Analista in rete. Terzo capitolo

A questo punto l’analista che è in rete sa che deve mettere in campo una nuova persona professionale che riesca a mediare le richieste della rete – tarate sulla familiarità e l’estroversione, e le richieste della sua funzione professionale – tarate sulla riflessione e l’introversione. Credo che ci possano essere molte soluzioni, le quali sono funzionali all’equazione personale dell’analista ma anche alla sua capacità di dominare il linguaggio. La nuova persona professionale che sta in rete infatti, ha degli oneri in più perché non può affidarsi esclusivamente al rodato lessico della divulgazione scientifica. Internet è una nuova forma di spazio pubblico che si connota bisogna dire anche virtuosamente, per uno scambio informale di dati e contenuti. L’informalità di questo scambio elimina le barriere protettive della scrittura specialistica e crea un arsenale comunicativo in cui entrano molte più variabili di linguaggio e di argomenti – quindi una capacità nel saper scrivere, nel saper tradurre in linguaggi diversi ciò che passa per la testa è molto utile.

Per quanto possa sembrare legittimamente inquietante, la rete chiede più volentieri una serie di informazioni personali accessorie a chiunque la abiti, e lo fa anche a noi che abbiamo sempre lavorato con agio fornendone il meno possibile. Non è però così difficile trovare una soluzione di compromesso, perché in finale quello che importa non sono davvero tantissimo i dati di vita privata che si è disposti a mettere in campo – ma la varietà di registri tematici e di oggetti terzi mediabili. Si può tranquillamente abitare la rete senza dare conto di proprie questioni private e familiari (oppure farlo dedicando queste questioni a un pubblico molto ristretto usando gruppi chiusi) e risultare accessibili utilizzando oggetti terzi e vari livelli linguistici. La mia personale soluzione per esempio prevede una rotazione di articoli sul blog e affermazioni sui social network ponderate, correlate al mio lessico professionale e alla mia formazione scientifica, con post e affermazioni che usano registri diversi umoristici e lievi, che fanno riferimento a debolezze quotidiane, fino a post seri e preoccupati o coinvolti su oggetti politici o temi che mi interessano. I primi sono contenuti moderatamente dissimili dalla divulgazione dei contesti tradizionali – riviste convegni. I terzi sono contenuti tutto sommato assimilabili all’opinionismo che quotidianamente si legge sulla stampa su questioni che infiammano il dibattito pubblico, i secondi invece – i contenuti umoristici e quotidiani sono un oggetto letterario terzo, che sceglie alcuni contenuti privati ma spendibili e che siano però molto quotidiani e condivisibili.

Infatti, non credo che ci sia niente di veramente increscioso se uno psicoanalista, ma anche un qualsiasi altro professionista – mostri di amare scarpe, o vestiti – o una squadra di calcio. Al contrario l’uso di diversi registri e campi dialogici – dai negozi alla bibliografia sui concetto di Persona che potrebbe essere allegata a questo post – rappresentano la presentazione di un oggetto doppiamente affidabile, sia per una vasta consapevolezza dell’umano che include lo spicciolo, il veniale, il quotidiano – aspetti da cui gli psicoanalisti sono sempre stati considerati eccessivamente lontani anche da colleghi di altro orientamento – sia perché esattamente l’aggancio su questi aspetti spiccioli veniali e quotidiani permette a diverse persone di accedere a contenuti intellettualmente più impegnativi. Questa cosa infatti mi ha insegnato la rete: molte persone non affrontano lavori e articoli di divulgazione impegnativa con rimandi colti e derivati dalla letteratura specializzata non perché non ne siano attratti, ma perché tendono ad autopercepirsi come meno competenti, meno in diritto di quanto realmente siano – anche per una questione di status sociale, o di presunta illegittimità dovuta a una lontananza professionale o categorizzata come di classe. Una pagina facebook che ironizza sul quotidiano più condivisibile crea una base che rende più accettabile ovvia, acquisibile la comunicazione colta – e finisce che molte persone ci scivolano dentro quasi senza accorgersene. Diciamo dunque, un concetto virtuoso di follower, nel lessico della rete.

 

Una maggiore attenzione o quantomeno studiata consapevolezza, va posta invece riguardo altri e altrettanto dirimenti contenuti che la rete elicita, e in particolar modo i social network e che riguardano propri aspetti caratteriali, i quali come dire trasudano nostro malgrado da mille spie spesso sottovalutate. Per tanto tempo internet i blog e social sono stati dipinti da chi ne era estraneo come la terra della finzione, ma in realtà è assolutamente il contrario: sono il luogo dove un’estroversione scritta, spostata dalla correlazione con il volto e il corpo, titilla e invoglia l’espressione di aspetti salienti di se – proprio in virtù di quella provvisoria separazione del corpo. Persone la cui formalità contiene quotidianamente per esempio un’aggressività latente si mostreranno più reattive. Persone i cui complessi sociali inibissero un modo di essere creativo si mostreranno più creative. Per non parlare di tutte le cose che dicono di se le parole usate specie quando non vengono scelte con cura e cognizione di causa, o delle cose che dice di se, un certo uso della punteggiatura piuttosto che un altro. Se non si mette in atto una sorta di consapevolezza estetica, una consapevolezza da scrittore in quella comunicazione quotidiana, lo stile comunicativo dice delle cose di noi. Per fare degli esempi: l’uso di emoticon o di punti esclamativi in abbondanza versus l’uso di puntini di sospensione in eccesso. La modalità di controargomentazione nella scelta dei toni, certe sussiegose formalità che anziché essere solo scritte sono la traduzione scritta di un assetto valoriale di fondo, certe modalità invece creative che possono essere irruente, o francamente aggressive.
Tutte queste cose sono da gestire, e da gestire con maggior impegno quando in rete, per usare una terminologia junghiana dovessero comparire personaggi ombra e argomenti complessuali che riguardano sul piano simbolico il privato di ognuno di noi. Ho visto analisti piuttosto bravi nella gestione delle loro relazioni e comunicazioni ogni giorno lasciarsi coinvolgere, o magari decidere scientemente di mostrarsi coinvolti in discussioni politiche che mettevano in evidenza la loro gestione del dispiacere, della ferita narcisistica, del dissidio etico. E’ tutt’altro che infrequente perdere l’orientamento nel social e lasciarsi andare. Ognuno ha le sue aree pericolose. Io per esempio ho imparato a tenermi a debita distanza da tutte le discussioni che riguardano ebraismo, Israele, Palestina. Ci ho messo certo del tempo.

Questa cosa va ben valutata perché può essere un rischio e una risorsa. Un rischio perché l’umanità è giudicata come eccessiva, sovrabbondante, intrusiva – specie se si pensa all’oggetto mentale della persona analitica, un vantaggio perché l’onesto per quanto controllato mostrarsi dell’equazione personale di un terapeuta, lo rende riconoscibile e sceglibile proprio per quella personalità che lealmente mostra. Affidabile: una delle cose che spaventa di più le persone che devono intraprendere una terapia è questo fatto di dover andare da un tecnico del quale sembra sia illecito chiedere a proposito delle sue caratteristiche private quando nell’intimo – dovendo parlare di se è la cosa che per molti è più importante. Noi clinici sappiamo che possiamo lavorare bene con transfert cosiddetti negativi come con i positivi – anche se nel primo caso indubbiamente il lavoro è molto più lungo e faticoso – ma insomma con una scelta del genere l’alleanza terapeutica parte meglio. In sostanza in rete ci potrebbero essere dei potenziali pazienti che diranno, anche sottovalutando questioni tecniche importanti che non ci potrebbero scegliere per ciò che hanno intuito di noi, e altri che lo faranno proprio per quello che hanno intuito.

Ma di tutto questo e degli effetti nella terapia, parleremo meglio nel prossimo post  – dedicato alle psicoterapie che nascono da una conoscenza su internet.

 

Analista in rete. Secondo capitolo

 

 

Per capire meglio una serie di implicazioni che riguardano l’uso dei social e di internet da parte dello psicoterapeuta, e gli effetti che ha nelle sue relazioni sia con i potenziali pazienti che con quelli che sono già in terapia vorrei fare una serie di osservazioni preliminari che credo possano essere utili.
Possiamo considerare che con l’ingresso di internet nelle prassi relazionali quotidiane – in termini di psicologia sociale è intervenuto un terzo ruolo della rappresentazione soggettiva.

Tradizionalmente infatti noi eravamo abituati a ragionare opponendo la costellazione della identità primigenia di un individuo alle sue declinazioni di ruolo sociale. La sociologia ha espresso diversi costrutti intorno a questo tema – per esempio opponendo alla soggettività l’habitus, oppure riprendendo il concetto junghiano di persona, ossia della parte della personalità che un soggetto mostra al proprio contesto sociale. Gli psicoanalisti sono sempre stati tentati di considerare questa declinazione adattiva nei termini di una scelta nevrotica, individuando un triste bisogno che fa abdicare alle proprie caratteristiche primigenie in vista di un’accettazione emotiva che si sente come prioritaria e urgente. L’hanno fatto perché oggettivamente le modalità con cui si costruisce una persona che risponda ai valori sociali della propria contemporaneità risentono e anzi replicano le prime soluzioni adattive al primo ambiente sociale di riferimento di cui un soggetto dispone, che è il rapporto con i suoi genitori e più frequentemente in un sistema sesso genere tradizionale, con la figura materna – dietro questa sospettosa decodifica per esempio c’è il concetto winnicottiano di falso se. Tuttavia dal secondo novecento in poi è cambiato anche lo stile dello sguardo dei clinici, e nella ricerca si è cominciato a parlare in riferimento alle stesse dinamiche – di risorse e di affordances, di strategie apprese e che possono però essere utili a una buona qualità di vita. L’assunzione di un certo ruolo professionale quindi implica una percentuale di camaleontismo necessaria, non solo per la mera soddisfazione di una domanda sociale nei termini dello stereotipo professionale, ma anche perché il potenziare certe caratteristiche rispetto ad altre, aiuta a svolgere meglio quel certo lavoro che implica suoi specifici compiti.

Per la nostra professione di psicoterapeuti, e io parlo soprattutto per la mia famiglia professionale quella degli psicoanalisti e degli psicologi analisti, noi abbiamo avuto sempre a che fare con una prima polarità: la nostra soggettività di persone – estremamente variegata: analisti timidi, analisti audaci, analisti livorosi, analisti gentili, analisti materni e paterni, analisti con molto umorismo e analisti tetri come cimiteri, analisti vanitosissimi e analisti complessati e via discorrendo, e la nostra persona analitica con tutta la costellazione di necessità comportamentali che implica il nostro mestiere, e le richieste e proiezioni che ci mette sopra il nostro contesto sociale. Esiste cioè un carattere sociale dell’analista – uno stereotipo culturale che può essere in parte forzato da luoghi comuni, ma in parte si nutre di dati di realtà che sono realmente importanti. La persona analitica deve parlare relativamente poco, perché è pagato per ascoltare gli altri: se esso è di indole chiacchierona o silenziosa, dovrà comunque attestarsi su una zona di moderata occupazione dello spazio dialogico. In secondo luogo, per fare un altro esempio, per quanto la persona analitica possa avere grande affezione politica e ideologica per certi temi che gli sono cari e importanti per lui, sia che sia un appassionato combattente che un prudente osservatore, nella stanza d’analisi non potrà mettersi a pugnare con le idee del suo paziente come combatterebbe sul piano di realtà e quindi sempre nella zona psicologica del tipo osservatore dovrà mostrare di attestarsi. Oppure ancora: personalità particolarmente umorali o particolarmente egocentriche dovranno cercare di girare, nella stanza di terapia la manopola del loro carattere e limitarsi a usare le emozioni che provano per le esternazioni del paziente ai fini della terapia della cura. Il paziente infatti non è li per godersi lo spettacolo di una soggettività altrui e manco per cibarsi una pedagogia politica non richiesta, è li per risolvere dei problemi – e l’analisi del controtransfert serve a questo. Ulteriormente l’analista che come tratto di personalità è molto riservato, silenzioso, per sua natura poco accogliente e poco portato a fornire comunicazioni emotive, dovrà trovare un modo per far girare la manopola e mostrarsi capace di tutte queste cose, mostrare una sorta di quota minima di campo materno per facilitare il lungo lavoro del paziente.
E’ interessante constatare come in generale tutti siano portati a credere che il modo di essere di un analista in stanza corrisponda pedissequamente con la sua soggettività e si sottovaluti anche da persone colte e competenti la capacità di modulare il proprio arsenale caratteriale – grado di affettività mostrata, grado di estroversione, grado di umorismo etc – in vista di questo ruolo professionale. Di questa modulazione si rendono conto soltanto gli analisti che hanno attraversato una formazione analitica credo, perché sono i pochi che hanno potuto osservare uno psicoterapeuta nel suo quotidiano per esempio di didatta in una scuola, e nella stanza di analisi quando cioè è diventato il loro analista per un lavoro di formazione, o quando ha fatto il supervisore dei loro casi clinici. Loro o di un loro collega. Capita cioè di vedere per esempio didatti che a lezione risultano estremamente brillanti estremamente narcisisti, ed egocentrici e dire – mo’ questo ma come sarà in stanza, per poi scoprire quando si è in stanza, o quando ci è andato un nostro amico specializzando che invece è un analista silenzioso e gentilissimo. Per me almeno è stata una scoperta importante, che mi ha anche molto rassicurata sulla mia capacità di girare la manopola della mia esuberante personalità a mia volta.
Nell’opinione pubblica però questo scarto non c’è – magari astrattamente le persone sarebbero disposte a pensare che ci sono analisti con tante caratteristiche diverse, qualcuno legge qualche biografia dei più famosi e scopre cose interessanti, ma il pensiero condiviso è che il terapeuta è sempre silenzioso, partecipativo, osservatore, sagacissimo, controllato e spesso e volentieri – mesto.

 

A questo primo binomio si pone invece una terza identità che è quella della rete e che invece tendenzialmente, qualsiasi professione tu svolga, tende a chiedere alla tua personalità una modifica nella direzione opposta. Su internet soffia un vento che spinge alla rappresentazione dell’estroversione, per il semplice fatto strutturale che se stai silenzioso e non dici delle cose, non proponi contenuti non risulti sulla mappa. Tecnicamente un analista vecchia maniera seduto e silenzioso ad ascoltare può anche esserci, ed effettivamente c’è – mi pare che la maggior parte mantengono questa posizione – ma dalla rete non è avvertito. E anzi, anche la rete ha una sua rappresentazione culturale di leadership, premia certi comportamenti a discapito di altri, e la persona junghianamente parlando, che ha successo in rete è in un certo senso diametralmente opposta alla persona che è considerata socialmente idonea a fare il bravo terapeuta. La rete infatti vuole orizzontalità dei rapporti, linguaggio smart, produzione di lessico seduttivo e idee originali, chiede un’agilità privata e più intima delle vecchie distanze relazionali novecentesche – il lei in rete è ridicolo, la deferenza fuori luogo, si caldeggiano foto di bambini e cuoricini per l’anniversario di matrimonio. La rete inoltre incoraggia l’esposizione di affetti politici e ideologici, invoglia alla pugna e alla battaglia culturale. Di contro, scoraggia la narrazione esplicita di proprie aree problematiche: in rete raramente si narrano propri fallimenti, errori madornali, gaffes che incrinino la propria immagine pubblica.

Questo va incontro a certi processi cognitivi di cui si va discutendo anche con preoccupazione negli ultimi anni, perché si nota che l’uso della rete da parte di molte persone sospende qualsiasi senso critico e fa credere che qualsiasi cosa venga mostrata è una verità totale e non un’immagine parziale. Quando Spielberg si fece fotografare con un triceratopo tramortito sul set di jourassic park 5’000 animalisti americani insorsero perché si era fatto vedere con un animale morto alle spalle, spacciando per vera cioè una chiara finzione, oppure, altro esempio interessante – una giovane donna mi fece notare che, siccome aveva mostrato una foto di se incinta in rete qualcuno le aveva scritto nei commenti: ma allora hai fatto l’eterologa? Perché siccome non aveva mai parlato del suo compagno, le persone che avevano visto il suo profilo avevano dedotto che lei non avesse un compagno. La rete cioè produce questo processo cognitivo per cui si segmentano parti della vita di una persona che il soggetto propone come segmenti e li trasforma in tratti globali. Se ne deduce che, già le persone fanno fatica a capire che la modalità di stare in seduta di un analista è una sua funzione professionale che non necessariamente combacia con la sua struttura caratteriale – la rete può peggiorare la situazione ossia, può tendere a costruire una personalità superestroversa e smart e seduttiva intorno ai comportamenti manifestati dal singolo utente attivo, anche nel caso in cui faccia l’analista e portare le persone a dare per scontata che quella capacità di ascolto e relazione e modulazione di se siano lontane dal terapeuta letto su Facebook.

A questo punto quindi possiamo individuare due ordini di conseguenze negative ma soprattutto positive a saperle gestire. Il primo è relativo all’immagine dell’analista presso un pubblico di persone interessate alla psicologia, e ai suoi argomenti, quindi l’immagine professionale dell’analista a cui in un secondo momento si potrebbero rivolgere dei quesiti e una domanda di terapia. Il secondo riguarda la vasta serie di problemi ed effetti che la personalità analitica in rete dell’analista potrebbe provocare nelle terapie che sta seguendo. A questi due aspetti, dedicherò i prossimi due psichici post – il 3 e il 4 dell’Analista in rete.

 

In memoria della scuola di Francoforte. Su Costanza Miriano.

Il giorno dopo il terremoto ad Amatrice, e il giorno dopo ancora, la vita in rete di molti commentatori abituali ha subito una sorta di congelamento, di inpasse, di panico espressivo. Nella rete sono esplose le macerie, il conto delle vittime che saliva – e continua a salire, i dispersi. Sui social network ancora oggi mi pare che le cose stiano così, si sono – comprensibilmente drasticamente diluite le foto di gambe, ombrelloni, pesci alla griglia, vacanze e quant’altro di lieve superficiale, solare. Ci si è preoccupati per delle persone a rischio, e in qualche caso, non si può ancora smettere di essere preoccupati. In tantissimi ci si è anche interrogati su come poter essere utili. Un paio di miei contatti, a cui va tutta la mia ammirazione, è partito come volontario. I miei contatti più vicini al mondo scientifico hanno divulgato informazioni utili – per esempio sulla modificazione del rischio sismico in centro Italia dopo il terremoto de l’Aquila, o sulle modificazioni strutturali da fare alle abitazioni per renderle più resistenti. Molti hanno divulgato numeri utili e agenzie affidabili a cui devolvere soldi e risorse. L’abituale funzionamento narcisistico dei social network, nel suo arco espressivo che va dal salubre amore di se all’innocuo mostrare parti della propria soggettività fino alle forme di vanto patologico ha dovuto trovare un modo di dirsi, e allora si è assistito a un arco espressivo che è andato da “mi dispiace voglio fare queste cose” a “se lo meritano perché si sono inventati l’Amatriciana (indubbiamente qui, anche l’idiozia ha fatto la sua parte).

Una reazione singolare ma interessante per il seguito che ha avuto e le reazioni che ha suscitato, è stato il caso di Costanza Miriano che, dopo un paio di dichiarazioni accorate su Facebook ha proposto un’azione di preghiera collettiva organizzata scientificamente, per la salvezza delle anime dei deceduti nel sisma. Allo scopo di un atto liturgico più efficiente essa ha considerato necessario non semplicemente invogliare tutti a pregare per le vittime, ma proprio dal momento che ce ne è un certo numero, ognuno doveva scegliersi un morto, fare un certo ciclo di preghiere e – se non ho capito male – passare tramite una porta santa. La Miriano ha dunque ottenuto l’elenco delle vittime e l’ha pubblicato sul suo sito, incoraggiando i suoi seguaci a scegliersi un morto da onorare.
Il post è stato rimosso, ma chi ha avuto la ventura di leggerlo ieri ha assistito a scenari postmoderni mai visti primi a proposito di un terremoto.
– la numero 35 me la prendo io che si chiama come me!
– Guarda che Maria Rossi (nome inventato) c’è due volte!
 – Io mi prendo il 31! Ma ora sono in vacanza ci penso quando torno
  – Giovanni Bianchi 45 nato nel 1970 come mio cugino!

E via così.

 

Il post poi è stato rimosso oppure non è più visibile a tutti, perché qualcuno deve aver fatto sapere che rischiava una denuncia penale per violazione della privacy, non credo per la comprensione morale dei motivi che hanno ha prodotto quella norma, comprensione che invece era piuttosto chiara a tutti quelli che sono rimasti raggelati dalla trovata della Miriano e dall’orda di commenti postmoderni che ne è seguita. Né deve averlo tolto per la pioggia di critiche che ha suscitato, e per l’umorismo feroce che ha elicitato. Pokemon go ai tempi del fondamentalismo, ha commentato Giorgio Cappozzo, dalla sua bacheca molto seguita, Vinci una Vittima – l’altrettanto scandalizzato Marco Giacosa. La soluzione di Miriano è stata infatti, bannare tutti quelli che la contestavano, anche con forme tutt’altro che sarcastiche o ironiche.

La questione ci interessa non tanto per la Miriano stessa, icona pop sagace e perfettamente riuscita di cui qui ci eravamo già occupati per la sua interessante visione dei rapporti di genere (sposati e sii sottomessa, ma non guardare me che vendo bestseller, spopolo ai convegni, e mi riconoscono per strada quando esco con il milite ignoto, mio marito) ma per il senso di scacco che vive evidentemente il mondo cattolico oggi, l’inpasse della religiosità e della sua semantica nel nostro orizzonte postmoderno che chiede alla spiritualità e alla profondità una smaterializzazione che la profana e la offende, per cui trovare una via per una onestà spiritualità e un comportamento umano rispettabile diventa molto più difficile.   C’è in atto una sorta di spontaneo scollamento etico che in molte persone sgancia contenuti vite dolori dalla carne delle cose e ne fa un entità astratta, sganciata dalle vite vere, dai dolori veri.
Prima della sua offerta lancio, la Miriano aveva infatti disinvoltamente scritto:

“Volevo dire che a Roma romanisti e laziali hanno raccolto INSIEME cibo per i terremotati. Chi non è di Roma forse non può capire, io mi sono commossa.”.

Io che sono di Roma, ho avuto un conato di vomito.

L’idea cioè che si possa perdere di vista ciò che è ancora immediatamente presente, prossimo, vivo, le tende per strada, le persone negli ospedali, i soccorsi le case sventrate e possa essere messo accanto a Roma e Lazio, il tifo, il calcio i rigori la pesantezza e la levità il futuro perduto e il tempo libero mi ha fatto un sincero schifo. E quel sincero schifo, mi ha prodotto la lista dei nomi con i numeri e i commentatori che pensavano a cose vuote, quello si chiama come me prego per lui! Questo ci ha l’età di mio figlio, e i numeri i numeri – l’associazione al numero è quanto di più spersonalizzante, e immorale abbiamo già conosciuto. Pregare così astrattamente per qualcuno di cui non si prova nessun rispetto. Mi è sembrato un peccato infernale.

Le critiche che sono arrivate dal web sono state lette dalla Miriano come un attacco di tipo ateista. Ma io per esempio non ho una matrice atea, a me l’operazione della Miriano mi è sembrata specificatamente empia, empia nella direzione postmoderna dello svuotamento di significato, di contatto con la realtà emotiva e spirituale, empia che un prete qualsiasi dovrebbe aver, e credo che in molti abbiano avuto, un moto di orrore. Ricorda la Dialettica dell’Illuminismo e certe pagine complicate quanto tristemente ancora valide che denunciavano già sessant’anni fa, la tecnicizzazione delle relazioni, dei campi vitali, dell’eros e di thanatos. Come Adorno e Horkheimer rintracciavano la morte dell’erotismo in certe sofisticate gestioni dell’eros che da De Sade correvano fino ai campi della pallacanestro, Miriano oscilla tra la logistica della preghiera e i campi di calcio, con la stessa mortale improntitudine, con la stessa maniacale dedizione alla ragioneria della preghiera che tralascia il tragico.
Come sono morti questi numeri. Cosa stanno facendo ora, in questo momento i loro figli e fratelli, dove hanno passato questa notte.

 

Io non voglio dire cosa debba fare un buon credente. Forse non sono la persona più adatta a farlo. Certamente pregare per qualcuno e fare degli atti religiosi è una cosa comprensibilmente iscritta nella prassi di un praticante. Credo che le vie però per parlarne debbano essere altre, i modi altri – vuoi con il silenzio, vuoi senza distinzione, vuoi con amore verso i sopravvissuti. Niente testimonia più di questo atto osceno i punti di crisi di un mondo che preso tra lo scacco di un passato che se ne va dove la religione guidava la vita, e un mondo tecnologizzato in cui la religione deve trovare un suo posto, non sa trovare una soluzione, e allora in un moto di scellerato entusiasmo – adotta la peggiore.

 

 

Intorno al Burkini

 

 

In Francia i sindaci di alcuni paesi sulla costa, in reazione al recente attentato di Nizza, hanno emesso un’ordinanza che vieta alle donne l’uso del burkini, un costume da bagno che ha la peculiarità di coprire tutto il corpo, e che in questo modo permette alle donne islamiche più fedeli all’ortodossia – vuoi per convincimento vuoi per appartenenza a un clan – di fare il bagno in pubblici stabilimenti. Non ho avuto modo di leggere dichiarazioni da parte dei responsabili, mi è parso comunque il tentativo di un atto simbolico – in linea con una certa tradizione francese, di reagire alle aggressioni rivendicando una tradizione di laicità, e di ostilità ai segni simbolici collegati alle appartenenze culturali: già in Francia per esempio non si dovrebbe portare il velo a scuola, in tutte le sue declinazioni.
L’episodio ha dunque prima di tutto una lettura politica, che riguarda la reazione al terrorismo variamente connesso all’Isis: una sorta di messaggio di resistenza sulla semantica più visibile, che sono i vestiti delle donne e i loro corpi. Il dibattito pubblico però ne è stato colpito, addentrandosi invece nei mille rivoli della riflessione di genere che da almeno un secolo è indotta dal confronto con il mondo islamico.

Molte considerazioni per me sono opportune.
La prima riguarda la grande vastità del mondo islamico e di tutte le declinazioni possibili che offre al suo interno per quanto riguarda l’adesione all’ortodossia e la situazione delle donne. Io non sono una grande esperta di Islam, ma mi pare evidente che si passa dall’eccesso di una falsa ortodossia, che in realtà è una sua versione caricaturale e postmoderna che è il caso dell’Isis e di tutte le sue parrocchie limitrofe, a organizzazioni culturali in cui l’ortodossia si compenetra a un patriarcato che ha molti punti in comune con quello che abbiamo lasciato alle spalle – ivi comprese aree di misoginia e di aggressioni al femminile indicibili ma anche con situazioni di felicità e buona organizzazione di vita, fino a organizzazioni familiari in cui le donne islamiche, pur mantenendo la fede, con velo o senza lavorano producono e quando parlano ricordano certe nostre professioniste di Napoli o di Palermo nel loro coniugare partecipazione alla vita collettiva e piatto di pasta più grosso al maschio di casa – di questo tipo io nella mia frequentazione privata del mediooriente ne ho conosciute moltissime – e fino a aree in cui esiste un femminismo di marca islamica, una riflessione di genere e quant’altro nelle aree più metropolitane.

Questa grande varietà di modalità va sempre tenuta in mente quando si entra in questi dibattiti – perché riguardano anche questo dibattito. E’ piuttosto rischioso ritenere che ci sia un solo modo di vivere il velo, e tutte le norme sul femminile che noi vediamo distanti, perché non esiste un modo unico. Ci sono donne che portano il velo con la naturalezza di un’abitudine, altre con la rivendicazione di un’identità di fronte all’aggressione eurocentrica, altre ancora come una copertura tranquillizzante dalla ubris di un maschilismo insopportabile e trasversale alle culture – manco alle islamiche piace lo sguardo sulle chiappe alla fermata dell’autobus per esempio- e altrettante lo vivono come la limitazione a un mondo di scelte, specie io credo nei contesti politici e sociali in cui quella limitazione è vigente e socialmente efficace. Mi posso sbagliare, ma insomma la copertura del corpo è vissuta in modo diverso e simbolizzata in modo diverso a seconda della contestualità quotidiana a cui è associata.
Quindi parlare solo di un modo di vivere i vari tipi di velo è fuorviante. Inoltre, correlare questo unico modo solo alla religione è molto comodo e anche ipocrita: il corpo delle donne è una questione politica in Europa come altrove, sono regimi di destra, dittatoriali, che usano la fustigazione del femminile come semantica politica, mentre noi continuiamo a ritenere che sia solo una questione di Islam. Eppure anche nel nostro paese, le libertà delle donne e le loro azioni sono oggetto di un dibattito politico a cui eventualmente la religione offre ancora un blando pretesto – ma la questione è principalmente civile.

Resta il fatto comunque, che in questo largo mondo esiste un ventre di relazioni rigidamente asimmetriche rigidamente codificate e che mettono le donne in una posizione di grave mancanza di libertà, vulnerabilità, qualità di vita terribile. Se nella mia esperienza di vita privata ho avuto infatti modo di conoscere un islam felice di donne felici madri e all’uopo anche lavoratrici, nella mia esperienza professionale ho dovuto raccogliere storie di donne minacciate di morte perché non volevano sposare un uomo deciso dalla famiglia, di donne stuprate dal prozio vecchio che le ha prese in sposa a sedici anni, di donne che devono camminare tre passi indietro per strada, a cui ci si può rivolgere in un certo modo, o che si possono lapidare per certe altre cose. In questa cornice simbolica il velo assume il significato per noi, di una cancellazione dell’identità che permette il dominio sulla libertà. Noi occidentali e noi donne occidentali abbiamo un uso quotidiano fortissimo della semantica del vestito e del corpo, ne facciamo un secondo alfabeto e linguaggio altamente funzionale, e quindi ci risulta sconvolgente che a delle donne tutto questo sia proibito. Questo nostro sofisticatissimo linguaggio è d’altra parte il lusso di un primo mondo che dispone di una larga messe di risorse economiche che possono essere utilizzate per fare operazioni di questo genere, quando le risorse diminuiscono diventa relativamente meno importante – non è che il maschio medio palestinese che ho conosciuto io ci avesse tutto sto parterre de cravatte. Tuttavia l’asimmetria, resiste e non so quanto a ragione, i vestiti delle donne ne sono per noi il segno.

Di conseguenza, la piccola ordinanza francese, è stata  un’occasione agevole per parlare di cosa fare di questa questione di genere, che ci ricorda aree del passato che abbiamo lasciato da poco – e voglio ricordare che si le abbiamo lasciate e quindi basta con questi sciocchi e ingiusti paragoni il nostro presente è diverso e va difeso nella sua diversità – e a cui tutto sommato non abbiamo gran voglia di ritornare, neanche in quanto maschi reazionari: al contrario di quel che dice Houellebeque o Adinolfi, il patriarcato è oneroso, si devono mettere al mondo molti bambini e arrivano a casa molti meno soldi, non vedere donne belle in giro la sera è noioso e insomma al di la delle battute sessiste, l’asimmetria ci piace di un certo raggio, ma non esagerato. Ci piacciono le donne che guadagnano di meno, ma non che non guadagnano affatto, che non possano lavorare full time, ma mica part time eh. E anzi, non vogliamo proprio essere confusi con questi orientali che ci ricordano antipaticamente ciò che non vogliamo essere ma siamo stati.

D’altra parte noi donne occidentali abbiamo viva e forte quest’esperienza. Siamo passate da veli simili e ricordiamo che non ci piacciono e non ci torneremmo, in mezzo ai tanti modi delle donne islamiche che portano il velo, tra le vere devote, le vere sicure della propria identità, le vere avvocatesse col velo, e le vere matriarche felici , le vere nostalgiche, noi vediamo anche quelle che invece ci stanno strette, che non lo vorrebbero, che stanno scomode, che subiscono scelte altrui, che subiscono leggi ingiuste, che subiscono poligamie, vediamo i vari gradi della felicità e della tristezza che sono stati nostri e quindi, le ragazzine che vogliono studiare e non possono, non ce la possiamo cavare alzando le mani con la storia del rispetto del mondo altro. C’è davvero un nodo – quel nodo ha a che fare con tante cose oltre alla religione, questioni di politica, di femminismo, di classe e chi sa cos’altro ma il nodo esiste e la storia del burkini ce lo ricorda.

Qualcuna allora ha esultato, come Lorella Zanardo sul provvedimento, sentendo quelle cose che tutte sentiamo. Molte hanno visto nella piccola ordinanza una soluzione radicale. Ma di fatto è una mossa falsa, che non aiuta la politica e men che mai le donne che si trovano a viverla. Perché da una parte ci può essere un modo egosintonico, deciso e sentito di mettere il burkini, lo stesso modo egosintonico deciso e sentito che può indurre una povera madre di famiglia a smazzarsi un pranzo di Natale per 35 parenti tra cui svariati maschi che non alzeranno un angolo di chiappa, e non si ha nessun diritto e ragione democratica per poter dire a chi fa delle scelte culturalmente condivise di non operare più quelle scelte. Questo è un modo per trattare le donne nel modo maschilista che si vuole contestare. D’altra parte, se le donne sono invece costrette a mettere il burkini, la risultante sarà che senza al mare non ci vanno proprio e fine della questione.

Soprattutto, quando queste cose si affrontano con la dovuta serietà, l’ultima cosa da toccare sono i simboli estetici, i simboli culturali che afferiscono alla condivisione di un retroterra. Non si devono proibire né burqa, né turbanti, né crocifissi, né stelle di David. Questi sono oggetti simbolici che possono essere continuamente riiscritti in un orizzonte culturale postmoderno e reinterpretati, rivisti in modo diverso. Lasciarli vuol dire mettere in scena una terra di mezzo della negoziazione e della contaminazione. Le cose importanti sono altre: sono le occasioni di istruzione e di lavoro, sono le possibilità di lavoro e di sostegno giuridico in caso di aggressione, sono i centri antiviolenza e le opzioni di rifugio, sono le borse di studio e i convegni, le cose da fare sono quelle che implicano la possibilità di una libera esplorazione culturale autonoma e autodeterminata. Dialoghi tra donne per esempio, e forse, altrettanto importante, dialoghi tra uomini. Ma dialoghi, appunto.

Il nuovo quarto potere e il genere. Un post ottimista

 

In questi giorni nella mia fetta di torta social almeno, siamo tutti impazziti, io per prima, in una serie di acceserrime discussioni su questioni di genere, rappresentazioni sulla stampa, considerazioni limitrofe. Nell’ordine prima ci siamo tutti incazzati con degli scarpari di Frascati, che a pubblicizzare delle cioce ci hanno messo l’artistica evocazia di una struprata, a seguire ci siamo incazzaterrimi col resto del Carlino perché dice trio di Cicciottelle, poi è stata la volta della vignetta di Mannelli sul fatto, e in tutto questo alcuni lunghissimi dibattiti sulle pagine di questo e di quello perché uno ha fatto un certo tipo di battuta, uno un altro. E giù – adorabili – pippe.
Io, detto per inciso, amo molto questo genere di discussioni – incrociano un’istanza politica che sento importante, a temi che trovo sempre antropologicamente e filosoficamente interessanti – mi piace addentrarmi in queste cose su diversi livelli e ne sono perciò uscita devo dire, tramortita, e contenta – contenta a questo giro, per altre ragioni.

Nella mia fetta di mondo i protagonisti erano: poche donne impegnate come me e più di me in questo ordine di questioni perché facendolo come lavoro, ora si percepiscono in vacanza per cui hanno si e no scritto una cosa ma poco, una ragguardevole falange di donne che invece non fanno queste cose per lavoro ma si sono molto addentrate e molto hanno scritto contro tutti i casi dichiarati sessisti – una percentuale importante di uomini, minoritaria ma più consistente ed esplicita del passato che hanno detto le stesse cose – una percentuale consistente di donne e uomini che hanno considerato alcuni casi sessisti, e altri no sulla scorta di argomentazioni specifiche – un’altra percentuale di donne e uomini che non si considerano sessisti, ma che detestano l’aggettivazione sessista a proposito di comunicazione, alcuni temono una forma di forcaiolismo gratuito, o di censura. Nella mia fetta di mondo – sono per lo più scrittori, o gente che scrive. Poi c’è una piccola percentuale di persone che ancora, fondamentalmente non capisce di che si parla.
Altre fette di mondo avranno sicuramente altra antropologia.

La mia posizione in tutte queste questioni, posizione che non nascondo di identificare come obbiettivo politico, implica lo stigmatizzare tutte le scelte linguistiche e metaforiche che cadono in un’ideologia discriminatoria per le donne, laddove la discriminazione nel nostro contesto culturale consiste nello schiacciarle esclusivamente nel loro ruolo corporeo e riproduttivo, erotico. Che naturalmente non è un ruolo inesistente del femminile né di poco conto anzi col mestiere che faccio direi ancora preponderante, come per il maschile del resto – ma a fronte in altri contesti è secondario. Quindi, siccome in Italia il sessismo si esprime nel dire a una donna come è sessualmente quando lavora, ricordarle che sarà madre quando le viene negata una promozione, che è bella o brutta quando partecipa o vince una gara, che ci ha le cosce quando è ministra, qualsiasi comunicazione che cade in questa semantica ha una marca sessista, anche nei rari casi in cui sia veramente involontaria. Le discussioni vivaci in rete, mi hanno portato alcuni casi di involontarietà – per esempio dell’onestissimo e ammirevole sul tema Marco Giacosa, che per esempio aveva parlato di una dirigente in termini di inscopabile, perché dedita esclusivamente al lavoro. Ma anche un uomo che fa così per me dovrebbe essere inscopabile! Protestava genuinamente. E questo mi è sembrato in buona fede un caso di caduta in un linguaggio che comunemente appartiene a politiche di genere discriminatorie senza averne magari la volontà. Marco poi ha riconosciuto la questione e ci ha riflettuto, e questo è interessante – è stato uno dei pochi a capire che poteva difendere il concetto che voleva esprimere, riconoscendo l’appartenenza politica e culturale che aveva un certo aggettivo. Mi ha molto interessato, quindi per parte mia, e per quel che afferisce il mio contesto culturale, che oggi a sinistra esista spesso un problema per cui si ha imparato a stare molto attenti a non essere considerati omofobi o razzisti, vanno decadendo terminologie e modi che alludono a quegli ordini ideologici e politicamente configurati, mentre il cadere ancora nel sessismo nonostante razionalmente si pensi di non volerlo condividere, non è ancora abbastanza fonte di problema. Altra cosa che noto, è una non abbastanza severa da un punto di vista logico, riflessione sulla distinzione tra mezzo, fine, concetti trasmessi. C’è ancora un gran difendere il linguaggio e la satira, istituiti come agenti ideologici a se stanti, quando sono oggetti neutri, mezzi di altro, come il tragico, come il poetico. Sono oggetti di destra, di sinistra, classisti, populisti, razzisti, sessisti, mezzi delle concezioni di chi scrive, o della cornice in cui cadono. Io non ho mai amato Mannelli, ma mi sono fatta l’idea che il problema non era affatto il suo disegno della ministra boschi, ma solo e quasi solo il testo, che magari non era manco suo.
Nessuno cioè vuole espungere dal linguaggio il termine cicciottelle, o pure anche la formula “ a bona!” perché diciamocelo, anche le femministe trombano! Ma la questione è che in rete finalmente esiste una percezione politica del concetto di “sessismo”.

Ora, quello che mi interessa rilevare, è che la rete sta dando uno spessore diverso alla questione rendendola più rilevante che in passato e in particolar modo Facebook. Io scrivo in rete oramai da 12 anni, e 10 anni fa, quando ci fu per esempio il caso Carfagna, e io e la Lipperini ce ne occupammo a forza di post continuativi, il dibattito sulla blogosfera era molto vivo ma molto più circoscritto, ai pochi che avevano un blog o li leggevano e a quelli proprio sensibili a questi argomenti. Ancora all’epoca la cittadinanza non si esprimeva granchè su queste cose, oppure, la piccola opinione non era rilevante, quella detta e non scritta. Verba Volant! Dicevano i latini con ragione – mentre Scripta Manent.
All’epoca del verba volant, le utenti femminili di qualsiasi comunicazione scritta erano ancora più volant degli altri, e i giornali erano tutto un parlare di donne e non alle donne, e se proprio discutevano di una questione di genere, ne discutevano fra loro. Molte donne si inserivano magari professionalmente in quei dibattiti, ma le lettrici semplici non facevano testo. I social non erano ancora così usati, e chi li usava non ne faceva sempre l’oggetto quotidiano che sono oggi.

Quello che invece io noto è che – la reattività dei social da diverso tempo condiziona il dibattito sulla stampa, imponendo non di rado agende di argomento, necessità di interviste – dico vent’anni fa ci sarebbe stata una polemica su Mannelli? Non credo, ma manco sulla foto del piccolo Eilan – e la reattività dei social è composta da una larga falange di utenti femminili che dicono la loro e che creano una visibilità per cui al Resto del Carlino è successo quello che è successo – (che per altro, io non ho per niente condiviso.) e questa stessa utenza femminile crea delle discussioni nei microprivati delle bacheche, immette un punto di vista che prima era associato a una linea percepita come estremista – aaargh le femministe orrore – mentre ora si tratta di donne che semplicemente hanno sempre pensato certe cose, ma mai hanno scritto una lettera, o partecipato a un corteo o che, solo esistono come soggetti culturali a cui la rete da una tridimensionalità. Sessista, diventa un aggettivo politico raramente condiviso, e anche questo diventa interessante, perché va passando il concetto per cui comunque è una sorta di onta. Mi rendo conto che presso altri mondi ideologici si leggeranno ben altre e ben più tristi discussioni, ma la mia parte di mondo in qualcosa, sta migliorando.
Grazie quindi, anche alle persone con cui ho litigato in questi giorni.

Sequel aspro.

La reazione a tutto quello che riguarda la Buona Scuola, e in generale il mondo degli insegnanti – quello di cui si lamentano e quello che fanno e non fanno nelle classi italiane, è una interessante cartina tornasole di una situazione generale che è fortemente mutata in termini di condizioni economiche delle persone, di quelle in particolare che costituiscono l’opinione pubblica, e anche certo in termini di sociologia dei valori e della comunicazione. Questa triade di cambiamenti, classe, valori, modi di comunicare si affianca anche a un quarto che riguarda la psicologia dei gruppi, e la maggiore ricorrenza di un modo di funzionare nei contesti condivisi.

Allo stato dei fatti, e rispetto l’evoluzione del mondo del lavoro, il contratto a tempo indeterminato di un docente ha una serie di vantaggi oggettivi, e che saltano sempre più all’occhio rispetto a una contestualità di condizioni lavorative che vanno deteriorandosi sempre di più. Le ore di lavoro in aula non coprono certamente tutto il lavoro degli insegnanti che da molti non è visto – il lavoro a casa, il lavoro in sede amministrativa, i consigli etc – ma rimane un contesto con molte più ferie di altre situazioni professionali e molte più garanzie, certo a fronte di una paga piuttosto misera.  Ma è ugualmente quel tipo di contratto che si va sempre più perdendo, per quanto dovrebbe essere così per tutti, a me devo confessare le ferie sembrano molte e quindi questo forse, bilancia con uno stipendio che per altri versi non è corrispettivo delle competenze richieste. Ma di fatto, il contratto docenti è un contratto molto invidiato, con tutele che molti lavoratori non vedono più. E’ sempre più difficile avere un contratto a tempo indeterminato, fioccano le collaborazioni e le partite iva in contesti di lavoro sostanzialmente dipendente, le libere professioni hanno smesso da lunga pezza di essere il teatro dell’artistocrazia borghese e diventano una landa dove approdano sempre più soggetti che ci sopravvivono a stento, con una tassazione che istiga al lavoro in nero, il lavoro in nero è spesso la norma, e ci sono contesti in cui lo stesso lavoro viene considerato un lusso in quanto tale. Quante lettere deve scrivere un autore per veder retribuito il suo contratto? Quanti Franceschini ci sono in giro a dichiarare quanto è bello e giusto fare il volontario nei beni culturali? E tra i dorati eletti del contratto a tempo indeterminato, quanti si vedono una tredicesima garantita e almeno che ne so, 1 mese e mezzo di ferie continuate? In questo senso, alcune delle modalità di reazione di alcuni insegnanti, mi sembrano fuori luogo.

Una volta Maria Laura Rodotà ebbe a dire in televisione una cosa che mi scandalizzò – per le stesse ragioni di cui sopra – ma che in realtà era fortemente vera. Diceva la Rodotà, la crisi ha portato a un impoverimento della borghesia, una discesa di uno scalino per le classi anche più alte. Se ci avevano la tata non se la possono più permettere, se andavano a teatro e a cena fuori non ci vanno più. Fu spregiudicata, e io reagii con pavloviano scandalo marxista: ma come ma parliamo di quegli altri! Di quelli che con la crisi perdono proprio il lavoro! La casa!
Si fa presto a dire che avevo ragione. Certo avevo ragione – anche se devo dire, come mi insegnano gli amici disincantati che ho –  in certi contesti quando ci hai da combattere da quando sei nato non è che proprio avverti tutta sta differenza: non ci hai mai creduto, non ci è stata mai catarsi, ti sei sempre arrabattato e altrettanto farai, ma indubbiamente la crisi crea condizioni disperanti. Ma qui non parliamo di chi meriti più preoccupazione, qui parliamo di quelle parti sociali il cui impoverimento determina un importante viraggio nell’opinione pubblica, perché sono le parti sociali che fanno l’opinione pubblica.

Dal boom economico agli anni ottanta, le fila della media borghesia italiana si sono ingrossate, portando a stilemi sociali per cui ricordo, ancora dieci anni fa si discuteva sull’esistenza della classe operaia e sul desiderio degli operai di riconoscercisi. Operaio, alla vecchia maniera, con la cucina senza soggiorno, non ci voleva stare più nessuno – e credo che sia una conquista sacrosanta. Ma accanto agli operai che continuavano a essere operai fronte di una serie di importanti cambiamenti, entravano nel mercato del lavoro e di un’economia florida molte altre figure professionali anche in settori che non sono considerati nevralgici per l’economia di un paese, il cosiddetto terziario si è ingrossato e davvero credo che per molti aspetti il tenore di vita di molti sia fortemente cambiato, facendo mutare anche la percezione di povertà e di minimo necessario. Il bagno in casa è un nuovo minimo necessario, un divano, gli elettrodomestici. Per fare degli esempi. Tuttavia è diventata molto grande, quasi omnicomprensiva e soprattutto più parlante degli altri come soggetto pubblico una enorme generica media borghesia, che concepisce come normale trovare dei soldi per una vacanza, comprarsi vestiti al cambio di stagione, progettare cose. Per circa trent’anni, l’ascensore sociale ha funzionato creando questo mondo.

Poi è arrivata appunto la crisi: i concorsi pubblici si sono diradati, i contratti corretti per i lavoratori si sono smantellati, l’ascensore sociale si è sfondato, e questa grande borghesia figlia del boom si è trovata tutta insieme un gradino sotto con un grande senso di precarietà, che mal collima con la percezione di se dovuta agli studi, alle scelte professionali fatte e consentite dal contesto. Ci si laurea a pieni voti in una facoltà difficile si conquista il dottorato ma non ci si sposta dall’assegno di ricerca, si viene assunti e si lavora per tanto tempo ma il contratto rimane quello di collaborazione, si fanno cose magari anche prestigiose e molto visibili che però non si sa bene quando verranno retribuite, e la classe sociale più parlante politicamente è quella che ha messo insieme frustrazione economica e narcisismo ferito.
A questa classe sociale arrabbiatissima e preoccupata, è stato messo in mano internet.

Su internet allora, si osserva un nuovo dispiegamento di comportamenti, atti a esorcizzare il terrore di appartenere all’orlo borghese che potrebbe scivolare chi sa mai, vicino a quel passato senza cesso e con le sedie in cucina. Comincia a trionfare endemica la cattivelleria, la punizione sarcastica della debolezza di classe: nel paesaggio collinare e infinito di modeste altezze fioriscono profeti e profetesse della condanna alla sfiga piccolo borghese, vignette che prendono per il culo enormi ciccioni che ballano – ossia i poveri americani solitamente, giornaliste di costume che prendono per il culo impiegati di vario ordine e grado, e un generico umorismo che vira al sarcasmo. La nuova finta borghesia già piccola borghesia inventa una nuova aurea mediocritas, che è la condanna della vecchia – pur di salvarsi psicologicamente le terga. Spesso è sintatticamente avvincente, ancora più spesso di pessimo gusto. Ma d’altra parte l’alfabetizzazione di buon livello, è un’altra conquista sociale che ancora di più fa aumentare la rabbia di fronte a pagamenti che non arrivano.

In questo nuovo trend, che i social network hanno incoraggiato a dismisura e a cui hanno fornito una sapida tridimensionalità, anche la disamina politica, la serietà su questioni economiche diventa poco trendy, poco chic, e associato ad appartenenze da cui si cerca di dissociarsi alla disperata, ancora garantiti dalle tutele delle generazioni che ci hanno messo al mondo. Ma che davvero vuoi criticare Malcom Pagani perché non ha fatto domande a Barbareschi sul suo passato in AN, sui suoi modi di gestire il teatro? Ma è così divertente quell’intervista! Che in effetti, per essere divertente era divertente, è vero – ma è interessante come un certo tipo di attivismo politico di attenzione politica alle cose, sia diventato fuori moda, qualcosa di piccolo, di pulciaro, di poco elegante.

E alla fine siccome quello che indugiano più frequentemente nell’irrisione alla vecchia politica sono pur sempre di sinistra, a intervalli regolari recuperano un nominale rapporto con l’etica tramite reprimente morali che riguardano i poverissimi o i presunti privilegi acquisiti o mantenuti. Piangono con grande profluvio di lacrime, zingari e bimbi sui balconi, ma cazziano con sonora prosopopea i famosi insegnanti – per tornare a bomba – che si lamentano di avere un privilegio, perdendone altri, rifacendosi al proletariato che fu un tempo, dimenticando che cos’è la debolezza contrattuale oggi.
Appagati in un narcisismo di corto raggio, ma assolutamente imbelli per tutelare quello di lungo sguardo, non è che fanno molto, per il fatto che né loro né altri avranno una pensione minima sufficiente. Una generazione di allegri rondolini.

Rondolino, gli insegnanti, la stampa, la rete

 

E’ un po’ di giorni che osservo con entomologica partecipazione alle esternazioni di Rondolino rispetto alle questioni della buona scuola. Devo dire che di Rondolino non mi sono mai occupata con molto trasporto per via del fatto che scrive su l’Unità, e nelle mie attuali perversioni bondage, non arrivo ancora a questo. L’Unità non è il Corriere della Sera che ti offre il piacere perverso di leggere uno di destra, dargli ragione perché ci ha tutto un glamour logico sintattico che levete, per poi orgasmicamente mandarlo a quel paese perché dice cose con cui politicamente non sei d’accordo. Non ti da né quell’erotismo travagliato dell’avversario intelligente, men che mai l’afflato sentimentale e dei sensi di un giornale con cui sei sempre d’accordo, che è un po’ come un amante che ti dice, ma no non devi dimagrire tu sei bona così bella sgnaccherona mia, nonostante che nevvero. L’Unità è diventata una cosa terza, ultrea, deerotizzata, che passa il tempo a dire, noi siamo fichi voi siete delle merde, non capiamo perché non volete fare l’amore con noi. E lo dice anche quando fa i complimenti – tipo tutti quegli sproloqui sentimentaloni sulla povertà, o la violenza di genere etc. E quindi ecco, io di Rondolino e dell’Unità mi occupo poco – come devo dire di questo governo di cui è il riflesso, e del quale si intravede la fine.

Ma la polemica sui professori del Sud che salgono eventualmente a Nord e se ne lamentano, scatenando l’irrisione rondolina, mi ha cortocircuitato con una canzoncina largamente esplicativa, purtroppo credo quasi ignota al pubblico italiano, canzoncina di rara finezza linguistica e come dire atmosferica? Del grande Nino Ferrer che si chiama Mao et Moa, e fa tutta una serie di gustosi calembouri. Ascoltatela, ve la cito, perché talora mi pare tutto quello che ci è rimasto della nostra sociologia politica, della nostra capacità di coniugare una proposta con una lettura delle esigenze del territorio che in qualche caso sapeva essere davvero lucida, siano due stracci: l’Unità e noi che d’altra parte farnetichiamo di ah l’eschimao, o il suo epigono, senza che quell’occhio sociale sappia parlare più correttamente. Compri l’Unità, leggi Rondolino, e a quel punto ti viene la Sehnsucht di Pennacchi.
Beh, ti fai delle domande.

Perché la questione, in questa piccola vicenda come in altre vicende, è l’occhio sociale funzionante su un cambiamento collettivo. Nella fattispecie: c’è stato un concorso pubblico che è stato vinto da diversi docenti, i quali sono passati ad avere un posto fisso spesso e volentieri in una zona lontana da quella dove nel frattempo hanno costruito una famiglia. Si tratta per lo più di insegnanti donne, spesso con dei figli a scuola e non di rado, ma anche no, con un marito che magari lavora da un’altra parte, e magari ancora un mutuo da pagare o un genitore anziano da accudire. Per queste persone spostarsi è un problema consistente, e socioeconomicamente nuovo rispetto alla grande stagione dell’immigrazione italiana quando il sistema sesso-genere prevedeva che si spostasse quello a cui non era delegata la cura degli affetti, con la doppia alternativa che o la compagna lo seguiva con tutta la famiglia, oppure rimaneva dove stava e lui mandava i soldi a casa. Questa è una cosa che nella contemporaneità possono ancora fare solo i padri, e fortunatamente anche relativamente meno di prima, alle madri è molto più difficile. In secondo luogo, il tipo di flessibilità nel mercato del lavoro di allora, legata anche allo sfruttamento e alla mancanza di garanzie, garantiva una mobilità che per il momento in Italia è solo nei sogni di una certa propaganda governativa, ma non è realtà – per altro non tanto o non solo per colpa del governo ma anche per colpa di una sostanzia della materia sociale, dell’organizzazione delle sue transazioni che non può cambiare dall’oggi al domani. Ma soprattutto nella grande stagione dell’emigrazione, si emigrava perché non c’era proprio proprio niente da mangiare, si emigrava per un sogno procurato dalla disperazione. Si emigrava da case senza cesso e cucine senza carne, cucine solo di pane e farine, si emigrava da famiglie di gente bassa e gobba, dove il darwinismo sanitario decimava i ragazzini. Vince chi sopravvive alla Spagnola.
Quanto è lucido e comprensibile che a sinistra, si ricatti una generazione che ha condizioni economiche e sociali diverse, con la teoresi del lusso e dell’essere viziata? Quanto non meriterebbe, diciamocelo, Rondolino, due sonore pernacchie, perché dal giornale che ha portato avanti delle conquiste sindacali e l’acquisizione di diritti sulla qualità della propria vita si rinfaccia al lavoratore, di non dover considerare importanti i diritti sulla qualità della propria vita? Dio mio, se non l’etica, almeno un po’ di paraculo pudore – questa retorica affossa un governo già in palese difficoltà.

Non voglio entrare nel merito di una riforma che non conosco nel dettaglio, e che mi interessa parzialmente. Diversamente da altri, riconosco a questo governo il pregio di aver assunto molti docenti nella scuola, e questo è un fatto per me insindacabile – considerando da quanto tempo eravamo in attesa, e critico chi non ne fa esplicita menzione. Tuttavia non mi sembra che si sia fatta sufficiente buona comunicazione sul perché di questi spostamenti, io stessa ancora le ragioni chiarissime non le ho, e continuo a chiedermi se non sarebbe stato possibile organizzare le cose in un altro modo. La questione ha radici lontane, come dimostra questo interessante post –  ma c’è da porsi anche delle domande sulle scuole nel sud, sul perché a fronte di un esubero delle abilitazioni a sud queste debbano essere per forza assorbite a nord e non in altre regioni di Italia. La ministra per esempio ha dichiarato che questo flusso è fisiologico alla scuola italiana, ma solo a me questa fisiologia sembra speculare a un degrado del Sud di cui non ci si assume carico? Ci sono forse meno bambini e ragazzi che devono andare a scuola sotto al Rubicone? Ci importa poco di come stanno le loro scuole, di quanti ci vanno e non ci vanno, di quante stanno per crollare e quante no? E quali sono gli ostacoli, che credo oggettivamente ci siano, a interventi più radicali?
Qualcosa nella logica mi sfugge – e chi fa comunicazione non mi aiuta. Occorrerebbe un’inchiesta, non l’istrionica cattivelleria da poltrona.

Ma constato, questo è il viraggio che ha preso il giornalismo italiano e vi è da dire però anche la sua fruizione, che di inchieste c’è molta meno sete, mentre di opinioni ad minchiam c’è grande desiderio. Travaglio, di cui non a caso Rondolino si occupa un giorno si e l’altro pure, rappresentando egli la sua Ombra, junghianamente parlando, è quello che ha compiuto il tragitto antropologico nella comunicazione. E’ stato l’ultimo eroe del giornalismo civile per diventare il primo burattino di un opinionismo vuoto, ha attaccato un potere, per diventare il menestrello di un altro, dismettendo però i mezzi di un tempo, la ricerca tra le carte, lo scartabellare degli atti giuridici, per spostarsi sull’esercizio sintattico ed estetico della celebrazione di una cattiveria senza armi e con complementi oggetti piuttosto generici. Ed è subito moda, sistema endemico, patologia culturale. Che gli risponde l’avversario? Mettiti a lavorare?
Ma per carità sia mai, “sei innamorato della Boschi”.

Ma non è un Rondolino a far primavera. Il passaggio a questo tipo di giornalismo è stato avviato da internet, su due piani. Il primo ha riguardato una concorrenza materiale al giornalismo cartaceo che ne ha depauperato le risorse per cui, sostanzialmente cento battutisti instrionici costano meno di una inchiesta lunga e difficile. Ma credo che ancora più importante sia stato proprio un cambio di registro della comunicazione del mondo intellettuale, perché la rete, e più i social che la blogosfera, hanno incoraggiato, messo al centro della scena proprio seduttiva ed erotica della comunicazione scritta, la frase pungente, la battuta di spirito l’opinione charming, e quello che vent’anni fa poteva essere un gustoso trafiletto di una signora simpatica, che c’era più o meno in ogni giornale, ora è diventata uno stilema predominante, che si legge sempre più spesso, e che è premiato sempre più spesso per cui – non possiamo neanche consolarci pensando che il problema è della stampa, il problema è anche dell’utenza e di quella zona grigia di chi fa opinione in rete nel pulviscolo delle piccole galassie personali, che si rimpallano i vari figlioli di Donna Letizia in sedicesima – anziché noiosi rendiconti della spesa pubblica, oppure pallosissime analisi socioeconomiche su come oggi i nuovi complementi oggetti della difesa sociale sia una sempre più impastoiata piccola borghesia, che ha privilegi ignoti ai suoi genitori, nuove richieste in termini di standard difficilmente sostenibili, una nuova borghesia resa imbelle da questo complicato reticolato di tre televisioni e zero straordinari pagati.

Vorrei chiudere con le ragioni psicologiche e sociali, ma soprattutto psicologiche che sostengono questo cambiamento. Ma è un discorso che vorrei proporre in un modo piuttosto articolato per cui, vorrei dedicare all’argomento, una seconda parte.
Grazie della pazienza

Oh tempora o mores. Lo psicologo che scrive del corpo sociale.

 

Quando lo psicologo, lo psicoterapeuta, lo psicoanalista arriva a scrivere per un libro, per un giornale, più modestamente per un blog, ma capita anche nei dorati recinti delle riviste accademiche, arriva immancabilmente il momento in cui gli viene da applicare certe metafore del suo arsenale professionale alla realtà – scelta questa che gli da modo di illuminare fenomeni collettivi in una dimensione per la maggior parte delle persone insolita e interessante. Possiamo fornire tanti esempi di questa prassi: il primo e più noto è il caso di Recalcati che parla di eclissi del padre, per una somma intera di generazioni, di lui e di altri che hanno largamente indugiato nel concetto di patologia narcisistica della contemporaneità, ma non molto tempo addietro anche Pietro Barbetta parlava di società psicotica, e io stessa qualche anno fa, e reiteratamente o ho parlato di uso generalizzato e collettivo di meccanismi di difesa borderline nella società contemporanea – in un vecchissimo post dell’altro blog.
Le dinamiche producono questo tipo di scelta possono essere molteplici: da una parte c’è proprio una genuina seduzione intellettuale e un genuino senso di insight – ma sottotraccia possono esserci altre cose, tipo per esempio un rinforzo narcisistico asimmetrico che elicita una rappresentazione di se di potere – io so quello che voi non sapete, io vedo attraverso i corpi di cui voi vedete solo la superficie.

Io ci vedo soprattutto due ordini di rischi.
Il primo ordine riguarda la lettura di un contesto culturale e sociale come monolitico, non polisemico – costituito a sua volta da diverse microculture e microorganismi sociali, forme aggregative ed economiche diverse, con sistemi valoriali separati e non di rado spesso antagonisti tra loro. Per fare un esempio, sto leggendo un libro sulla tossicodipendenza di Zoja, un libro veramente molto bello su cui tornerò nascere non basta, in cui anche lui diceva una cosa generalizzata sulla società attuale che ha eluso il bildungsroman dell’eroe, la polarizzazione strutturante del duello, per sposare il concetto di nemico su grandi sistemi macropolitici – teoria su cui voglio tornare perché è in grande sintonia con la mia sulle difese arcaiche applicate nel pensiero politico. Però pensavo, si può applicare questa cosa anche in contesti culturali dove per esempio l’andrangheta fa ancora da padrona? Le società di stampo mafioso, le sacche sociali dove lo stato è patito come lontano e secondario e ancora vige un sistema di giustizia carnale e arcaico? Senza andare troppo lontano, io non sono sicura che in alcune borgate romane dimenticate da Dio e dagli uomini non vi siano epigoni del concetto di duello.

Sull’eclissi del padre c’è poi da ragionare. Perché anche qui esistono microculture diverse parcellizzate e organizzate molto diversamente, che danno luogo a sistemi familiari e valoriali molto distanti. Io probabilmente vengo da una famiglia che in linea transgenerazionale provocherebbe il collasso di Recalcati – aveva un lavoro di responsabilità già la mia bisnonna, a casa mia il logos ce l’hanno anche le madri senza nessuna emorragia del senso morale né di materno – ma se ci si sposta dallo sguardo di una certa media borghesia mediamente istruita e rispondente a certi canoni si dovrebbero vedere altre cose altri sistemi, altre organizzazioni. Io vedo per dire anzi, come la crisi vada rimandando a casa molte mie amiche madri e mogli, perché il femminile è sempre più vulnerabile e meno tutelato, e vecchie organizzazioni valoriali col logos di li, e l’eros di qua, siano tentate di ritornare impercettibilmente – oppure certe situazioni intermedie di grande incertezza e nervosismo.

Il secondo rischio, è che facendo questa operazione applicata sulla contemporaneità, si assuma impercettibilmente e involontariamente una posizione reazionaria e passatista. Oggi il padre è eclissato! Quanto si stava bene quando troneggiava! Oggi è l’età della psicosi! Invece prima guarda. Si assume un tono reprimendo e lamentoso, che forse ha alleanze con l’anagrafe – tutti invecchiamo, anche noi clinici e per tutti, anche per noi clinici si aprono distanze emotive con la contemporaneità che a un certo punto non è più la nostra linfa, la nostra attualità emotiva, essendo che è quella dei nostri figli e dei nostri nipoti. Non siamo più identificati con i valori del presente come ci succede a tutti quando si è ragazzi, siamo allontanati e quindi saggi per un verso, ma vecchi per un altro. Tra le maglie della reprimenda sociopsicoanalitica non di rado traluce il rimpianto per il mondo che ci ha generato e che ha prodotto la nostra infanzia e quella dei nostri padri, mondo che ci era epistemologicamente noto, familiare, intimo. E ci dimentichiamo di ricordare che era davvero un mondo altrettanto pieno di orrori, dove almeno lo stesso numero di oggi, ma fcredo molte più persone – campavano di merda.Un mondo che ha inventato due guerre mondiali, un mondo di abusi stupri e matrimoni riparatori, di persone che non richiedevano cure perché non avevano il diritto di essere persone.
Si potrebbe anzi fare un corposo saggio sulla psicodiagnostica del mondo che abbiamo lasciato, sulle patologie psichiatriche che creava, su cosa voleva dire, per usare Zoja (che però gli riconosco di essere molto attento e consapevole) abitare l’era del duello, o per continuare: l’era in cui se fai dieci bambini due morono e pazienza, per continuare l’era che tu donna schiava a letto e chiava, per continuare l’epoca del padre che o prendi il mestiere mio e fai la vita che dico io o se no crepa, per continuare l’epoca ma si questa figlia la do suora che una suora ci sta, devo continuare proprio?

Infine noi psicoterapeuti quando scriviamo applichiamo più volentieri certi difetti degli analisti giovani, che sono bravissimi a diagnosticare deficit e mancanze ed errori di contesti e ambienti familiari, ma a intravedere risorse e fattori evolutivi molto di meno. La diagnosi dell’eziogensi di un problema è certamente cosa molto utile, ma credo che in terapia individuare le risorse e premiarle sia altrettanto necessario. Questa cosa, di analizzare le risorse dei contesti culturali della contemporaneità e premiarle, noi clinici non la facciamo mai. Io pure, in dieci anni e spicci di sproloqui in rete, non mi ci sono mai cimentata. Non viene in mente, siamo sempre arrabbiati e dispiaciuti per qualcosa, scriviamo clinicamente di realtà sociale sempre quando la realtà sociale mostra una ferita, e forse ci sentiamo stupidi a parlare di risorse davanti il corpo sociale che sanguina. Eppure i medici pure questo fanno, incoraggiando in un modo o nell’altro gli organismi a reagire. Forse ogni tanto, sporadicamente, dovremmo cominciare a diagnosticare e incoraggiare le risorse sociali.

 

 

 

Ave Maria

 

Il più enorme, metafisico, statuario, grave e silente è il nonno, che a qualsiasi ora forsanche della notte rimane seduto a mangiare e a guardare un punto perso nel proprio spessore interno, qualcosa di dimenticato nelle viscere. Anche quando lo portano al mare, il nonno viene accompagnato su una panca di legno fortissima, su una sedia altrettanto forte, e il tavolo è coperto di untuosità e scarti, e il nonno li rimane, innocente, eternamente distratto mentre consuma eterni resti.

Poi certo ci sono sua madre, e sua zia, e le sue sorelle tutte, grasse vaiasse sature di carne, di speranze rancorose, di un inammissibile desiderio di violenza e cattiveria e erotismo selvatico. Hanno gambe tornite e alcolizzate, unghie rosse e talloni di pietra, molto mento molti capelli annodati e cupi– nessuna traccia di tenerezza, neanche l’ombra di un marito, di un fuco, di un caffè, di una telefonata, di una collana di margherite. Sono larghe e sgradevoli come meduse impigliate sulla spiaggia.

E poi c’è questo bambino fatto di scatti e di stuzzicandenti, gli occhietti come pesci di paranza, i piedi sempre scalzi che saltano come lampi sulla sabbia ardente, sul selciato sporco, sui peli dei cani, e sulle carte di gelato. Ha cinque anni ma ne dimostra di meno, e scorrazza per il mondo abbandonato e autarchico, abituato all’assenza di desiderio e alla solitudine, un bambino la cui disperazione non è ancora arrivata nella fronte, ma sta già nelle mani. Trascina sacchi grandi quanto lui, gira con pezzi di legno con la punta di spada, e il suo modo di cercare un’ala è far mostra di creare un problema.
Per esempio, sulla battigia, si presenta alle donne lanciando bottiglie o tirando manciate di sassi, quelle urlano arrabbiate e mentre lo fanno già si inteneriscono.
Chi sa come ha imparato.

La sua madre immensa e stanca di se stessa, non ha mai avuto lo spazio per prenderlo in braccio, né ci pensa mentre attraversa la strada trafficata, al suo bambinetto di legno, né deve essere solita fargli delle carezze o recintargli l’affetto. E’ un bambino colla madre di carne ma senza quella di corpo e se ne cresce nel vento caldo come una pianta selvatica con i rami che si tendono di qua e di la in cerca di sole. O anche si può dire, che è un bambino che ruzzola, rotola ride, provoca, ammicca, saltella, si ferma, riparte, si addormenta e si sveglia, irrequieto, continuo, cinetico, impavido, vivo e vivace rimanda ora come per sempre, il momento di dirsi delle cose amare.

(Diventerà  un ladro di biciclette, uno scanzonato palo eroe di piccole rapine, un poetico furetto per bar pieni di plastica ed etichette fuori moda, il fratello minore di una banda di furfanti, desidererà le donne da lontano. Un uomo solo e simpatico che si ammalerà troppo presto).

Qui

Lo psicologo analista che abita la rete.

 

Come sa chi mi segue da tanto tempo, ho avuto per un lunghissimo periodo un blog su cui scrivevo con uno pseudonimo. All’epoca non avevo una pagina Facebook, non scrivevo libri e quello era il contenitore totale di tutte i miei modi di scrivere, che sono effettivamente molto diversi tra loro. C’erano i post che si leggono anche qui, di psicologia soprattutto ,ma anche di letteratura o di analisi politica e c’erano anche le cose che oggi riverso con più disinvoltura sulla mia pagina Facebook, post umoristici, o post riferiti alla mia vita privata. C’erano anche post, come ci sono qui che mettevano in campo slabbrate vocazioni letterarie.
Quel blog mi portò fortuna e lavoro. Mi ha accompagnata nella mia crescita professionale di psicologa, e mi ha portato a pubblicare i due libri, a cui seguirà un terzo – previsto per l’anno prossimo. Quella miscela di alto e basso, romanesco e forbito, gioco letterario e gioco intellettuale, riflessione sulla clinica e uso della clinica per capire certe cose del mondo contemporaneo, mi fece ottenere – mio malgrado una credibilità. Fu un’esperienza curiosa – perché mi rendevo conto che sotto pseudonimo scrivevo molte più cose autentiche di quanto facessi col mio nome – dal momento che rispetto a certe agenzie culturali, in primo luogo la mia associazione analitica – nutrivo un timore reverenziale, e una forte idealizzazione, che ancora è in fase di smantellamento, direi che sono solo all’inizio.

Fatto sta, che quando accadde che, quella rivista che veniva dai miei contesti culturali, e se vogliamo di classe citò “l’articolo della psicologa Zauberei” io mi dissi che era arrivato il momento di scrivere in chiaro. Quindi aprii questo blog, pubblicai a nome mio, il secondo libro, che conteneva molte irriverenze e mescolamenti di linguaggio alto e basso, e inoltre nella mia pagina facebook non mi trattenni, e continuo a non farlo, dall’ usare il linguaggio in tutta la sua estensione linguistica – e quindi includendo nell’ordine: dialetto, turpiloquio, neologismi di mio conio, come vezzi passatisti nell’uso di termini desueti. L’unica cosa su cui ho dovuto mettere un potente freno è stata la divulgazione di elementi riguardanti la mia vita privata, racconti sulle persone che compongono la mia famiglia perché queste narrazioni, avrebbero compromesso il mio lavoro di psicoterapeuta – e la qualità delle sedute con i miei pazienti. Tuttavia, mi rendo conto che il gradiente di privato che nella pagina facebook circola, è più alto di quello di diversi colleghi, non di tutti – anche se è un privato che mi sento in linea di massima di controllare. Non ho timore a dire cose come “stasera pollo al curry” o “mi piacciono molto le scarpe”.

Ora sono passati due anni, e mi trovo nel complesso a mio agio nella mia scelta di lavoro. Io scrivo molto, è una modalità di digestione dell’esperienza da cui prescindo malvolentieri, e che nel mio caso si serve di un uso esteso della lingua che scavalca di molto la sintassi della produzione specialistica, e che afferisce a diversi usi possibili. Questo uso esteso della comunicazione, però comporta una serie di problemi e riguardano me moltissimo per questo desiderio – per lo più esaudito – di scrivere di ciò che desidero, ma che riguarda molto tutti i colleghi nella misura in cui internet e i social network hanno imposto una terza modalità di comunicazione rispetto alle due tradizionali e opposte tra loro quelle della colloquialità contrapposta alla comunicazione formalizzata – magari da un contesto professionale.
Cosa fare cioè con questo nuovo mondo comunicativo orizzontale e fluido, che implica la rete? E in cui si incuneano e ci si approvvigionano diverse figure professionali anche blasonate? Cosa deve fare lo psicologo con questo Facebook in cui è abitudine mostrare foto di figli piccoli, parlare di dolori privati, darsi del tu tra prestigiosi accademici, accorciare le consuete distanze di sicurezza che tanto hanno facilitato la prassi clinica ( e ostacolato però mi viene d’aggiungere, la sua accessibilità)?

Gli psicoterapeuti, e mi viene da dire anche a mio discapito, i migliori di essi – sono stati spesso, anche se non sempre, molto nascosti, poco propensi a usare la comunicazione mediatica, hanno scritto poco sui giornali, non si sono visti quasi mai in televisione o sulla stampa. Questo per diversi motivi. Il primo riguarda la difficoltà a imporre una comunicazione complessa in un dibattito pubblico che premia la semplificazione e la impone come norma editoriale. Agli analisti che collaborano con testate giornalistiche si chiedono poche battute e pochi avverbi, in nome di una facilità che modifica però geneticamente i commenti, e trasforma il clinico complesso in qualcosa che non vuole diventare. Non riuscendo a imporre le regole del gioco il clinico spesso desiste. In secondo luogo e questo anche per me rappresenta un problema per cui mi sono imposta dei limiti – lo psicoterapeuta che si fa molto vedere in pubblico, fa qualcosa alla terapia con i suoi pazienti, che lo possono vedere fuori della stanza, come un oggetto pubblico e condiviso. Io per esempio – anche se mi sembra ancora molto ridicolo il fatto che lo abbia comunicato alla mia casa editrice – ho fatto sapere che mai avrei promosso il mio libro in televisione. E’ estremamente improbabile che io arrivi ad avere quel genere di successo, però lo vivrei come un enorme tradimento nei confronti dei miei pazienti. Da un punto di vista tecnico poi, l’uscire molto dalla stanza d’analisi, porta al far uscire delle parti di se che emergono in maniera incontrollata e che se tornano nelle cose dette dai pazienti in terapia, possono essere degli elementi spuri che sporcano la comunicazione, che fanno fraintendere la narrazione del paziente. Non sono problemi gravissimi, ma possono rallentare il lavoro.

L’uscire in rete però, ha rispetto all’uscire nei tradizionali mezzi di comunicazione una serie di connotazioni radicalmente diverse, legate alla diversità del mezzo, che implicano diverso tipo di rischi e diverso tipo di vantaggi – questi ultimi, secondo me superiori.
In primo luogo la rete permette una scrittura libera, il che non vuol dire soltanto libera nella direzione della banalità e della reiterazione di un’offerta che saturi una domanda consolidata, ma anche nella direzione opposta ostinata e contraria della complessità, dell’astruseria, della divulgazione di concetti ostici, colti esoterici: perché la scrittura in rete è gratuita, la sua fruizione è altrettanto gratuita e si ha la preziosa possibilità di scrivere senza ossequiare le regole di un presunto target o di una presunta regola dell’editoria, questioni che hanno particolarmente avvelenato l’imprenditoria culturale italiana. Quindi finalmente lo psicoanalista che ha desiderio, come io lo ho avuto, di parlare di oggetti collettivi con la lente analitica e tutte le codifiche sofisticate del caso, può farlo, nessuno gli dirà che non vende, o che non è adatto a quel tipo di pubblico: metterà il suo articolo in rete, e chiunque farà una ricerca dell’argomento di cui parla lo troverà, e se il suo articolo esaudirà una serie di domande in modo soddisfacente, quell’autore avrà trovato qualcuno che lo seguirà. Ancora di più sono le possibilità di creazioni linguistiche che perforino e attraversino la scrittura di genere, o la scrittura saggistica o divulgativa. In questo senso, io ho largamente approfittato della rete, lavorando a una prosa che portasse dentro alla divulgazione della psicologia dinamica sperimentazioni linguistiche che le sono estranee, e penso che se questa prosa non avesse trovato il suo piccolo mercato qui, non avrebbe avuto diritto esistenziale per nessuna casa editrice – o almeno sospetto.

La possibilità di non osservare un canone, rappresenta però soprattutto per quel che riguarda l’uso dei social network e per quel che riguarda la mia professione o una trappola pericolosa o un complicato dispositivo da saper usare con perizia. L’assenza di contenitore infatti porta a esporre parti di se che il rigido formato della divulgazione tradizionale non permetteva con altrettanta facilità. L’assenza di informazioni sul privato degli psicoterapeuti, sulla loro dimensione quotidiana e umana (hanno figli? Non hanno figli? Sono sposati divorziati? Sono ricchi poveri ma anche, sono introversi estroversi permalosi? Hanno hobby passioni debolezze? E via di seguito nell’infinita curiosità dell’umano) è sempre stata percepita dal vasto pubblico come una scelta elitaria, oppure di una scelta per tutelare il prestigio, una scelta cioè assimilabile a quella di altri professionisti o figure genericamente di potere o di elite culturale. In realtà però è una cosa che protegge moltissimo la terapia, la quale vive della possibilità di essere un campo emotivamente caldo, dove però tutto quello che accade dentro deve avere quanto meno una provenienza tracciabile e meglio se questa provenienza è tutta dalle regioni del paziente, visto che quelle sono le regioni concimate da dispiaceri e problemi antichi. Siccome un modo consueto anche se non l’unico, dei pazienti di portare ritratti di queste zone concimate dal dispiacere è di attribuire all’analista anche in forma di fantasia e dubbio cose che invece non è detto che gli appartengano, va da se che meno i pazienti sanno del privato del terapeuta più il lavoro sarà facilitato. Ne consegue che l’esperienza sui social per un clinico può essere fonte quanto meno di complicazioni perché non solo il potenziale paziente può venire a conoscenza di aspetti del futuro terapeuta che potrebbero inquinare le sue comunicazioni, ma ciò può accadere anche con persone che gli sono vicine, e che potrebbero per i più diversi scopi – vantarsi di una conoscenza per esempio – dirgli delle cose private dell’analista.
Per questo ordine di inconvenienti io uso una serie di stratagemmi, il primo dei quali è precludere ai miei pazienti il contatto con me via facebook o altri social. Ma siccome non è escluso che arrivino richieste di terapia dalla rete stessa, è importante controllare i contenuti che si propongono e sapere di averli messi in un campo, perché potrebbero riverberare nella stanza d’analisi.

Tutto questo mi risulta fattibile anche per una questione di metodo nell’esercitare la professione. Tra i tanti modi di classificare gli psicoanalisti oggi, anche di area junghiana c’è la polarità che oppone un modello di clinica più vicina all’ortodossia freudiana e un modello di clinica più vicina al modello relazionale. Gli analisti che lavorano secondo il primo modello, per quanto possano aver tesaurizzato i moniti della ricerca recente, preferiscono mantenere un idea dell’analista come soggetto neutrale, più silenzioso, megafono di quanto il paziente dice e interpretante quello che il paziente dice. Questo tipo di analista non dirà mai niente di se, niente che non sia una lettura di quello che porta il paziente, e quanto il paziente dirà di lui sarà in primo luogo letto in termini di transfert. Gli analisti invece di area relazionale, pur avendo idee molto severe per quel che concerne il setting e la necessaria rigidità delle sue pareti, concepiscono la possibilità di comunicazioni che vengano persino dall’esperienza privata del terapeuta purchè sia naturalmente sporadica e si abbia anticipatamente almeno parziale contezza di quello che accadrà quando quel contenuto sarà introdotto e del perché lo si fa. Molti junghiani lavorano in questo modo e nella mia prima analisi con Gian Franco Tedeschi ho largamente beneficiato delle sue rare comunicazioni private – le sue Self Disclausure, per usare il termine tecnico. Le volte in cui i miei pazienti – cosa che è successa molto raramente – hanno portato oggetti miei che io ho deliberatamente lasciato cadere in rete – per esempio quando è morto mio padre, ho utilizzato quell’oggetto personale come se fosse una self discousure, e devo dire è stato sempre molto utile. E’ interessante constatare infatti che questi oggetti caduti nella rete, mai casualmente, non sono sempre colti, lo sono anzi raramente. La maggior parte dei pazienti ha giustamente pochissimo interesse per la vita del proprio analista- vengono per parlare di se, non do noi – e quando capita l’oggetto in mano, è utile alla terapia vedere come verrà maneggiato.

Probabilmente questa non è l’unica questione di metodo che il vivere attivamente la rete di uno psicoterapeuta attiva, ce ne sono anche altre. Per esempio la rete può amplificare e diciamo sustanziare processi di idealizzazione di chi ha nel suo interno un profilo largamente accessibile, perché l’idealizzazione e la gerarchizzazione di piccoli gruppi è nel suo microfunzionamento: chi vi scrive molto e magari ha una discreta affabilità affabulatoria unita a un bisogno di leadership o di generico ritorno narcisistico produrrà immediatamente un piccolo seguito, una costellazione di amici che però si percepiscono non di rado anche un po’ fan. E’ un gioco di ruolo, che con una certa lucidità può essere facilmente letto come tale, senza soffrire troppo o senza montarsi la testa. Io stessa ho il mio seguito e sono per dire, alllegramente il seguito di qualcun altro. Ma tutto questo innestato su una relazione professionale di aiuto è un altro oggetto semantico da studiare e vedere nella sua interezza, perché già di per se lo psicoterapeuta occupa una posizione asimmetrica, rispetto al paziente, nonostante le giuste riflessioni epistemologiche che la psicoanalisi relazionale ha portato in campo, riguardo l’interdipendenza dei soggetti che partecipano alla cura, e ai processi di cocostruizione di quando viene detto in terapia. L’analista è vissuto come: qualcuno che aiuta un altro e si fa pagare per questo, come quello che sa rispetto a quello che non sa – e tutte queste cose possono – anche se non accade sempre – essere estremizzate dal paziente che abbia paura di mettersi in gioco. E quindi, per dire, la larga presenza di un analista on line con tutto il seguito che implica può fortificare le resistenze alla cura, colludere con esse. Più esce un’analista meno esce il paziente, mi ha detto una volta una collega che stimo.
Anche questa cosa però per me, può essere vista e analizzata nel medesimo campo analitico, perché mi rimane la convinzione che, se un paziente sfrutta la notorietà del suo analista per non mettersi in gioco, l’oggetto importante è il perché lo fa, e il motivo che sfrutta andrà indagato sempre in virtù del perché lo fa.

Possono emergere dunque delle complicazioni che sono comunque arricchenti e utilizzabili. Tuttavia ci sono altri vantaggi che secondo me è importante non sottovalutare.
Una classe di vantaggi riguarda l’importanza di abitare un cambiamento di costume che modifica radicalmente le prassi quotidiane di routine e di comunicazione delle persone. Questo cambiamento va abitato da chi di mestiere si occupa di persone, secondo me, e non semplicemente studiato in maniera indiretta. E’ un po’ come la terapia, che non puoi fare a terzi se non l’hai prima di tutto esperita su te stesso, e non ti basterà mai leggere di terapie o vedere come viene fatta ad altri. Così è la vita della rete. Le persone che usano la rete hanno nuovo campi relazionali che modificano le loro vite – e portano per esempio queste modificazioni nelle stanze di cura. I loro rapporti familiari sono interessati pesantemente dall’avvento dei social network, e bisogna starci dentro e in sostanza viversi la modificazione dei propri per capire bene come si sentono loro quando per esempio un ex compagno non gli dice che si sta separando ma lo capiscono da cosa scrive su Facebook, o l’angoscia che provano quando il proprio figlio non da notizie di se su uotpsapp, ma per fortuna che c’è un modo di capire che ha letto il messaggio, per cui il figlio è vissuto come insensibile e ingrato magari ma è vivo e vegeto sulla via del ritorno.

Una seconda classe di vantaggi riguarda la divulgazione e l’accessibilità alla psicoterapia, sia intesa come oggetto complessivo connesso a un sapere che ha bisogno di essere divulgato perché se ne desideri l’applicazione – e quindi brutalmente perché gli psicologi abbiano da lavorare – sia intesa come possibilità di intervento per il singolo. Un uso accorto della rete, con una diciamo disinvoltura sorvegliata – permette la possibilità di farsi conoscere in maniera non mediata, non filtrata, ma controllabile principalmente da noi. E io credo che questa sia una cosa troppo urgente, oggi, perché ci si possa rinunciare, e se questo passa per l’esplorazione di modalità comunicative diverse, di una sintassi alternativa nella produzione di concetti, non è detto che questo sia un danno: mi sembra anzi un terzo vantaggio enorme, rispetto ai media tradizionali.