Fuori programma

Lucia bella chi sa dove dormi e che fai, sono stati giorni pieni di polemiche e pericoli, le case barcollavano lucia, pure la mia, che devo dirti, e tante altre sono cadute, oppure sai si sono svuotate, come di cose e di persone. Se ne stanno queste case come maschere colla bocca aperta, e la gente ci ha una tale paura fottuta dei loro occhi neri, dei letti vuoti, che sapessi i frizzi e lazzi.
Avresti scritto poesie, e ti saresti incazzata da morire.

E in questo momento sai, ci sono file di letti, a chiamarli mi sa con un po’ di fantasia, però sarai contenta, son pieni di vivi. Sono vivi tristi e vivi spaesati, vivi con lo sguardo spento e la bocca piegata. Ma vivi! E mica tutti, i bambini giocano ovunque! I bambini portano la vita nelle gambe e la strappano dalle persiane e dalle lanterne sopra la cena.

Sarai felice io credo, di questa pur difficile assenza di morte.
Io per mio, siccome stavo sulla sedia e quella s’è mossa tutta, e pure il tavolo, e un pochetto le pareti parevano a dire il vero, so scappata come una saetta nella vanità e nella caducità delle mie cose, in braccio al mio lavoro e alla famiglia, attorcigliata alla fortuna del momento, che insomma il coraggio non è mai stato il mio forte, ci ho altri pregi ma son vigliacca, e finchè non mi sei venuta in mente te la mia amica gatta onesta, che graffiava gli stolti, e rimbrottava i pavidi, insomma io ero li a chiacchiericciare come non mai.

Non sarai contenta mi sa di essere ricordata in un momento di tregende, la calamità, la terra che s’apre, la Bibbia, la Disgrazia e i bambini sui cocci. Ma era per salutarti, che prima non mi riusciva mai, mi prendeva una forma di protesta, ma ti pare che una vaffanculo se ne va così, bella bella, tra un pomeriggio e una sera, io ero arrabbiata devi dirti Lucia, vabbè. Porta pazienza, pure se non sei mai stata tanto capace.

10 punti per i giovani colleghi

 

Sempre più spesso mi capita di essere interpellata da qualche giovane collega, neolaureato in psicologia, per avere consigli su come avventurarsi nel mondo del lavoro, quali scelte fare, come muoversi. E io devo sempre controllare la reazione, che sarebbe piuttosto interdetta perché da una parte detesto la civetteria di corporazione, quella retorica gradassa di chi dice no guarda è un brutto mondo, è un mondo difficile, ah io riesco ma te ndo vai, quel compiacimento del pessimista, e poi non fai una lira, o guarda ci vuole un tipo preciso, con quell’odioso modo di muovere le sopracciglia, serrare le labbra…. Dall’altro lato, ho un’idea precisa dello psicologo clinico, restrittiva, e trovo che ci sia un numero spropositato di laureati in psicologia in Italia, numero esorbitante rispetto alla domanda, e che raccoglie molte persone che forse dovrebbero far altro. Inoltre penso che la psicologia è, per eccellenza, un mestiere della vita. Un mestiere che chiede molto vissuto, molto stare materialmente al mondo, molto apprendistato esistenziale. Molto sapersi. L’istituzione della facoltà di psicologia ha avuto il grande merito di delimitare un perimetro di competenze astratte, di cose da sapere e tenere a mente, ma di fatto da sola non è una formazione neanche blandamente sufficiente ad affrontare le richieste di un mestiere, che assomiglia più a una forma di artigianato, che a una professione per laureati.
Considererei la psicologia clinica una falegnameria della relazione, e quindi – fatto escluso l’ambito della ricerca sperimentale e della carriera accademica – lo psicologo è uno che sa usare svariati strumenti artigianali sulla materia relazionale.
Tuttavia, ci sono delle cose che mi sento di provare a dire a chi affronta questo cammino professionale.

  1. Non bisogna pensare la psicologia, come capace, da subito, di offrire uno stipendio sufficiente per l’autonomia. Ci si può provare ma è difficile. Prima di tutto perché è un ambito in cui in Italia si investe poco: le cooperative sopravvivono usando il volontariato, il pubblico soddisfa la domanda sfruttando tirocinanti non retribuiti, se va bene vengono proposti rimborsi spese e paghe mensili che comunque non superano i 1000 euro. In secondo luogo perché da neolaureati si approda al lavoro con un capitale di esperienza troppo esiguo: non solo scarseggiano le esperienze professionali, ma anche l’esperienza di se nella vita: un neolaureato potrebbe non aver fatto i conti con la genitorialità o la scelta di non attraversarla, con il matrimonio o l’ipotesi della separazione, non ha spesso una forte esperienza di morte: è un giovane che dovrebbe toccare la vita dei vecchi. E’ opportuno pensare a un lavoro di base, che garantisca la sussistenza, e che o sia limitrofo agli interessi propri, oppure sia piuttosto basico e non impegnativo intellettualmente. Io per fare un esempio, mi sono smazzata molti anni (sottolineo anni) di call center. La scelta di proiettare inizialmente la sussistenza su altro, è particolarmente utile per diversi aspetti che riguardano la qualità del lavoro e delle prime esperienze: si lavora con la relazione, e si lavora in maniera determinante con i propri affetti: se la relazione è eccessivamente caricata da aspettative economiche frustrate, il lavoro ne viene inevitabilmente deformato, e anche la possibilità di sopravvivere a un’esperienza formativa anche gratuita diviene più difficile.
  1. e’ opportuno fare molta attenzione alla questione del guadagno. E’ una questione sacra, legittima necessaria, perché non possiamo essere figli tutta la vita, e la laurea è una cosa che dovrebbe collimare con una definitiva emancipazione dalla famiglia di origine, e quindi proteggere la propria necessità di guadagno come motivazione è l’indice di un minimo garantito di salute psichica che ogni psicologo deve avere. Tuttavia la motivazione a questo genere di lavoro deve essere un’altra. Qualsiasi progetto si porti avanti la questione principale non devono essere i soldi. Sia perché si lavora malissimo, quando gli altri non interessano, sia perché se ne accorgono tutti: sia gli assistiti, che i colleghi. Io per dire, a colleghi che mi parlano dei loro progetti e mi fanno sentire che il loro unico scopo è trovare soldi, non do aiuti, e non invio pazienti. Non credo di essere molto originali. La motivazione al guadagno deve essere una forza e una bussola, che riguarda l’amor proprio ma appunto come l’amor proprio, non deve mangiarsi il resto.
  2. Se si vuole fare questo lavoro bene, qualsiasi direzione prenda, è un atto criminale e deontologicamente scellerato, farlo senza avere fatto un corposo lavoro su di se tramite una psicoterapia personale. Il fatto che la specializzazione a psichiatria o la scuola di specializzazione universitaria in psicologia clinica si limitino a caldeggiare il lavoro personale, e non obblighino gli specializzandi non è una scusante ma un fatto grave e pericoloso per l’utenza. Lo psicologo è qualcuno che, qualsiasi cosa faccia, è destinato a prendere contatto con la vita affettiva di qualcuno e questo contatto avverrà tramite la propria esperienza delle emozioni e dei processi logici. Se non si esplora il proprio mondo interno, quello diventerà un ostacolo alla qualità del lavoro, potrebbe colludere con le patologie dei propri interlocutori, e provocare situazioni disastrose che non si è in grado né di controllare né di capire da dove sono derivate. In non pochi casi poi, nuclei irrisolti della propria vita interna potrebbero essere detonati dall’esperienza clinica, scoppiare nel giovane collega e provocare un grave senso di malessere.
  1. Bisogna anche considerare comunque, che per lavorare al meglio delle proprie possibilità, specie quando si lavora nella clinica, non c’è niente di più fuorviante dello stereotipo di una necessaria salute psichica del clinico, e di una sua omogeneità ai canoni maggioritari di una certa cultura. L’omogeneità non esiste, se esiste è un sintomo. I propri sintomi, il modo di ascoltarli e di utilizzarli possono diventare la via regia per arrivare all’altro. La psicologia clinica e la psicoterapia non sono mestieri per gente banale, ma per gente, parzialmente e mai del tutto guarita da qualcosa. Più esperienze cliniche si fanno con il proprio mondo interno, più ci si guarda vivere psicologicamente, con maggiore lucidità si potrà lavorare con il mondo interno di qualcun altro. Una buona analisi è dunque quell’esperienza artigianale, in cui un artigiano fa qualcosa insieme a noi con il nostro mondo relazionale.
  1. Trovate la vostra ossessione intellettuale e psichica. La metafora psicologica su cui cominciare a lavorare a una competenza: una cosa che vi interessa in modo particolare anche perché ha delle risonanze con la vostra biografia, studiatela, fateci esperienza pensate a degli articoli. Agganciateci l’esordio della vostra identità professionale. Può essere un campo della vita – io amo per esempio gli studi di genere – può essere un tipo di disturbo piuttosto che un altro, può essere un approccio clinico. In ogni caso, è bene sperimentare una verticalità, per due ordini di motivi: il primo è che approdare alla verticalità su un argomento è una sorta di imprinting all’onestà intellettuale, fa essere consapevoli della immensa mole di informazioni che di norma costruiscono la competenza su ogni semplice argomento, una consapevolezza cioè materiale. Il secondo è che anche stupidamente, il mercato dei servizi nella percezione collettiva va per competenze specialistiche: potersi dire esperto in qualcosa è una buona tecnica pubblicitaria.
  1. Ne deriva, che anche la scelta dell’eventuale scuola di specializzazione, per quanto mi riguarda almeno è meglio se orientata a una grande scuola storica, col che intendo sostanzialmente Junghiani, Freudiani, Gestalt Cognitivisti e Sistemico Relazionali, e lasciare da parte scuole secondarie che mirano a non molto chiare integrazioni. Non perché io pensi che l’integrazione non sia possibile, ma come dire, quella arriva dopo e davvero e fatta bene quando si accetta la sfida alla verticalità di prospettiva. Si capiscono meglio le verticalità degli altri. Senza poi dimenticare che le scuole storiche, offrono un sostegno nella crescita professionale dei propri studenti, che altre associazioni non garantiscono.
  1. Studiate un sacco di clinica, studiate quello che scrivono quelli delle parrocchie lontane da quella che vi siete scelti, ma studiate molta molta letteratura – studiate l’artigianato dell’umano prima che fosse disciplinato in una ricerca sistematizzata. Se non fosse elitario, dispendioso, sciocco da dire io direi: prendetevi un’altra laurea. Chi conosce bene la letteratura, chi legge molto, ha visto molti film è una persona ampiamente colta sarà invariabilmente un concorrente più forte: la persona colta è una persona che conosce molte tradizioni artigianali, molte metafore psichiche, molte esperienze di vita che trascendono la propria biografia. La persona colta ha visto e letto di maschi essendo femmina, di bambini essendo vecchio, di orfani avendo i genitori, di eterosessuali essendo omosessuale, e via discorrendo in un arsenale di mappature interne, in un’archivistica dell’estetiche che non ha rivali. Studiate i linguaggi letterari per un verso, e quelli cinematografici per un altro, perché sono lessici della psiche individuale gli uni e della psiche collettiva i secondi: quello che voglio dire, è che non vi bastano le trame, vi servono i linguaggi: i libri vi offrono altri linguaggi da quelli in cui siete cresciuti e strutturano la vostra personalità. Vi occuperete di persone che non sono infatti, voi stessi.
  1. Sia che lavoriate genericamente nel sociale, che vi vogliate specializzare in psicoterapia, trovate un gruppo di pari per fare due ordini di cose, un buon gruppo clinico, un buono studio associato. Le relazioni tra colleghi della nostra professione, specie all’inizio – ma io spero anche dopo – possono essere un tipo di amicizia, di vicinanza, di crescita in parallelo che credo abbia pochi rivali. Porta a un’intimità emotiva e intllettuale, e a un tipo di stare insieme che ha del magico ed è di grande sostegno. Tra pari si cresce in maniera incredibile. Ma anche dal punto di vista del mercato del lavoro, avere un gruppo di pari è una cosa molto bella perché si fanno confluire insieme le risorse, e se si fa un gruppo clinico insieme si mettono a fuoco le modalità relazionali dell’uno e dell’altro e questa, è la base migliore per inviarsi dei pazienti.
  1. Questo non è un mestiere per cretini, ma neanche per stronzi, ed è anche un mestiere per qualcuno che deve avere una motivazione peculiare a stare con delle persone che si lamentano. Non tutte le equazioni personali sono adatte alla psicologia, e alla ricercata psicoterapia. Bisogna essere infatti abbastanza nevrotici da voler stare con gente che si lamenta e desiderare che stia anche meglio di noi, ma non così tanto da non tollerare il malessere altrui o farne il bersaglio incontrollato delle proprie patologie irrisolte. Ogni tanto sento clinici parlare in maniera poco affettiva, con supponenza, dei propri pazienti, e penso che questo mestiere è fatto anche da persone sbagliate. E’ un mestiere di grande responsabilità, per essere esercitato ha bisogno di un principio di piacere, e quel principio di piacere sta nel banale, smielato, cheap contatto umano. Sta anche nel saper godere della commovente crescita nella difficoltà di una persona che ha chiesto un aiuto. Se questo tipo di godimento, non è il primo dei vostri pensieri, questo non è il mestiere giusto. Lavorerete male.

 

  1. Se invece è il primo dei vostri pensieri. Amor vincit omnia, e a lavorare sodo, tignosamente – semplicemente ce la farete. Ma fate attenzione ai vecchi che vi cercate, perché ne avrete bisogno. Cercate insegnanti bravi, maestri di vita onesti, persone della cui limpidità emotiva potete fidarvi tanto quanto della loro preparazione professionale. Non fidatevi di chi promette montagne, di chi idealizza lo spirito di categoria, ma ancora di meno di chi parla male di colleghi, di maestri noti, di chi la fa troppo difficile o di chi la fa troppo facile.  Se a voi è permesso essere adolescenziali, giovanilisti e manichei, solo in rarissimi casi questo deve essere nei vostri padri e nelle persone di cui vi fidate. Questo è un mestiere che vive di ambivalenze e complicate inclusioni.
    In bocca al lupo.

 

 

La nonna, la gatta, il principe.

 

Sua nonna era sempre stata un animale incomprensibile, piena di naso e di spigoli, una vecchia che guardava altrove, e i bambini non li capiva molto. Nella casa di sua nonna bisognava tenersi il guinzaglio alle mani, e pure ai piedi per la verità, che tutto si rompeva, tutto era delicato, tutto era un ossignore miraccomando, e pure la nonna che non era magra, non era avvicinabile come tutte le nonne dei suoi amici.
Sua nonna era un sasso.

Ma quella sera gli aveva raccontato della gatta del principe. Che quando sua nonna era giovane, e sua mamma molto piccola, la nonna aveva trovato questa gatta bellissima proprio, col pelo lungo! Gli occhi verdi! E l’aveva portata a casa. I giorni dopo aveva detto a tutti che aveva trovato la gatta bella col pelo lungo e gli occhi verdi, aveva avvertito il barista e il farmacista, e messo cartelli, per il proprietario della gatta ma niente, non si era fatto vivo nessuno.
I giorni successivi nevicò, e la gatta del principe, diventò la gatta della nonna.

Un anno più tardi però, il principe aveva contattato il farmacista e aveva dichiarato di essere proprietario unico dell’animale e che lo rivoleva indietro. Un anno dopo! Eccome! diceva la nonna scandalizzata. La gatta già dormiva in fondo al letto, e sedeva a cena con gli altri sulla sua sedia personale, avevano insomma stretto un solido patto di signore borghesi e no, non poteva mandarla indietro. La nonna, prima di fronteggiare il principe aveva anche consultato un avvocato.
L’avvocato, improntò una eventuale linea difensiva, sull’usu capione. Redasse anche un documento con testimonianze dei fogli affissi dal farmacista e dal barista, fece una serie di complesse proporzioni tarate sulle aspettative di vita media di un gatto – e la nonna lo ringraziò. Tuttavia ne tenne parziale considerazione.

Alla fine fronteggiò il rivale, che davanti al farmacista avrebbe detto, rivoglio il mio gatto! E la nonna, con la stessa coriacea fermezza che la rendeva difficilmente avvicinabile, avrebbe risposto al principe: Principe, Lei vuole rivedere quello che era il Suo gatto, e ora non è più. Ora è la mia gatta, Principe. Gatta, per altro. Non gatto. Potrà venire certamente a salutarla per un tè, una domenica pomeriggio se i Suoi impegni lo consentono, ma dopo se ne dovrà tornare a casa Sua, nella Sua casa di Principe, perché la gatta rimane con noi.

Il principe non avrebbe mai preso quel tè, né insistette allora per riavere l’animale indietro. La gatta rimase a casa, a dormire in fondo al letto, e a sedere composta a tavola per altri vent’anni. La nonna lo raccontò al nipote con quello sguardo fermo e luciferino, che hanno certe donne che hanno lavorato tutta la vita – che certo amore mio, nipote adorato, adoravo quella gatta certo certo.
Ma sotto la questione era tutta di classe, tutta di aristocrazia del sangue contro aristocrazia del lavoro, cosa mi vuoi venire a prendere la gatta stronzo che te ne sei fottuto, manco sai di che sesso è tu che evidentemente non hai mai mosso il culo dalla poltrona di velluto. La poltrona di velluto ce l’ho pure io, che te credi.

Questa cosa il bambino la intuì confusamente, perché la madre ne vide nello sguardo per la prima volta entusiasta, la luce di solito destinata agli eroi , ai cavalieri colla spada, a Golia quando le suona a Davide, la luce per i Giusti secondo i bambini.

 

(Qui – la musichina che la nonna deve aver avuto in mente mentre parlava col Principe)

We walk hand in hand (2008)

Io – se vado avanti di questo passo – finisco diretta con le gonne lunghe a fiori, i capelli a guisa di tendina della roulotte, uno spinello, le ciocie e comincio a farneticare di peace and love.
Un buongiorno cari carissimi tutti. Quanto vi pare di merda questo paese negli ultimi tempi? E sorge anche il quesito, essa merda vi sembra fermarsi all’arco alpino o alle acque della Tunisia, oppure travalica li confini nazionali? Se li travalica – indubbiamente la densità pare un pochetto diminuire – o è questione di prospettive?
Ho alcuni esempi da mettere insieme. Su cui approfondire un par di riflessioni, alcune già abbondantemente riflettute ma ahò mi ritornano. Portate pazienza. In compenso ho allestito alcuni fagottini di mele zenzero e cannella e alcune tazzulelle di tisane calde. Melissa. Tiglio. Frutti di bosco.
Ner caso anche voi abbiate un cavatappi in gola.

Esempio uno: un cinese aspetta alla fermata dell’autobus e una banda di ragazzini lo picchia – perché cinese.

Esempio due: Bruno Vespa conduce una trasmissione sulla prostituzione, non di rado usa toni der tipo “Ma inzomma siccome ci sono sempre state ‘ste qua, da qualche parte le dovemo mettere. (Mi duole non poter riportarne il tono di voce. Provate a ripetere le frasi di Vespa pensando a delle pantegane)

Esempio tre. Vi ricordate li cartoni animati di quando eravamo piccini? Dove topolini canarini e coniglietti scappano in virtù di rapidità e sagacia ai ben più forti gattoni e lupi e altri predatori ivi assurti alla categoria dei minchioni? Ecco. Bostoniano – non senza un certo imbarazzo – segnala un’artista – ‘vesto qui che fa delle tavole ove, finalmente, i pessimi ponno avecce la rivincita. E in una mostra all’artista dedicata, potrete finalmente avere l’ebbrezza di gustare il buon vecchio Jerry che fa definitivamente a fette il povero Tom. E che palle sta correttezza politica.

In questi tempi di governo destrorso, buona parte del paese prova la sensazione – non si sa bene quanto realmente legittima, ma un bel po’ ci pare – di poter finalmente fare a pezzi il topolino. Di dichiararlo, di esprimere il desiderio o semplicemente di ripristinare l’antico ordine delle cose così come sono. Vespa e il ragazzino che ammazza di botte un cinese siccome il vigile che picchia un uomo sbavando negro negro! Sono della stessa pasta mentale. L’unica differenza è che Vespa ha più soldi, e dunque meno motivi per essere frustrato. Di fatto per tutti e tre esiste una gerarchia che vede: i maschi ricchi e bianchi sopra – volendo tra i 30 e i 60 anni – e sotto in una rigida piramide ci sono i giovani e i vecchi bianchi, i poveri, le femmine, e ancora più giù i poveri e le femmine e i vecchi di altre razze. Vespa non ammazza di botte nessuno perché ha abbastanza soldi per non averne la necessità la piramide sociale nel suo caso è rispettata. Tuttavia essa ritorna costantemente nell’eloquio e nelle scelte professionali. È abbastanza repellente sentirlo parlare di donne, di immigrati, di anziani e di giovani.
Un vecchio stronzo in cima alla torre di formaggio.

I piccoli bianchi che stanno più in basso, giovani sputati nelle periferie, e che arrancano nella generica mancanza di stimoli intellettuali, di possibilità professionali, condividono la medesima piramide mentale di Vespa, ma soffrono acutamente per doversi immischiare con gli altri in basso, gli altri che dovrebbero stare sotto di loro e che invece – loro si! – lavorano per spostarsi al più presto. Non so la situazione economica di quel disgraziato pestato alla fermata dell’autobus e gli faccio i più sentiti auguri di pronta guarigione. So però che, al di la della mafia, al di la del traffico, al di la del male che sempre alligna, gli immigrati di oggi hanno la violenta forza d’animo, lo stoicismo che noi avevamo anni e anni fa – nel tempo della fondazione del capitalismo, quando per costruire le città americane lavoravamo per niente, 10. 12. 15 ore. Come gli eroici personaggi di Nella Pelle del Leone, magnifico romanzo di Michael Ondaatje sulla costruzione di Toronto, operai che brancolavano nel vuoto per la costruzione di un ponte che superasse un’enorme vallata – e c’è ancora quel ponte, ci si passa con la metropolitana. I cinesi, come molti altri immigrati, lavorano un numero di ore decisamente superiore alle nostre, accettando le condizioni che si riservano ai nuovi arrivati, rabbiosi e determinati. Si sposteranno – si stanno spostando. Di alcune città potete constatare il mutato assetto del centro storico per esempio: a Venezia, moltissimi negozi sono gestiti da Cinesi. Uh la mafia cinese! Uh il racket. Uh Ma sono sempre aperti, cioè per più tempo, vendono spesso prodotti confezionati da loro, in luoghi e tempi di produzione che noi abbiamo dimenticato – che sono stati i tempi della nostra schiavitù ma anche le fondamenta dei nostri lussi moderni. I paesi ricchi li fanno sempre le ore dei poveri.
A voja a menà.

Ecco.
C’è stato un tempo in cui anche io guardavo alla correttezza politica con certo paternalistico scetticismo. Non che non ne riconoscessi le buone intenzioni e qualche merito, ma pensavo che non fosse una cosa tanto buona che la gente non raccontasse barzellette antisemite perché pareva brutto Pensavo, in un raptus di immotivata fiducia nell’umanità, che una buona dose di lotta e di autocoscienza avrebbe convertito chiunque a non dire stronzate su un suo simile o a non farle. All’uopo la scorrettezza politica – quando espressa da cervelli validi – poteva avere una maggior efficacia. In linea teorica una tavola con Jerry che affetta il piccolo Tom poteva scuotere le coscienze, e nobilmente mettere l’osservatore dinnanzi alle orrende perversioni della sua anima crudele.
Altro che Politically Correct – guarda che merda che sei. Di la verità questo topolino non ti aveva rotto il cazzo? Lui co sti negri, co ste zoccole, e con tutti quelle che sotto stanno e non vogliono rimanere.

Una delle cose che sono morte con Freud è la potenza assoluta dell’autocoscienza, della rappresentazione, e della chiarezza. Non che codeste cose non facciano bene ma da sole spesso non possono molto. Anzi, a volte da sole sono una vera iattura. Una delle cose che si apprendono con l’esperienza è per esempio che non tutti possono sopportare tutto ed elaborare tutto. E tra le varie cose che bisogna imparare c’è anche il valutare se – una volta scoperchiata la pentola inconscia il paziente sarà in grado di tenerla, sopportare le cose che ne escono. Il terapeuta dovrà valutare se sarà in grado di esserci e gestire con il paziente quel carico di emozioni che per la loro intollerabilità erano a lungo rimaste sigillate. Alle volte è più saggio girare intorno alle cose, e sistemarne il contorno.
Se no – sbattendo la pentola aperta agli occhi del disgraziato – tiè guarda che ci hai dentro un gatto cattivo che ammazza il topolino! Si finisce con il prendere le parti del gatto cattivo, l’artista che in teoria voleva fare autocoscienza, diventa un po’ quel fantastico Tom Cruise che in Magnolia aizzava torme di maschi frustrati inneggiando a svariate forme di stupro.
Ragazzi – lei vuole questo.

Naturalmente nessuno obbliga l’artista a assumersi degli oneri etici o pedagogici, perché l’arte è libera e lo dico senza retorica – e va valutata con i metri dell’estetica e della complessità – vale per i quadrucci, vale per i romanzi, vale per la satira in televisione. Tuttavia nella nostra fruizione dei prodotti culturali chi produce l’oggetto ha un’anteriorità logica, rispetto al suo essere artista, o scrittore, o umorista. Egli è umano e dunque noi lo si giudica con le categorie dell’umano. Tra cui l’etica e la politica.
Sotto il profilo politico, per questa Italietta malata e sporca, comincio seriamente a pensare, che a voja biennali di arte contemporanea, a voja ad Americhe di ieri di oggi e di domani, c’è una totale assenza di argine etico, di superio, di confine. Quelle sarebbero cose per spiriti evoluti, guariti, cresciuti – che devono entrare in dialettica con i loro mondo segreti. Ma qui il mondo segreto dilaga – l’immaturità psichica è eretta a sistema parlamentare, e brancola nel buio spaventata, per gli stessi mostri che genera e che non è in grado di controllare.
Vedete?
Vado a mettermi li zoccoletti e me metto su un po’ di Joan Baez.

Piccole truffe di doloroso occidentalismo

(Per un certo periodo ho accettato su Facebook le richieste di amicizia di fantomatici militari americani o affini, mi sono molto divertita e ne ho fatto uno studio personale. Eccolo qua, nella versione integrale. Se vorreste invece leggerne una versione relativamente più corta, potete godervi l’articolo che è uscito su Marie Claire di novembre. In ogni caso, buona lettura)

Peter Ronald è un ufficiale dell’esercito americano, appare come un uomo deciso, di una certa età un po’ sovrappeso, ma come dire nel ruolo, nelle tre foto che appaiono nel suo profilo Facebook. Mi chiede il contatto e mi dice in un inglese approssimativo, che è militare dell’esercito americano, in missione di pace in Afghanistan, che è vedovo con una figlia. Fondamentalmente mi contatta perché cerca l’amore, e pensa di trovarlo con me dice, in base alla mia bellezza sfolgorante.

Medesimi propositi e giudizi estetici condivide Paul Brown anche lui militare dell’esercito e pur esso vedovo però stanziale in Corea, dove si trova a controllare nebulose questioni atomiche. Anche l’inglese di Paul è piuttosto creativo, e se è possibile riguardo le sue attività in Corea è ancora più evasivo. In compenso è bastata la mia foto di signora quarantenne poco celatamente sovrappeso, castana e con gli occhiali a farlo innamorare perdutamente di me.
Ma ci sono anche Eric, e Donald. Ammiragli di flotte navali, anche loro innamorati di me, tutti poveri vedovi, che cercano moglie e chiedono credenziali: sei sposata? Hai bambini? Vivono con te? Si? No? E bisogna dire che, siccome amor vincit omnia, che io risponda di essere sposata o meno è assolutamente irrilevante, come risulta altrettanto irrilevante che io risponda sono artigiana del legno oppure, faccio la psicoanalista e la scrittrice, collaboro con dei giornali. John Eric e Donald quasi tutti seguiranno imperterriti il loro copione amoroso, senza apporre alcuna variazione. Ti amo, voglio fare per te tutto quello che vuoi. Voglio vivere con te il resto della mia vita.

Comprami un clinica residenziale per il trattamento dei disturbi bipolari – ho detto io, che soffro tanto del ritiro del pubblico dall’investimento nella salute mentale.

Certo – mi ha detto John, senza fare una piega, te la compro – per te tutto!

 

Quella volta, per un’ora mi sono beata del fatto che John mi comprasse la clinica dei disturbi bipolari, ma a stretto giro è arrivata la doccia fredda. Infatti pare che la banca di John non liberasse certi suoi fondi liquidi e avesse bisogno di avere una garanzia. Devi scrivere tu alla banca! – Mi ha detto John – scrivi che ti servono i soldi! Ah ok buona idea, a chi scrivo? Scrivi a Deutschbank@yahoo.com .

Io, che sostanzialmente avevo già in mente questo articolo l’ho fatto, e come era presumibile mi ha risposto qualcuno, probabilmente il solito John, che diceva – guarda non li possiamo liberare questi soldi.
Comunicato l’esito, il mio promesso sposo mi ha detto che non mi avrebbe potuto raggiungere, e che aveva bisogno di soldi, mannaggia. Non è che gli potevo alzare 5000 dollari? Da dare a quelli Della Deutsch Bank?
Li il nostro amore è finito.

Si tratta di una truffa che va per la maggiore da qualche anno, in diverse declinazioni, che passano tutte dai social network. Piccoli criminali, sparpagliati nel globo terraqueo, ma spesso nell’Africa orientale o nell’Europa dell’est, moltissimi in Nigeria e Ghana – probabilmente eterodiretti, sfruttano identità fittizie appartenenti a veri membri dell’esercito americano. E’ una truffa conveniente perché non ha costi vivi come si dice nelle aziende, perché per quanto dalle mail si possa anche rintracciare l’ip, o la storia della creazione dell’indirizzo, nove volte su dieci si approda a un internet caffè, ma non a un nominativo reale, e quand’anche ciò accadesse, e si riuscisse a capire chi è il reale autore del raggiro, quello sarebbe sottoposto alla giustizia del paese in cui opera. Certo, c’è stato il caso due anni fa di due signore del Colorado madre e figlia, 63 e 42 anni che nel 2013 erano riuscite a incassare svariate centinaia di migliaia di dollari, di cui però avrebbero trattenuto solo il dieci per cento, per poi inviare denaro al altre destinazioni – soprattutto nord Africa. In effetti, un numero impressionante di volte la truffa ha dato risultati elettrizzanti. Una donna inglese pare abbia sborsato 60’000 sterline nel 2011, e molte molte donne si sono lamentate con l’esercito americano chiedendo un risarcimento. La questione avviene talmente frequentemente che attualmente il sito dell’esercito ha una pagina ad essa dedicata in cui declina ogni responsabilità, e parimenti da un po’ di consigli di base per aiutare le donne a non caderci.

Questi militari americani hanno profili molto spogli e spesso poco usati. Non hanno contatti,   le poche foto che postano non sono state laikate da nessuno, e non scrivono niente sui loro profili. La loro tecnica di abbordaggio, salvo rarissimi casi, prevede un copione in cui si chiede età, stato civile, se ci sono figli, se una lavora. Ottenute queste informazioni anche con uno scambio piuttosto asciutto, il milite dichiara il suo stato civile – in prima battuta sono sempre vedovi – e di essere anche molto innamorato della bellezza che ha visto in foto, per cui vuole cominciare una relazione e se è il caso sposarsi. Tutto è di una brevità surreale – solo alcune volte, si verifica una variabile un po’ più decorata che inneggia alla bellezza e gentilezza e devozione della donna corteggiata. Ma anche questo secondo corteggiamento, prescinde dal qualsiasi caratteristica della sua persona e ha qualcosa di preconfezionato – le foto del profilo sono comunque ignorate. Segue un periodo piuttosto breve di corteggiamento e narrazione – che può riservare momenti di buon intrattenimento e dura un due o tre giorni. I militari americani sono tutti in zone esotiche come l’Afghanistan, la Siria, e possono succedere delle cose emozionanti, il capitano Paul per esempio mi ha mandato la foto di un suo soldato maciullato nel pomeriggio – intravedendo in me segni di incredulità. Altri indugiano in momenti narrativi come l’ammiraglio Eric, che vorrebbe lasciare la marina canadese per darsi al commercio del petrolio, però purtroppo mentre era a largo dell’oceano indiano sono arrivati i Pirati, e dal suo smartphone mi ha scritto che è in grande difficoltà perché gli stanno prendendo tutti i risparmi – una storia, effettivamente deliziosa. Mi ha chiesto quindi, se poteva recapitarmi 500’000 sterline in contanti a casa – opzione che io ho considerato azzardata.
Questa comunque è la fase cruciale della cosa: si chiede di ricevere dei soldi per mascherare la truffa che arriverà poco, dopo con una seconda richiesta.

Colpiscono delle cose. Per esempio il fatto che l’inglese è spesso pieno di errori, e che la conoscenza della rete sembra essere piuttosto sommaria, anche dello stesso mezzo facebook. E questo è affascinante, perché siccome la truffa spesso riesce, da delle indicazioni anche sul tipo di donna che vi cade più facilmente: qualcuna che non sa usare i social allo stesso modo, che ne ignora la loro intrinseca natura sociale. Una donna che non si insospettisce se uno ci ha un profilo senza amici e senza relazioni e che inoltre ha un’idea delle grandi istituzioni piuttosto grossolana.
Scrivi a Deutschbank@yahoo.com!

E ancora. Lo stilema relazionale dell’abbordaggio di questi truffatori, prescinde a piè pari dell’identità dell’interlocutrice, salvo qualche raro caso come l’ammiraglio Eric – di gran lunga il più talentuoso, che avendo saputo che sono psicoterapeuta mi ha raccontato di essere figlio di un padre alcolizzato e abusante, e che è cresciuto leggendo manuali di auto aiuto – un’allusione questa forse, al titolo del mio ultimo libro.
Altrimenti arrivano domande come – qual è il tuo hobby e il tuo colore preferito? Dopo di che a testimonianza delle loro serie intenzioni mandano foto di un gusto raccapricciante – cuori contornati di spine, anelli di diamanti stilizzati, e foto di maschi e femmine che si corteggiano e si baciano. Queste cose, insieme alla frequenza con cui ritorna nei dialoghi con loro Dio, l’importanza di una donna timorata di Dio, religiosa e attenta, “onesta” confermano il sospetto secondo cui si tratti di persone per lo più africane, lontane dalla cultura occidentale, che non la masticano e non la capiscono – la idealizzano la stilizzano in un’immagine loro. Mi ha colpito per esempio constatare come il copione seduttivo, non cambiasse di una virgola nei casi in cui io ho dato informazioni reali sul mio curriculum, come se il fatto che io scriva libri, collabori con giornali, faccia la psicoterapeuta non aggiungesse niente – come se questa variabile sociologica fosse per molti non includibile nel panorama, non implicasse variazioni di piano. Anche quando ho esternato tutto il mio cotè intellettuale, o cinico , invariabilmente mi è stato recapitata l’immagine di un signore in ginocchio che porge dei fiori a una damina, e poi un messaggio di gioia per aver trovato una donna gentile e timorata di Dio.

In tutto quindi si tratta di un tentativo di simulazione di relazione tra soggetti competenti occidentali, che si muovono però in un occidente stereotipico e immaginato e poco dominato una sorta di Occidentalismo. Se sull’Oriente del nostro mondo intellettuale Edward Said metteva l’esotismo, la seduzione erotica, il magico e il misterico, lo strano – il lunare e il femminile del mondo, i finti militari finti americani sono gli araldi di un immaginario testosteronico e avventuroso, ma anche vecchio e potente: sono scelti profili di generali over 50 qualche volta anche over 60, quasi mai con un fisico atletico e un bell’aspetto, pancia invece e capelli bianchi, che più spesso emanano un’idea di potere incarnata dal superiore del protagonista nei film di guerra, mai dal protagonista bello. Sono l’incarnazione dell’Occidente che ancora solca i mari del mondo, combatte le guerre, conquista il territorio, e che a sua volta corteggia un femminile archetipico e remoto, secondo un’idea della dama bianca che ricalca immaginari di culture ancora rurali, e dove vige ancora una forte discriminazione di genere. Lei sarà contenta perché definita pura, virtuosa, gentile, modesta, e per qualsiasi dama, secondo l’immaginario occidentalista, però permeato di oriente, lei sarà contenta. Si sentirà gratificata. Tutto è estremamente archetipico e poco codificato sul piano dell’io, poco individualizzato – tutto si gioca sul piano dell’uomo e della donna immaginari, che sul piano dell’uomo e della donna reali, diversi l’uno dall’altra. Il che nel nostro contesto comunicativo procura un oggettivo effetto straniante e comico. Come quando questi corteggiatori inviano le foto di due ragazzi che si baciano sulla spiaggia, come a dimostrare l’intenzione baciatoria e romantica. Una donna moderatamente sana dice: scusa è, ma a me di questi che mi frega?

E le donne che ci cadono?
Spesso sono donne single, e spesso di ceto sociale mediobasso, o comunque con pochi strumenti per decodificare le proposte on line. Più frequentemente divorziate, o mai sposate, il desiderio di relazione deve far loro abbassare molto le difese e un livello di autostima molto basso deve far loro accogliere quei generici complimenti come qualcosa di autentico e credibile, desiderato. Alla percezione di se come poco differenziata deve corrispondere quel corteggiamento poco curato, deve risultare riempitivo e soddisfacente. Ma sicuramente devono essere anche donne molto povere di strumenti culturali per non riuscire a decodificare per tempo segni lampanti di raggiro, perché le storie raccontate sono incredibili e poco aderenti la realtà. L’ammiraglio Eric per esempio voleva mandarmi per posta, 500’000 sterline in contanti – Roba che manco 007 Dalla Russia con Amore. All’Ammiraglio Eric ho dato allora un indirizzo fittizio e lui hai dichiarato di aver mandato li i soldi. Di li a poco mi è arrivata la ricevuta di una presunta ditta di trasporti che mi chiedeva di sganciare 1700 euro per avere il pacco dell’ammiraglio.
La ditta di trasporti mi scriveva in un italiano pieno di errori, diceva di aver ricevuto un pacco “dall’oceano indiano” da parte di mio marito Eric (sic) e tutto era qualcosa di più simile al monopoli dei miei bambini che a un traffico internazionale. Donne quindi che non hanno strumenti culturali a sufficienza per discriminare tra gioco e realtà laddove le stimmate del gioco sono lampanti.

Si tratta dunque di un curioso fenomeno ellittico, una scarsa conoscenza del mondo e della rete dal sul del mondo parte alla volta della rapina del nord del mondo – la dama bianca! – intrecciandosi in forme di ignoranza che gli osno omogenee. Dietro c’è il sapore di una dolorosa rivalsa segreta. Tutti i militari a cui ho rivelato alla fine che non ho mai creduto a niente di quello che mi avessero detto, che non solo ero davvero felicemente sposata con figli ma anche proprio interessata alla comprensione scientifica della questione, mi hanno coperta di terribili insulti, qualcuno però mi ha detto – devi stare attenta, un giorno conoscerai questo buco del culo del mondo, e allora vedrai.

 

 

 

 

 

 

Fuga senza fine

Era stato il rampollo di una fila di case stoppacciose, con le corde molli della luce che scendevano sui muri, sabbia e sassi che frinivano ovunque. Pure, l’unica antenna parabolica era quella di suo padre, e anche le lunghe panche di legno verniciate color crema, per dire, e il telefono senza il filo, senza la prolunga.
Sua madre era una grassa chioccia, tronfia di dieci bambini splendenti, dieci piccoli curdi intagliati nell’oro. Lui era il più grande, quello con gli occhi del nonno. L’eletto, l’amato, il prescelto.

Era stato un ragazzino irridente e scanzonato – e sciocco, plateale, borioso. Un galletto di piccola stazza col torace dilatato, le mani grandi e il naso forte – un torello da monta e da balera si sarebbe detto ad altre latitudini. Nei suoi pomeriggi medioorientali, sull’orlo sfilacciato di Ankara, arringava assembramenti di sfaccendati, avanzava idee rivoluzionarie. Una volta soltanto – aveva origliato maschi pieni di rughe e unghie nere, e s’era incantato davanti a delle mitragliette a riposo, stese su una panca di legno.
il Totò del PKK.

Troppo felice e troppo amato per essere pericoloso per i nemici, la vanità l’aveva reso una minaccia per gli amici. In assenza di sfide mortali, millantava la partecipazione a quelle altrui, rivendicava nobilitanti vicinanze, trattava con superbia la madre e le sorelle.
Il padre era sempre lontano, disperso in affari siderali e incomprensibili, e la bocca e il cuore gli si riempivano di altri padri ancor più belli e temibili. Cugini di secondo grado che lo tenevano in fondo alla stanza, che lo ignoravano mentre mischiava il suo bicchiere con i loro, che gli annuivano assonnati mentre cercava di dire la sua, e loro già altrove.
A un certo punto, un po’ per la primogenitura, un po’ per la pericolosa dabbenaggine, fu mandato in Germania a studiare.

La Germania non aveva soltanto moltissimi telefoni senza fili, e case con fior di divani, ma anche valanghe di eroi. Le mense erano piene di uomini alti e infiammati, che non avevano bisogno di baciare ragazzine nei locali per dimostrare di essere virili, che lasciavano alla neve e alla notte i piani pericolosi per la battaglia, e i furti, e le bombe carta e l’arabo ma anche lo spagnolo, e certo un tedesco ibrido e rotante. C’erano più esuli intorno a una birra che in tutta la sua vita di minoranza. Ragazzi con mani eleganti di hidalgo spagnoli, risate che alludevano a sofisticate teorie politiche, coltelli sottili e maneggevoli.  Un nuovo mondo che non l’avrebbe messo neanche in fondo alla stanza.

 -Tu farai strada – le disse con cattiveria una volta. Stavano a un tavolo di cucina piuttosto glabro, le aveva ordinato un caffè che non gli avrebbe portato, e le chiedeva di sentirsi in colpa perché abitava il lato giusto del mondo, e quello giusto del tavolo – il lato delle aspettative delle sentenze, delle speranze disattese, il lato della sedotta occidentale che deve capire però cosa vuol dire, sedersi dall’altra parte.
Una consolazione che non gli regalò, perché la concorrenza di eroi per cui la ragazzina, lo lasciò veniva da genealogie altrettanto disgraziate, ma da genetiche più fortunate.

(Negli anni il volto avrebbe acquisito il pallore di una profezia che si avvera, gli occhi che la madre avrebbe temuto, il modo di tenere la testa appoggiata allo schienale di sbiego – con il mento che punta alla rassegnazione. ).