Come sa chi mi segue da tanto tempo, ho avuto per un lunghissimo periodo un blog su cui scrivevo con uno pseudonimo. All’epoca non avevo una pagina Facebook, non scrivevo libri e quello era il contenitore totale di tutte i miei modi di scrivere, che sono effettivamente molto diversi tra loro. C’erano i post che si leggono anche qui, di psicologia soprattutto ,ma anche di letteratura o di analisi politica e c’erano anche le cose che oggi riverso con più disinvoltura sulla mia pagina Facebook, post umoristici, o post riferiti alla mia vita privata. C’erano anche post, come ci sono qui che mettevano in campo slabbrate vocazioni letterarie.
Quel blog mi portò fortuna e lavoro. Mi ha accompagnata nella mia crescita professionale di psicologa, e mi ha portato a pubblicare i due libri, a cui seguirà un terzo – previsto per l’anno prossimo. Quella miscela di alto e basso, romanesco e forbito, gioco letterario e gioco intellettuale, riflessione sulla clinica e uso della clinica per capire certe cose del mondo contemporaneo, mi fece ottenere – mio malgrado una credibilità. Fu un’esperienza curiosa – perché mi rendevo conto che sotto pseudonimo scrivevo molte più cose autentiche di quanto facessi col mio nome – dal momento che rispetto a certe agenzie culturali, in primo luogo la mia associazione analitica – nutrivo un timore reverenziale, e una forte idealizzazione, che ancora è in fase di smantellamento, direi che sono solo all’inizio.
Fatto sta, che quando accadde che, quella rivista che veniva dai miei contesti culturali, e se vogliamo di classe citò “l’articolo della psicologa Zauberei” io mi dissi che era arrivato il momento di scrivere in chiaro. Quindi aprii questo blog, pubblicai a nome mio, il secondo libro, che conteneva molte irriverenze e mescolamenti di linguaggio alto e basso, e inoltre nella mia pagina facebook non mi trattenni, e continuo a non farlo, dall’ usare il linguaggio in tutta la sua estensione linguistica – e quindi includendo nell’ordine: dialetto, turpiloquio, neologismi di mio conio, come vezzi passatisti nell’uso di termini desueti. L’unica cosa su cui ho dovuto mettere un potente freno è stata la divulgazione di elementi riguardanti la mia vita privata, racconti sulle persone che compongono la mia famiglia perché queste narrazioni, avrebbero compromesso il mio lavoro di psicoterapeuta – e la qualità delle sedute con i miei pazienti. Tuttavia, mi rendo conto che il gradiente di privato che nella pagina facebook circola, è più alto di quello di diversi colleghi, non di tutti – anche se è un privato che mi sento in linea di massima di controllare. Non ho timore a dire cose come “stasera pollo al curry” o “mi piacciono molto le scarpe”.
Ora sono passati due anni, e mi trovo nel complesso a mio agio nella mia scelta di lavoro. Io scrivo molto, è una modalità di digestione dell’esperienza da cui prescindo malvolentieri, e che nel mio caso si serve di un uso esteso della lingua che scavalca di molto la sintassi della produzione specialistica, e che afferisce a diversi usi possibili. Questo uso esteso della comunicazione, però comporta una serie di problemi e riguardano me moltissimo per questo desiderio – per lo più esaudito – di scrivere di ciò che desidero, ma che riguarda molto tutti i colleghi nella misura in cui internet e i social network hanno imposto una terza modalità di comunicazione rispetto alle due tradizionali e opposte tra loro quelle della colloquialità contrapposta alla comunicazione formalizzata – magari da un contesto professionale.
Cosa fare cioè con questo nuovo mondo comunicativo orizzontale e fluido, che implica la rete? E in cui si incuneano e ci si approvvigionano diverse figure professionali anche blasonate? Cosa deve fare lo psicologo con questo Facebook in cui è abitudine mostrare foto di figli piccoli, parlare di dolori privati, darsi del tu tra prestigiosi accademici, accorciare le consuete distanze di sicurezza che tanto hanno facilitato la prassi clinica ( e ostacolato però mi viene d’aggiungere, la sua accessibilità)?
Gli psicoterapeuti, e mi viene da dire anche a mio discapito, i migliori di essi – sono stati spesso, anche se non sempre, molto nascosti, poco propensi a usare la comunicazione mediatica, hanno scritto poco sui giornali, non si sono visti quasi mai in televisione o sulla stampa. Questo per diversi motivi. Il primo riguarda la difficoltà a imporre una comunicazione complessa in un dibattito pubblico che premia la semplificazione e la impone come norma editoriale. Agli analisti che collaborano con testate giornalistiche si chiedono poche battute e pochi avverbi, in nome di una facilità che modifica però geneticamente i commenti, e trasforma il clinico complesso in qualcosa che non vuole diventare. Non riuscendo a imporre le regole del gioco il clinico spesso desiste. In secondo luogo e questo anche per me rappresenta un problema per cui mi sono imposta dei limiti – lo psicoterapeuta che si fa molto vedere in pubblico, fa qualcosa alla terapia con i suoi pazienti, che lo possono vedere fuori della stanza, come un oggetto pubblico e condiviso. Io per esempio – anche se mi sembra ancora molto ridicolo il fatto che lo abbia comunicato alla mia casa editrice – ho fatto sapere che mai avrei promosso il mio libro in televisione. E’ estremamente improbabile che io arrivi ad avere quel genere di successo, però lo vivrei come un enorme tradimento nei confronti dei miei pazienti. Da un punto di vista tecnico poi, l’uscire molto dalla stanza d’analisi, porta al far uscire delle parti di se che emergono in maniera incontrollata e che se tornano nelle cose dette dai pazienti in terapia, possono essere degli elementi spuri che sporcano la comunicazione, che fanno fraintendere la narrazione del paziente. Non sono problemi gravissimi, ma possono rallentare il lavoro.
L’uscire in rete però, ha rispetto all’uscire nei tradizionali mezzi di comunicazione una serie di connotazioni radicalmente diverse, legate alla diversità del mezzo, che implicano diverso tipo di rischi e diverso tipo di vantaggi – questi ultimi, secondo me superiori.
In primo luogo la rete permette una scrittura libera, il che non vuol dire soltanto libera nella direzione della banalità e della reiterazione di un’offerta che saturi una domanda consolidata, ma anche nella direzione opposta ostinata e contraria della complessità, dell’astruseria, della divulgazione di concetti ostici, colti esoterici: perché la scrittura in rete è gratuita, la sua fruizione è altrettanto gratuita e si ha la preziosa possibilità di scrivere senza ossequiare le regole di un presunto target o di una presunta regola dell’editoria, questioni che hanno particolarmente avvelenato l’imprenditoria culturale italiana. Quindi finalmente lo psicoanalista che ha desiderio, come io lo ho avuto, di parlare di oggetti collettivi con la lente analitica e tutte le codifiche sofisticate del caso, può farlo, nessuno gli dirà che non vende, o che non è adatto a quel tipo di pubblico: metterà il suo articolo in rete, e chiunque farà una ricerca dell’argomento di cui parla lo troverà, e se il suo articolo esaudirà una serie di domande in modo soddisfacente, quell’autore avrà trovato qualcuno che lo seguirà. Ancora di più sono le possibilità di creazioni linguistiche che perforino e attraversino la scrittura di genere, o la scrittura saggistica o divulgativa. In questo senso, io ho largamente approfittato della rete, lavorando a una prosa che portasse dentro alla divulgazione della psicologia dinamica sperimentazioni linguistiche che le sono estranee, e penso che se questa prosa non avesse trovato il suo piccolo mercato qui, non avrebbe avuto diritto esistenziale per nessuna casa editrice – o almeno sospetto.
La possibilità di non osservare un canone, rappresenta però soprattutto per quel che riguarda l’uso dei social network e per quel che riguarda la mia professione o una trappola pericolosa o un complicato dispositivo da saper usare con perizia. L’assenza di contenitore infatti porta a esporre parti di se che il rigido formato della divulgazione tradizionale non permetteva con altrettanta facilità. L’assenza di informazioni sul privato degli psicoterapeuti, sulla loro dimensione quotidiana e umana (hanno figli? Non hanno figli? Sono sposati divorziati? Sono ricchi poveri ma anche, sono introversi estroversi permalosi? Hanno hobby passioni debolezze? E via di seguito nell’infinita curiosità dell’umano) è sempre stata percepita dal vasto pubblico come una scelta elitaria, oppure di una scelta per tutelare il prestigio, una scelta cioè assimilabile a quella di altri professionisti o figure genericamente di potere o di elite culturale. In realtà però è una cosa che protegge moltissimo la terapia, la quale vive della possibilità di essere un campo emotivamente caldo, dove però tutto quello che accade dentro deve avere quanto meno una provenienza tracciabile e meglio se questa provenienza è tutta dalle regioni del paziente, visto che quelle sono le regioni concimate da dispiaceri e problemi antichi. Siccome un modo consueto anche se non l’unico, dei pazienti di portare ritratti di queste zone concimate dal dispiacere è di attribuire all’analista anche in forma di fantasia e dubbio cose che invece non è detto che gli appartengano, va da se che meno i pazienti sanno del privato del terapeuta più il lavoro sarà facilitato. Ne consegue che l’esperienza sui social per un clinico può essere fonte quanto meno di complicazioni perché non solo il potenziale paziente può venire a conoscenza di aspetti del futuro terapeuta che potrebbero inquinare le sue comunicazioni, ma ciò può accadere anche con persone che gli sono vicine, e che potrebbero per i più diversi scopi – vantarsi di una conoscenza per esempio – dirgli delle cose private dell’analista.
Per questo ordine di inconvenienti io uso una serie di stratagemmi, il primo dei quali è precludere ai miei pazienti il contatto con me via facebook o altri social. Ma siccome non è escluso che arrivino richieste di terapia dalla rete stessa, è importante controllare i contenuti che si propongono e sapere di averli messi in un campo, perché potrebbero riverberare nella stanza d’analisi.
Tutto questo mi risulta fattibile anche per una questione di metodo nell’esercitare la professione. Tra i tanti modi di classificare gli psicoanalisti oggi, anche di area junghiana c’è la polarità che oppone un modello di clinica più vicina all’ortodossia freudiana e un modello di clinica più vicina al modello relazionale. Gli analisti che lavorano secondo il primo modello, per quanto possano aver tesaurizzato i moniti della ricerca recente, preferiscono mantenere un idea dell’analista come soggetto neutrale, più silenzioso, megafono di quanto il paziente dice e interpretante quello che il paziente dice. Questo tipo di analista non dirà mai niente di se, niente che non sia una lettura di quello che porta il paziente, e quanto il paziente dirà di lui sarà in primo luogo letto in termini di transfert. Gli analisti invece di area relazionale, pur avendo idee molto severe per quel che concerne il setting e la necessaria rigidità delle sue pareti, concepiscono la possibilità di comunicazioni che vengano persino dall’esperienza privata del terapeuta purchè sia naturalmente sporadica e si abbia anticipatamente almeno parziale contezza di quello che accadrà quando quel contenuto sarà introdotto e del perché lo si fa. Molti junghiani lavorano in questo modo e nella mia prima analisi con Gian Franco Tedeschi ho largamente beneficiato delle sue rare comunicazioni private – le sue Self Disclausure, per usare il termine tecnico. Le volte in cui i miei pazienti – cosa che è successa molto raramente – hanno portato oggetti miei che io ho deliberatamente lasciato cadere in rete – per esempio quando è morto mio padre, ho utilizzato quell’oggetto personale come se fosse una self discousure, e devo dire è stato sempre molto utile. E’ interessante constatare infatti che questi oggetti caduti nella rete, mai casualmente, non sono sempre colti, lo sono anzi raramente. La maggior parte dei pazienti ha giustamente pochissimo interesse per la vita del proprio analista- vengono per parlare di se, non do noi – e quando capita l’oggetto in mano, è utile alla terapia vedere come verrà maneggiato.
Probabilmente questa non è l’unica questione di metodo che il vivere attivamente la rete di uno psicoterapeuta attiva, ce ne sono anche altre. Per esempio la rete può amplificare e diciamo sustanziare processi di idealizzazione di chi ha nel suo interno un profilo largamente accessibile, perché l’idealizzazione e la gerarchizzazione di piccoli gruppi è nel suo microfunzionamento: chi vi scrive molto e magari ha una discreta affabilità affabulatoria unita a un bisogno di leadership o di generico ritorno narcisistico produrrà immediatamente un piccolo seguito, una costellazione di amici che però si percepiscono non di rado anche un po’ fan. E’ un gioco di ruolo, che con una certa lucidità può essere facilmente letto come tale, senza soffrire troppo o senza montarsi la testa. Io stessa ho il mio seguito e sono per dire, alllegramente il seguito di qualcun altro. Ma tutto questo innestato su una relazione professionale di aiuto è un altro oggetto semantico da studiare e vedere nella sua interezza, perché già di per se lo psicoterapeuta occupa una posizione asimmetrica, rispetto al paziente, nonostante le giuste riflessioni epistemologiche che la psicoanalisi relazionale ha portato in campo, riguardo l’interdipendenza dei soggetti che partecipano alla cura, e ai processi di cocostruizione di quando viene detto in terapia. L’analista è vissuto come: qualcuno che aiuta un altro e si fa pagare per questo, come quello che sa rispetto a quello che non sa – e tutte queste cose possono – anche se non accade sempre – essere estremizzate dal paziente che abbia paura di mettersi in gioco. E quindi, per dire, la larga presenza di un analista on line con tutto il seguito che implica può fortificare le resistenze alla cura, colludere con esse. Più esce un’analista meno esce il paziente, mi ha detto una volta una collega che stimo.
Anche questa cosa però per me, può essere vista e analizzata nel medesimo campo analitico, perché mi rimane la convinzione che, se un paziente sfrutta la notorietà del suo analista per non mettersi in gioco, l’oggetto importante è il perché lo fa, e il motivo che sfrutta andrà indagato sempre in virtù del perché lo fa.
Possono emergere dunque delle complicazioni che sono comunque arricchenti e utilizzabili. Tuttavia ci sono altri vantaggi che secondo me è importante non sottovalutare.
Una classe di vantaggi riguarda l’importanza di abitare un cambiamento di costume che modifica radicalmente le prassi quotidiane di routine e di comunicazione delle persone. Questo cambiamento va abitato da chi di mestiere si occupa di persone, secondo me, e non semplicemente studiato in maniera indiretta. E’ un po’ come la terapia, che non puoi fare a terzi se non l’hai prima di tutto esperita su te stesso, e non ti basterà mai leggere di terapie o vedere come viene fatta ad altri. Così è la vita della rete. Le persone che usano la rete hanno nuovo campi relazionali che modificano le loro vite – e portano per esempio queste modificazioni nelle stanze di cura. I loro rapporti familiari sono interessati pesantemente dall’avvento dei social network, e bisogna starci dentro e in sostanza viversi la modificazione dei propri per capire bene come si sentono loro quando per esempio un ex compagno non gli dice che si sta separando ma lo capiscono da cosa scrive su Facebook, o l’angoscia che provano quando il proprio figlio non da notizie di se su uotpsapp, ma per fortuna che c’è un modo di capire che ha letto il messaggio, per cui il figlio è vissuto come insensibile e ingrato magari ma è vivo e vegeto sulla via del ritorno.
Una seconda classe di vantaggi riguarda la divulgazione e l’accessibilità alla psicoterapia, sia intesa come oggetto complessivo connesso a un sapere che ha bisogno di essere divulgato perché se ne desideri l’applicazione – e quindi brutalmente perché gli psicologi abbiano da lavorare – sia intesa come possibilità di intervento per il singolo. Un uso accorto della rete, con una diciamo disinvoltura sorvegliata – permette la possibilità di farsi conoscere in maniera non mediata, non filtrata, ma controllabile principalmente da noi. E io credo che questa sia una cosa troppo urgente, oggi, perché ci si possa rinunciare, e se questo passa per l’esplorazione di modalità comunicative diverse, di una sintassi alternativa nella produzione di concetti, non è detto che questo sia un danno: mi sembra anzi un terzo vantaggio enorme, rispetto ai media tradizionali.