Una rotazione epistemica di vita e di lavoro

 

 

Quando approdai alla professione di psicologa e psicoterapeuta, ma diciamo anche alla fase adulta della vita, avevo ancora dei solidi stereotipi culturali che credo fioriscano facilmente nei cultori della psicologia, specie della psicologia dinamica – in cui al tempo riponevo una fiducia di stampo messianico. Questi stereotipi culturali si fondavano soprattutto su una determinismo pervasivo per cui tutte le caratteristiche esistenziali dell’umano erano conseguenza delle vicissitudini sociali e familiari che aveva attraversato l’individuo, in un’agevole matematica in cui, la proprietà commutativa faceva da padrone. Se infatti quella persona sofferente che si rivolgeva alla cura era l’esito di una certa somma di fattori, la scomposizione di quei fattori e la loro eventuale sottrazione avrebbe portato a una catartica guarigione, una mutazione di personalità. Questa proprietà taumaturgica di una reinvenzione della soggettività è d’altra parte ancora condivisa da molti che guardano con sospetto angosciato tutte le variabili possibili dello strizzacervelli, tenendosene lontano nella paura che possa procurare sovvertimenti di senso, ribaltamenti di personalità, suggestioni pericolose. Mister Hide!

Questo ordine di convinzioni oltre che figlio dell’incanto di un’inesperienza di vita e di lavoro, era anche funzionale ai lunghi strascichi di una prospettiva adolescenziale, e a una sorta di cultura dell’adolescenza protratta di cui ero imbevuta ancora dieci anni fa o quindici anni fa, e di cui mi pare ancor oggi soffrano i giovani adulti. Nella prospettiva di un apprendistato all’autonomia dilazionato nel tempo, per cui si va via di casa tardi, si fanno figli tardi, si è cioè materialmente antagonisti dei propri genitori non prima dei 30 anni, se va bene, il determinismo globale era associato a una recriminazione protratta verso i genitori, una minuziosa rivendicazione di autonomia nel dire dove hanno sbagliato, cosa non hanno fatto di giusto, dove bisognava riformulare autonomamente quello che era stato colpevolmente quanto passivamente assorbito e certo imposto. Una generazione dall’ego debole e arrabbiato che scegliendo la mia professione combatteva la sua battaglia edipica – sebbene con un’epistemologia difettosa. Gente che un po’ come fanno le giovani che non riuscendo a disidentificarsi dalla madre ne rifiutano il cibo, non riuscendo a disentificarsi dal padre ne vogliono rifiutare la formazione psicologica.

Poi sono entrata nella vita e nel lavoro ad un altro livello. Ho cominciato a vedere tante tante persone, tante storie di vita e di trasformazioni e di mancate trasformazioni. Anche tante ricorrenze. E poi ho cominciato a vedere molti bambini e bambini che crescevano. I miei amici che facevano figli, quelli che germogliavano nella mia famiglia. E ricordo esattamente la prima volta in cui ebbi quello che per me fu un insight determinante, l’inizio di un modo nuovo di pensare. Andai a conoscere la bimba di una cara amica di mia sorella e poi nel tempo anche mia , e questa bimba avrà avuto 8 o 9 mesi – forse un anno.

Ne conoscevo benissimo la mamma e il padre e pure i nonni. Persone gentili, di modi contenuti, tendenti al riservato, persone di metodo e di passi ragionati. E inoltre: genitori attenti, responsivi, molto calmi, persone poco inclini ai colpi di testa: un lungo fidanzamento e poi il matrimonio. E questa bimbetta invece con gli occhi di carbone gattonava come un razzo, rideva seduttiva, prendeva il mondo in mano e lo lanciava, questa bimba ci aveva un tratto caratteriale libero e testardo tutto suo, un’allegra opposività. E io rimasi affascinata da quell’Io separato ed esplosivo che si imponeva tra gli ospiti. Da quel qualcosa che emergeva di irriducibile alle matematiche delle emulazioni e dei condizionamenti, qualcosa che forse era della tenacia della madre non facilmente percepibile. Negli anni mi ha divertito osservare da lontano che fusto è diventato quel tratto caratteriale.
E ancora ricordo un’altra mia amica figlia di una famiglia numerosa, ricordare il modo in cui sua madre riconosceva i diversi tratti caratteriali di ogni figlio a partire dal suo modo di stare nella pancia. La sorella più piccola di questa mia amica per esempio, nella pancia scalciava come un’indemoniata, dormiva pochissimo ed era tutta una capriola, e una volta uscita è diventata prima una bimba con le ginocchia perennemente sbucciate poi una ragazza con la valigia sempre pronta e il passaporto in mano.

Questa scoperta della corda del carattere, la traduzione poetica del genoma, l’apriori identitario su cui reagiranno le chimiche dell’ambiente e delle circostanze familiari, che certo non smettono di fare la loro potente parte, mi ha fatto poi cominciare a pensare le terapie in un’altra luce e in un altro modo di procedere. La tentazione infatti di seguire i pazienti pensando costantemente agli atti che sono stati loro fatti e come loro hanno reagito di volta in volta era utile fino a un certo punto, ma era pericoloso in un altro senso perché dopo, una volta acclarato che, capito cosa, dove si va? E’ giusto pensare che non rimane niente? Che siamo solo quella matematica? E’ per altro epistemologicamente corretto? Come facevano le forze ambientali a produrre un effetto se dovevano moltiplicarsi con uno zero? la matematica insegna infatti che qualsiasi cosa tu moltiplichi per zero deve dare zero, allora noi dobbiamo pensare a uno spessore diverso, e quello spessore è l’io e la personalità che prende gli oggetti ambientali. E quella cosa va vista e riconosciuta. Farlo vuol dire acquistare tutto uno spessore in più dell’azione e del ciclo di cura. Significa ritrovare il bambino che uno è sempre stato, prima di quello che per esempio qualcuno ha reso triste o molto arrabbiato. Significa anche far cadere nel controllo della propria responsabilità le azioni e le scelte per se, e dunque la realtà che diventa così più modificabile. E’ stata forse fino ad ora, la rotazione più importante che è capitata al mio sguardo esistenziale e professionale.

Un pensiero su “Una rotazione epistemica di vita e di lavoro

  1. Nelle occasionali incomprensioni con mia madre ho spesso rifiutato un’immutabilita’ che mi attribuisce, come se si trattasse di un suo bisogno di rigidita’, di tenermi stretta in un disegno ormai passato. Leggendoti, mi sono chiesta se non ci sia, in quel nuce che va ribadendo, un po’ di quella bambina che sono stata prima che. Certo vista dai suoi occhi, ma forse – se la cerco vista coi miei – ci trovero’ un po’ dei salti che facevo nella sua pancia. (grazie)

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