibilità della sua fine, la scelta del come  – ma non del se.
E poi niente. Provare davvero a chiudere gli occhi
.