psicopatologia della violenza di genere. Alcune note

Spesso quando si parla di femminicidio, molte persone polemizzano sul termine perché disconoscono la specificità del fenomeno. E’ una forma di violenza, è una forma di omicidio – dicono – perché farne uno status separato? E’ un tipo di obiezione che proviene da persone in buona fede, magari lontane dai contesti operativi, ma anche da maschilisti che invece traducono il riconoscimento della specificità del femminicidio, in una promozione della centralità delle donne che li disturba, e infine è una parola avversata anche da diverse donne, che vedono nell’uso del termine, una sorta di regressione sessista, perché vivono una vita probabilmente, che permette loro di credere che il problema non sussista per le donne e le ragazze.
Il termine invece a me era antipatico, perché alludeva alla femmina della bestia, e non alla donna degli esseri umani, nella sua crudezza mi pareva discriminatorio. Ma me lo tengo oramai, di meglio non si è trovato, e ritengo che la specificità sia assolutamente rilevante, per tutti gli operatori che lavorano con questo fenomeno, ritengo che la violenza di genere abbia cioè connotazioni sue proprie che è importante tenere a mente, per prevenirla, o per arginarla.

Nel mio modo di intendere il fenomeno, la violenza di genere risponde a una patologia di un individuo o di una coppia, che si iscrive in un contesto sociale il quale potrebbe in varia misura, rinforzare quella patologia piuttosto che ostacolarla. Se per prima cosa vogliamo considerare questa relazione tra comportamento violento verso la donna, e contesto, dobbiamo considerare per prima cosa il fatto che molto raramente, quanto il comportamento violento, quanto l’omicidio della donna sono gesti isolati, ma sono invece iscritti in una successione di episodi che procede per ordine di grandezza: nei centri antiviolenza si usa parlare di spirale della violenza.
La spirale della violenza, è quella cosa per cui nel contesto di una coppia i primi gesti aggressivi dell’uomo sono le limitazioni alla libertà della partner, gli insulti verbali e i comportamenti svalutanti e degradanti, per poi arrivare ad alzare la posta dell’aggressività a ogni gesto vitale di lei, prima picchiando e poi ferendo per esempio con armi da taglio. Di poi se lei se ne va di casa, o tenta la denuncia, o insomma cerca una qualsiasi forma di riscatto, la spirale della violenza può esitare in femminicidio – questa progressione dei comportamenti ha sorprendenti somiglianze nei più diversi contesti culturali. In ogni caso, da qui deriva una prima buona regola, per cui quando si ha a che fare con donne in simili situazione critiche, è meglio impedire loro di fare denuncia, o di opporsi prima che abbiano trovato un porto sicuro, protetto e ignoto al partner. Perché la denuncia è spesso percepita dall’uomo abusante, come una sfida maschile al suo potere, una cosa di maschio contro maschio, e allo stesso tempo una sfida imperdonabile della partner, che ha tradito riconoscendo un altro potere fallico, e che allo stesso tempo proprio per questo mostra di sfuggirgli inesorabilmente – lui che non tollera  emotivamente e psicologicamente le separazioni.

Ma se consideriamo questa cosa della spirale della violenza, dobbiamo valutare con attenzione il potere del contesto.
Esempio. Una donna riferisce provocatoriamente al compagno, il fatto che ha un amante, e il compagno la colpisce in faccia, insultandola. La relazione è ampiamente disfunzionale e ci sono due patologie in regime di concorrenza e di collusione. Entrambi i partner hanno un problema uno con il femminile e una con il maschile interno, entrambi devono avere una coppia interna di genitori che deve aver lasciato una cattiva eredità, e magari sono di quelli che dopo un conflitto molto aspro, finiranno a letto insieme. In questo caso, moderatamente frequente, c’è un partner che è eccitato sessualmente da un comportamento sadico – vediamo che faccia fai a sapere che ho un amante, vediamo se soffri e se ti senti una merda facendomi sentire potente, e un partner che è eccitato dalla propria esperienza di umiliazione, e dalla performante reazione violenta che ristabilisce la gerarchia emotiva un minuto prima abbattuta, con il potere della forza fisica. Nella maggior parte dei casi le patologie sadiche non sono così ben distribuite, ma ho scelto il caso in cui la donna è meno vittima possibile per far capire per bene la forza del potere contestuale.

Il giorno dopo l’uomo vedrà degli amici, ed essi faranno le loro valutazioni. In contesti maggiormente sessisti e genericamente arretrati, in cui un certo tipo di maschilismo arcaico non conosce argini anche secondari – una certa osservanza borghese delle convenzioni per esempio – gli amici dell’uomo potrebbero complimentarsi con lui. Siccome l’uomo vive una patologia molto grave, e una relazione sessuale penosa, per cui si riesce a far sesso solo dopo la parata della coercizione, e dunque la sua percezione profonda di virilità è gravemente incrinata, l’incoraggiamento degli amici offrirà un appiglio importantissimo vitale: un copione da non tradire in nessun modo. La violenza di genere sarà insomma per dirla junghianamente, la sua persona trasformata in armatura, il suo falso se efficace e socialmente plaudito che nasconde il maschile interno incrinato. Inoltre, i suoi sostenitori per motivi sociali, ma anche psichici loro propri, potrebbero decidere di sostenerlo materialmente nella sua lotta alla sua donna – servendosi del potere di loro come uomini: impedendole di uscire, per esempio, minacciandola se la vedono fuori casa – cose nei centri antiviolenza all’ordine del giorno.
Se invece l’uomo appartenesse a una contestualità diversa, che dovesse reagire con per esempio preoccupazione e imbarazzo, o anche con una svalutazione anche di marca conservatrice – le donne non si toccano neanche con un fiore! Se la picchi fai qualcosa di vigliacco, di facile, di indecoroso, di insomma poco maschile- l’uomo sarebbe maggiormente indotto a prendere contatto con la connotazione patologica della sua scelta. Non è detto che ci riuscirebbe, e probabilmente il suo assetto psichico si troverebbe di fronte a un difficile bivio – mi guardo o diventano tutti miei nemici, e insomma la sintomatologia non sarebbe rinforzata, ma la sua percezione acutizzata.

Se vogliamo invece valutare la questione in termini più strettamente psicopatologici, e mettere la lente di ingrandimento nel mondo endopsichico della persona propensa alla violenza di genere, nella mia esperienza almeno, io constato che all’aggressività verso la partner sul piano di realtà, all’aggressività verso il femminile incarnato concretamente, corrisponde spesso e volentieri, una totale subalternità nel mondo interno, un modo di vivere il femminile come immensamente potente, dominante, invincibile castrante – una costellazione emotiva e psichica a cui la persona reagisce agendo il senso di sudditanza con il riscatto vano sul piano di realtà. Tanto più forte è il senso di dipendenza interno, di inferiorità di potere, tanto più virulenta sarà la misoginia – che bisogna far attenzione è costitutivamente separata e diversa dal maschilismo (il maschilismo è un problema politico – e si può decidere di osteggiarlo ma anche di rispettarlo come scelta pacifica di vita rispetto a quella che facciamo noi come persone e come coppie: esistono casalinghe felici, e coppie di professionisti infelici. La misoginia è una grave patologia invece che non dovrebbe avere soluzioni nel contesto giuridico, che non merita alcuna forma di relativismo, che abita comunque il regno della diagnosi).

Per far capire questa cosa posso portare due esempi. Il primo è il bellissimo film di Polansky – un uomo che per la violenza di genere ha passato guai di ordine penale. Il secondo è l’immagine nella sabbia che mi portò un mio vecchio paziente, che aveva un problema importante di violenza di genere. Il film di Polansky, è venere in pelliccia, è rappresenta la graduale manifestazione di un femminile sadico e onirico, che diviene gradatamente più eroticamente seduttivo, manipolatore, provocatore e sadico nell’arco di tutto il film, e depositando all’interno dello stesso spettatore che vede il film, un senso di rabbia, repressione, umiliazione, e disagio.

Il secondo caso, è l’immagine di questo mio paziente. Che vedeva al centro della scena un immenso coccodrillo, delle dimensioni di una nave, di una portaerei, e tutto intorno una serie di piccolissimi uomini armati, della dimensione di tanti piccoli nani. Il coccodrillo era decodificato da lui stesso come la sua idea di femminile, un istintualità immensamente potente, pericolosissima, capace di fagocitare, e i piccolissimi uomini armati, i cui proiettili sarebbero senz’altro rimbalzati sulla coriacea corazza della donna coccodrillo, la rappresentazione dei suoi vani, infiniti, continui molteplici attacchi.
Immagini del genere, a un clinico – ne potrei citare molte altre – fornirebbero anche una buona direzione di rotta, sulle parti psichiche su cui lavorare – si può provare a entrare in contatto con il sé profondo della persona che si ha in stanza, fosse uno dei piccoli armati della seconda immagine, fosse il disgraziato regista del film di Polansky, e ci si può lavorare.

Il che necessariamente non significa, come ritiene spesso un’idea popolare di psicologia, giustificare sul piano etico o politico un certo comportamento. Sia perché la funzione della cura psichica con combacia esattamente con il gesto politico e la sanzione collettiva, la funzione clinica è una funzione relativamente cioè indipendente, sia perché non di rado, la reazione interna che provoca la narrazione di un comportamento violento, può essere un oggetto clinico molto importante, sia che lo si utilizzi senza esplicitarlo, che nei rari casi in cui si voglia fare una self disclousure e si decida di mettere il paziente di fronte alle operazioni psichiche e relazionali che mette in atto. Esempio. Mi sta dicendo – a me terapeuta – che ha picchiato ancora una volta sua moglie. Mi vuole scandalizzare? Sta facendo in modo che sia io a giudicarla, in modo da avere almeno qualcuno nella stanza che sia in grado di fare da super – io visto che lei da solo non riesce?

Tuttavia, credo che nelle psicoterapie individuali e ahimè anche di coppia questo raramente riesce bene, perché questo tipo di pazienti, mettono in atto difese molto forti di fronte alla possibilità di toccare certi contenuti, e non volontariamente. Somigliano moltissimo a certi psicotici che non sono in grado di simbolizzare gli oggetti metaforici. Non dico sempre, qualche terapia può avvenire con successo – uno per esempio che avesse le doti mitopoietiche di un Polansky per esempio potrebbe servirsi con successo di una buona psicoterapia – ma spessissimo, il tentativo è vano. Specie se la terapia arriva prima di una sanzione collettiva e di ordine superegoico, ossia una condanna sul piano penale.

Si hanno notizie invece interessanti e confortanti, dai colleghi che fanno terapie di gruppo specie in carcere. La terapia di gruppo – specie se condotta da un terapeuta uomo – posteriore a una sanzione, fa decodificare credo il suggerimento di contatto con il mondo psichico come possibile introiezione di un maschile sano e potente, un oggetto dominante che si desidera far proprio. Lo stato che punisce è un sorta di maschio alfa che si vuol far proprio, e forse anche l’idea di un maschio sano che conduca una terapia di gruppo, ha qualcosa di funzionale. Anche il rispecchiamento tra uomini che vivono la medesima condizione potrà portare a risultati più soffisfacenti.
E’ qualcosa su cui bisogna riflettere. Chiudo qui, penso che ci siano ancora molte cose da dire. Ma il post è già piuttosto intenso.

Intorno all’ADHD

 

A qualsiasi genitore oggi, capita con regolarità di avere a che fare nella classe del proprio figlio con un bambino che viene definito come problematico, anche se l’area problematica sembra di difficile identificazione. Il bambino problematico – o la bambina – di cui parliamo non va bene in molte materie, o in alcune, e questo è il meno. Ma non sta mai fermo, spesso non sta mai zitto: interrompe sempre, è terribilmente irrequieto, vuole uscire in continuazione – oppure propone attività che non ci entrano niente, si alza spesso, disturba i compagni, è agitato. Spesso fa fatica a fare amicizie oppure no, non ne ha alcuna, ma questo dai genitori è registrato poco. Si accorgono invece delle volte in cui è aggressivo – può accadere che aggredisca un compagno, o che sputi a qualcuno, o che scansi rumorosamente un banco. In certe occasioni, quando sono al massimo dell’agitazione, questi bambini difficili sembrano incontenibili: non reggono la parola né l’abbraccio, e quindi può accadere che una maestra ci provi in tutti i modi e non riesca a entrare in relazione.

E’ una situazione che, noto sempre più spesso, elicita reazioni forti tra i genitori e non solo, per quella che mi pare una strana mescolanza di ideologie e di mondi che si sono succeduti troppo rapidamente. Non è affatto lontana da noi, l’epoca in cui si facevano molti figli, l’infanzia non era preziosa, non era oggetto di interesse e neanche di scienza. I nostri nonni hanno avuto genitori che lavoravano bambini, e che bambine erano spose e madri. I nostri nonni non hanno avuto un pediatra ma solo un medico, e solo i più colti dei nostri genitori, e probabilmente i più ricchi, possono avere potuto godere delle attenzioni di uno psicoterapeuta infantile. Tutti, genitori, nonni e bisnonni, sono stati invece – nella migliore delle ipotesi sotto l’occhio attento di un ordine femminile di madri, di zie, e dunque di donne: un sapere pragmatico, non formalizzato, non trascritto, non valorizzato, non validato: un sapere da cucina e di terza classe, abituato alla natura cattiva per cui, vita morte vaiolo, dolore e schizofrenia erano parte ineludibile del panorama.

Di contro oggi, ce ne stiamo – pochi e vecchi – seduti sul cocuzzolo di un consistente progresso culturale scientifico e politico in senso lato (non si sa questo ancora per quanto). La scienza ha cambiato velocemente il nostro mondo e il nostro modo di pensarci. La nostra vita si è dimostrata incredibile! Migliorabile con la forza dell’intenzione e con l’ausilio della del sapere. Rispetto ai nostri nonni, non solo diventiamo adulti molto più tardi ma scantoniamo la morte e la vecchiaia con molto più successo: noi possiamo molto ma molto di più sulla nostra vita di quanto sia mai stato credibile. Abbiamo imparato a mettere in scacco il potere dionisiaco della natura con mille strategie: i vaccini per esempio, e l’igiene quotidiana per farne un altro, e l’attenzione collettiva all’alimentazione (gli ingredienti sui prodotti, le date di scadenza, i controlli dei NAS) e la medicina naturalmente massimo esempio. E ultima ma dirimente, la psicologia – che al sapere confuso delle madri non alfabetizzate ha sostituito la costruzione di un mondo teorico e altamente specializzato di uomini e di donne.
Con questo armamentario e queste aspettative facciamo pochi figli, e questi pochi figli diventano piccole icone da idolatrare e su cui investire il nostro desiderio di immortale perfezione: le atrocità che nevroticamente nei secoli scorsi erano perdonate a Dio e al Destino – oggi guadagnano il tragico e l’intollerabile: non facciamo mica dieci figli, manco sei: ne facciamo uno o due. Per noi hanno un nuovo valore, ne va della nostra vita.
Anzi, non solo devono vivere, ma devono vivere al meglio, al meglio delle loro prestazioni emotive e intellettuali. Devono essere non solo la continuazione del nostro io, ma anche del nostro collettivo. Sono i nostri valori che cammineranno dopo la nostra morte.

Un bambino con grandi difficoltà che dunque inciampa nella sua edificazione e sembra far di inciampo ad altri bambini, mi pare che spesso procuri questa successione di reazioni: un primo senso di enpasse nel gruppo di adulti che si sentono messi in scacco dall’infanzia che appare difettosa, la così preziosa infanzia, e la reazione a questo stato emotivo che non è quella di rivolgersi alle consapevolezze degli strumenti culturali e condivisi del momento attuale di tenerle in mente, ma quella di fuggire nel mondo dei padri e dei nonni, quando il bambino in difficoltà era nel panorama del naturale e quindi.

  1. Ai tempi dei nostri genitori le diagnosi non c’erano mica e si campava tutti lo stesso che schifo ora tutta questa importanza a queste sciocchezze.
  2. due schiaffi ci avrebbe dato mio padre e passava la paura, si vede che i genitori di questo bambino non sono abbastanza severi
    Ah questo bambino non è capito non è amato bisogna essere carini tanto con questi bambini
  3. E però evidentemente le maestre non ci sanno fare.
  4. E però evidentemente i genitori non se ne occupano come dovrebbero
  5. E però scusate capisco ci avrà anche i problemi ok ma perché deve avere una corsia speciale.
  6. (eventuale di solito madre casalinga) eh ben pensano alla carriera i genitori la madre pensa solo a lavorare.

 

Invece molto spesso, nessuna di queste affermazioni è neanche blandamente sufficiente o peggio ancora semplicemente congrua, con questo ordine di problematiche. Di solito questi bambini difficili in classe hanno una diagnosi specifica ADHD, il disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività – che erroneamente viene associata alla normale vivacità infantile, ma che invece è qualcosa di profondamente diverso. Si tratta di un disturbo – che ha una sua base neurologica – che combacia con una difficoltà a mantenere la concentrazione su un qualsiasi compito, una continuità – e questo non disturba solo le possibilità di apprendimento proprio e altrui, ma anche le possibilità di socializzazione – perché i bambini da un certo punto in poi hanno attività collettive estremamente sofisticate per portare avanti le quali occorre una capacità di concentrazione che in loro è continuamente squadernata, disorganizzata – per cui, alla fine non riescono a fare amicizia, e sono isolati rispetto al gruppo dei compagni. La diagnosi è recente, perché in realtà è molto recente tutto il mondo della psicologia infantile. Basti considerare che i primi criteri differenziali delle diagnosi psicologiche e psichiatriche per i disturbi dell’età evolutiva sono arrivati solo alla quarta edizione del DSM, quella del 1984 – in medicina e psicologia cioè l’altro ieri.
Prima – con risultati piuttosto gravi e fuorvianti – si usava anche per i minori lo spettro diagnostico della psichiatria degli adulti – e si potevano compiere molti gravi errori.

Un esempio di questo cambiamento che ci riguarda in modo particolare è la diagnosi di depressione. In età infantile infatti la sintomatologia depressiva degli adulti – quella staticità, il silenzio, il trascinarsi, non svolgere attività, la malinconia permanente, sono sintomi che rinviano più a questioni di ordine neuropsichiatrico che alla depressione, la depressione in età infantile ha invece spesso e volentieri un contenuto che sfuma nell’ADHD perché l’essere esagitati, aggressivi, irrequieti è il modo di scaricare vissuti dolorosi e negativi per i piccoli altrimenti ingestibili. In effetti secondo gli psicoterapeuti infantili di orientamento psicodinamico, il disturbo da deficit e attenzione e iperattività è una forma depressiva: come per gli adulti infatti ci sono contenuti penosi che disturbano e una forma di aggressività verso oggetti simbolici. Solo che queste dimensioni problematiche non possono essere fisiologicamente mantenute intellettualmente ed emotivamente e devono essere in qualche scaricate.

Va detto che alle modalità con cui si presenta il disturbo, e alle diverse intensità contribuiscono gli effetti di diverse concause. La prima, come bisogna considerare per molte psicopatologie – è di ordine biologico: a disturbi gravi spesso corrisponde una predisposizione neurologica che indica alla psiche la strada maestra del sintomo nel caso specifico di quel bambino o individuo. Il corpo dice quale sarà il suo modo di esprimere un certo malessere o una certa reazione a disagi causati dall’ambiente. (Questa questione della predisposizione biologica andrebbe sempre tenuta a mente in questo ambito: spiega perché a parità di storie di vita ugualmente dolorose e difficili una persona possa avere bisogno di un intervento strutturato di equipe, mentre a un’altra sia sufficiente una semplice psicoterapia). Questo vale ancora di più per forme del disturbo particolarmente gravi e che creano un disagio importante nel bambino – e sono forme che secondo me, possono in caso giustificare l’introduzione del tanto detestato psicofarmaco.

Gli psicofarmaci in età infantile sono un tema controverso: perché si teme – non a torto – che possano interferire sullo sviluppo del sistema nervoso, e rallentare le capacità intellettive dei bambini, e che siano anche una sorta di scorciatoia per evitare di confrontarsi con la dimensione emotiva di un problema, e della lunga strada che presuppone la sua risoluzione. Vanno perciò prescritti e presi in considerazione con cautela. Ma quando certi disturbi si pongono in maniera molto rigida, con sintomi che coprono le risorse, garantendo uno stato di infelicità e frustrazione costanti – l’introduzione di un farmaco, a un dosaggio sorvegliato e fornito da uno specialista, è una cosa da considerare: perché l’infanzia e l’adolescenza sono un terreno da lasciar libero, sono il tesoro della vita futura, il posto dove tutti noi torniamo da adulti, e bisogna mettersi una mano sulla coscienza prima di farle confiscare da una patologia che guarisce più lentamente della crescita del corpo.

Ma certo ci sono altri fattori, che riguardano le storie individuali. E quindi sono diversificati per quanti romanzi ci possono essere nelle vite dei singoli. Trasversalmente mi sembra comunque che l’ADHD corrisponda alla situazione di un bambino che combatte una doppia battaglia: da una parte ha il problema di fronteggiare elementi psichici disturbanti che vengono dall’inconscio e dal passato, pensieri dolorosi che hanno la capacità di frantumare la sua esperienza quotidiana e che riguarderanno la storia della sua famiglia, i suoi genitori, le mancanze a cui è stato esposto, le perdite di sintonizzazione troppo frequenti. La classificazione dell’esperienze patogene in questa sede ci è impossibile perché infinita. Ma dall’altra ha il problema di un mancata capacità contenitiva. Un’assenza di contenitore esterno che ha anticipato la difficoltà a costruire un contenitore interno. Spesso magari i genitori di questi bambini, non per cattiveria, non hanno saputo fronteggiare il pianto quando questi erano piccolissimi, contenere le richieste – e quando sono stati un pochino più grandi non sono riusciti, e ora cronicamente non riescono a fornire un argine. Non riescono a dire stai fermo! E a essere obbediti, come prima non riuscivano a dire vieni in braccio a me che risolviamo questo tuo pianto.

Mi pare che spesso manchi nei genitori di questi bimbi, la forza della reverie. Bion chiamava con Reverie la capacità di un genitore di contenere le forze distruttive che prorompono da un lattante e da un bambino molto piccolo che piange, e di trasformarle in oggetti gestibili. Piangi e tu bambino non sai perché piangi ma vieni in braccio a me e insieme trasformiamo questa cosa potentissima che ti fa essere rosso di rabbia in un oggetto riconoscibile: hai fame. Hai freddo. Ti manco. L’infinito mondo preverbale che ti vive e ti sovrasta, in braccio a me diventa una cosa gestibile definita, a cui diamo assieme nome e risposta. Fame, Freddo, Solitudine. Latte, coperta, abbraccio.

Tenere a mente tutte queste cose però deve fare stare in guardia prima di esprimere giudizi affrettati sulla condotta di genitori che hanno un bambino complicato. La storia delle psicopatologie è intessuta per una percentuale consistente ma minoritaria di cattivi genitori, o di genitori disinteressati o molto distratti, ma per grande parte di genitori imperfetti che a loro volta sono titolari di un carico emotivo di difficoltà che non sono riusciti a dipanare, e che ora si mettono in gioco nella loro relazione più importante. Per altro, con queste aspettative altissime che abbiamo sulla qualità di vita nostra e dei bambini nostri – giuste o sbagliate che siano – in ben pochi siamo davvero immuni dalla constatazione delle conseguenze che una sofferenza strutturale procura nella progenie, e quindi prima di lanciar strali, calma e gesso. Quando un genitore non riesce a sintonizzarsi con i bisogni di un piccolo, e non riesce a contenere e a trasformare i famosi elementi beta di bion (quei dolori preverbali soverchianti) in elementi alfa (i nomi che riusciamo a dare calmando i bambini) questo succede perché nessuno è stato capace di farlo con loro, che pure loro se la sono cavata alla bell’e meglio. In certi casi, il pianto disperato di un lattante può aver evocato (senza che sia davvero ricordato) il proprio pianto, un proprio dolore non curato, un essere stato da parte – e il genitore si è trovato davanti al bivio psichico tra il riscrivere sul figlio la propria storia, o il cambiarla e no – magari, non l’ha cambiata.

Quando poi questo figlio cresce, ed è il caso in cui questo problema lo definisce più di altre cose, il genitore può vivere diverse condizioni che a prima vista possono non sembrare molto logiche. Per esempio può faticare moltissimo a prendere atto della dimensione problematica del piccolo, perché lo addolora renderersi conto che i suoi migliori tentativi di cura, in buona fede non lo hanno reso sicuro. Oppure, al contrario può fare molta fatica a toccare la colpa di quel presentimento, di quel sapere che stava facendo male ma no non voleva o riusciva a correggersi. E ora che ci prova il figlio o la figlia sono dannatamente resistenti, oppositivi, vanificano qualsiasi intervento per cui, il vissuto dei genitori in questione potrebbe essere di grandissimo disagio e frustrazione, di fuga, di esasperazione. Possono avere bisogno di molto tempo (un anno, due anni, uno o due cambi di scuola al piccolo) prima di prendere atto di un problema importante da risolvere in altro modo. E bisogna anche tener conto del fatto che purtroppo le istituzioni sono svuotate della possibilità di un intervento tempestivo per cui, una volta che i genitori si dovessero decidere finalmente a portare un figlio a ottenere un percorso diagnostico che potrebbe far mettere nero su bianco il bisogno per esempio, di una figura di sostegno a scuola, per l’assenza cronica di personale, questo iter potrebbe durare moltissimo tempo.
Chi ci sta intorno dunque, dovrebbe cercare di essere molto paziente – e aiutare con grazia, qualora ci sia l’intimità necessaria – a imboccare la strada di cura e di protezione più opportuna, tenendo conto del fatto che, questo ordine di problemi come altri di ordine psicologico e psichiatrico non si risolvono con alcuni lampi di buon senso, con semplici rotazioni di approccio, con un aumento di sanzione o di gentilezza o di cura. Un bambino è già un risultato di azioni -biologiche e storiche. Non si trasforma con un sorriso. Né sceglie con tanta agilità cosa fare e cosa non, manco quelli che stanno relativamente bene – e forse neanche noi. Assumere la consapevolezza di quanto siamo tutti vincolati dalla nostra storia, dalle abitudini caratteriali che performano la nostra personalità e la guidano, può aiutare a essere più comprensivi con le rigidità degli altri.

Blaise, I’m thinking about you

 

Non è poi così tanto tempo che dentro l’università e anche fuori è diventato di moda il concetto di empatia. Siamo in anni che hanno lo svantaggio della risacca e della debolezza, ma almeno ci confortiamo con la comprensione. Un’epoca di premoderna rocciosità sta distesa alle nostre spalle – un paesaggio sterminato di padri e di figli, di verghe e superio, di esplicita ideologia del maschile, a cui un altrettanto premoderno dominio del femminile, se ne stava nell’implicito, nel preverbale, nel marginale. La comprensione e l’empatia in quella distesa rocciosa non andavano affatto di moda, era l’epoca dei maschi trionfi del coraggio, dell’assertività, e del dovere – ed era un’epoca in cui val la pena di ricordarlo sempre, si stava male – di un male diverso, di un altro ordine di difficoltà, ma che sfido parecchi di noi a voler riabbracciare. Ora entra in scena l’empatia, parola piuttosto nuova, che diventa un valore condiviso. Credo che il sessantotto, il pacifismo, il movimento hippie e lo stesso femminismo ne abbiano facilitato l’ingresso nel nostro mondo quotidiano, ma che determinante per la sua esplosione sia stata la crescente influenza  della cultura psicologica nella vita quotidiana.

L’empatia è una versione gentile e paritaria della compassione, di cui tutto sommato condivide l’etimo: sempre di patire insieme si tratta, ma a fronte del profumo asimmetrico e cattolico della compassione, che era cum tanto per dire, ma che presuppone uno scendere nel dolore dell’altro da parte di chi di suo starebbe più in alto, e dunque si abbasserebbe provvisoriamente, l’empatia dichiara di tuffarsi nel pathos e starci, su un piano di parità. Un piano di sorellanza. Io sto con te, ti capisco. Tocco i tuoi sentimenti e quindi li comprendo. Empatizzo e quindi, accetto le logiche che i tuoi sentimenti producono. Io che empatizzo, riduco la distanza tra la mia storia e la tua, e di questo stare dentro, che potrebbe o forse dovrebbe, essere provvisorio, io mi porto un alone, un cambiamento interno che rimarrà ogni qual volta si parlerà di vicende come la tua. Ho empatizzato con te. Mi sono preso il tuo sguardo.

Ora, al di la della scoperta culturale dell’empatia, e della apprezzabilità morale delle persone empatiche, il suo esercizio è tutt’altro che facile, e spesso fraintendibile. Siamo portati a pensare che l’empatia sua un moto del cuore, con questa sorta di ipostatizzazione del cuore che è una delle nostre nuove icone culturali. Per esempio, ci ricordano i baci perugina che il cuore ha le sue ragioni che la ragione non conosce! Come sarebbe stato infatti detto dall’ignorato e frainteso Pascal, che tutto era fuorché un romantico, come a intendere che c’è una divinità seconda, antagonista alla razionalità, al calcolo e all’interesse, che segue slanci suoi propri di amore e gentilezza e quindi, corollario di empatia. Le persone di cuore in questa sollucchero da nuovo millennio, sarebbero persone altruiste e che seguono la bontà, da contrapporre agli egoisti che seguono il calcolo e insomma va da se che l’empatia diventa l’ancella di un nuovo idealismo.

L’idea di un modo di approcciare la realtà però come mera funzione di una disponibilità sentimentale è però fuorviante. Preferisco invece approcciare l’empatia per una via più neutra, meno entusiasta ma forse più utile, che è quella che passa dal concetto di funzione riflessiva – introdotto da Peter Fonagy e Mary Target, e che poi è confluito nel concetto di mentalizzazione. La funzione riflessiva è quella che – banalmente – ci rende capace di leggere stati d’animo altrui – la mentalizzazione è la capacità di stabilire nessi causali corretti tra determinati stati d’animo e determinate azioni nella vita degli altri, sulla scorta della causalità sperimentata nella vita propria. Bassissimi livelli di mentalizzazione corrispondono a patologie gravi, e confluiscono in forme di autismo –mentre dall’altra parte, si presuppone che chi faccia un mestiere come lo psicoterapeuta possa avere una capacità di mentalizzare molto sviluppata. La differenza però – importante tra l’empatia e la mentalizzazione è che la prima presuppone uno slancio emotivo di sostegno, che invece la mentalizzazione non implica necessariamente: io capisco perfettamente la successione causale che vi è tra ciò che dici e quello che senti e pensi, ma ciò non vuol dire che io sia dalla tua parte. Che io mi accori. Una modesta capacità di mentalizzare quindi, non necessariamente implica un disinteresse, o un movimento ostile quando vengono raccontate delle vicende, ma fa fare delle inferenze erronee, fa proprio non capire a monte la realtà. Una bassa capacità di mentalizzare è dunque, prima di tutto un handicap: si intuisce di meno, si capisce di meno, e quindi si ha come un motore esistenziale che cammina di meno.

Quello che noi chiamiamo però empatia, è una sorta di mentalizzazione calorosa. Una comprensione dell’altro a cui segue una vicinanza. Quello su cui vorrei riflettere sono le diverse implicazioni di questo salto, il perché lo si fa, il perché non lo si fa, se è davvero sempre bene farlo o se forse dovremmo approdare a un uso etico della mentalizzazione e dell’empatia. La retorica pervasiva della comprensione compulsiva non ci è davvero di grande aiuto e scotomizza alcune questioni complicate, quando per esempio le logiche emotive in gioco sono tante e l’un contro l’altra armate.
Perché prendiamo due esempi. Un esempio può essere una storia privata: una nostra coppia di amici si rompe perché lui tradisce la compagna.
Un altro esempio può essere una storia collettiva: c’è un terremoto, muoiono alcune persone, i soccorsi non arrivano immediatamente.

Nella storia privata possiamo cimentarci con diverse vicende emotive: lei che si sente tradita, il tradimento che evoca il suo scarso diritto all’amor proprio di cui ha sempre patito, un senso di ferita che la porta a comportamenti aggressivi. Lui che invece, tradisce e rompe, avendo patito una routine che non lo rendeva più felice, che si dichiara onesto e quindi onestamente si allontana, che non vuole stare insieme per una mera sudditanza alla sofferenza ricattatoria della partner. Poi potrebbero esserci altri attori: per esempio l’amante di lui, o i genitori di lei. Ognuno di noi avrà però una corsia preferenziale per empatizzare con un singolo attore o percorso logico emotivo, perché ricorda la nostra strada percorsa, o perché gli è complementare, mentre metterà sistematiche barriere emotive alla comprensione delle altre logiche emotive. Spesso c’è coincidenza di genere su questa cosa, ma non così frequentemente: per fare un esempio, molte donne hanno sperimentato il peculiare caso dell’amica che ha una vita relazionale piuttosto angusta, e che però – non proprio casualmente – solidarizza sempre con le aggressione dei compagni e dei mariti, attaccando l’amica.

Questa cosa si assiste anche nei giorni successivi a eventi collettivi condivisi come i terremoto. Per molti il primo pensiero è per le vittime. Per altri può essere stato se stessi. Per terzi, siccome il pensiero delle vittime o per se stessi è troppo penoso e intollerabile scatta l’arringa politica su temi limitrofi tipo il tempo di arrivo dei soccorsi, o altri più bislacchi – come deve essere stato per la persona in evidente stato di difficoltà che si è messo a farneticare di bellezza nel crollo di un chiesa – non si dovrà necessariamente empatizzare con tutti, ma quanto meno arrivare a mentalizzare le diverse successioni emotive diverse dalla nostra. In entrambi i casi – in tutti i casi, io penso che una buona mentalizzazione degli oggetti in campo sia una cosa utile, mentre pretendere che tutti empatizzino con tutto sia un’operazione ideologica e non necessariamente produttiva o benefica.

Il fatto è che dobbiamo capire bene l’uso che facciamo di quel passaggio emotivo successivo alla mentalizzazione. E anche, il passaggio emotivo che fanno alcuni che, a suon di dichiarazioni sentimentalmente forti quanto precipitose, dichiarano di essersi tuffati nell’essere con, ma di fatto essi sono saltati alla cieca – nell’affetto positivo in una modalità che è simile al salto nell’affetto negativo. Si appoggia e si sanziona senza sostare nella lunga e incerta fase della comprensione degli eventi emotivi, quasi ad avere paura che ci si scotti. Questo salto della mentalizzazione verso l’appoggio o la sanzione (brava, t’ha messo le corna! Stai male ci credo oppure Stronza te la sei voluta quello non è mica un santo) deve essere infatti valutato da due punti di vista. Il primo volendo dell’altro, di cui si sceglie solo una parte psichica e la si fa totalità dimenticandoci di tutto il resto (è davvero utile compiangere ad libitum una donna tradita? Non sarà il caso di ricordarle quanto è brava a fare certe cose, sul lavoro per esempio? O la sua capacità di riflettere su dinamiche relazionali a cui per qualche motivo ha abdicato ?) Il secondo riguarda se stessi, e corrisponde alla domanda: a cosa mi serve scegliere questo segmento di storia ed eleggerlo a soggetto emotivo con cui empatizzare, quale parte di me tranquillizza e glorifica, o – perdona (ah quella volta in cui io sono stata tradita perché mi ero ritratta, divenuta assente, avevo abbandonato il campo).
Sorvegliare i riflessi pavloviani delle nostre empatie ed antipatie ci rende persone migliori.

(Postilla
Non credo che si debba empatizzare sempre e comunque. Non credo che sia possibile, ed è una sorta di ideologia distorta che fa finta di prendere in prestito dalla psicologia una visione del mondo che la psicologia non ha. Credo che però bisogna imparare a mentalizzare, e che si possa certo lavorare per migliorare la propria capacità di mentalizzare. In una minima parte questa cosa la da la frequentazione di prodotti culturali: film, libri, romanzi – ossia mappature di itinerari mentali e di storie individuali, vocabolari di lessico diverso. E questo può essere una cosa buona. Poi però tenderei a pensare che la mentalizzazione possa essere davvero migliorata solo da un buon lavoro relazionale e collettivo. Lo dico perché mi si chiede, questa roba si insegna? No ecco, si insegna poco, perché è un processo della vita del pensiero, non della sua mera applicazione. Però penso che una cosa buona possano essere per esempio nelle scuole – in un mondo fantastico del desiderio – dei gruppi di studenti che scambiandosi esperienze lavorino sulla propria capacità di mentalizzare )

 

Piazza Remuria 3

 

I poeti non abitano le più belle piazze del paese, quelle con le pietre sul selciato, i comuni le basiliche e i porticati, le piazze antiche ed egocentriche, piene di ragazze e di strilli e di aperitivi
E di sole per carità – anche il sole non è cosa da poeti.

I poeti pure se cedono a civetterie femminee, baschi francesi e occhi lunghi e turchesi, pure se fumano pipe con il naso in sintonia con la stagione, hanno ventri corpulenti, mogli che sorridono gentili, un gatto ostinato e una cucina borghese. I poeti hanno il frullatore, e il lavabo con due vasche per sciacquare i piatti, e un tavolino sotto la finestra, dove prendere il caffè macchiato.
I poeti sporcano, lasciano le briciole, e si pentono per via degli uccelli fuori della finestra.

A queste cose penso, quando capito in questa piazza decorosa e polverosa, da una parte una scuola elementare, dall’altra una villa di signori, in mezzo un parco in disarmo (lo scivolo, un’altalena che cigola delle panchine un po’ rotte), cipressi e querce di novecentesca introversione, pochi bambini che strillano e una piccola fila di condomini, di signorile ambizione e modesto senso estetico, condomini gentili e conformisti,  per quanto umbratili e ritratti.

In uno di questi – abitava il migliore.

Un primo post confuso e junghiano sul sogno.

(Premessa. E’ da moltissimo tempo che desidero scrivere qualcosa sui sogni, per la verità da parecchio giro intorno a un libro sullo stile dei sogni, in relazione alla vita e alla personalità dei sognatori. Mi affascinano certe ricorrenze sullo stile onirico delle persone. Mi piacerebbe pure fare un lavoro sul mio modo di usare i sogni in terapia. Considerate allora questo, probabilmente disorganizzatissimo post, una serie di appunti preliminari a questo lavoro. Molto preliminari. )

La neurofisiologia del sogno e la sua funzione nell’economia psichica, sono ancora un argomento controverso in ambito neuroscientifico, ritrovandosi al centro di un dibattito che alla fine però poco intacca la prassi clinica di chi li utilizza. In ogni caso, tra le tante tesi –semplificando molto – quella che a me affascina di più è quella che considera la produzione onirica come una sorta di materiale di scarto dell’attività cerebrale, che potrebbe avere anche secondo alcuni, la funzione di mantenere un’economia gestibile dei sistemi di memoria e di apprendimento. E’ una tesi che mi piace, anche se è stata formulata da chi sperava di poterla usare per attaccare le modalità di lavoro dei clinici psicodinamici, quando invece può risultare quanto mai calzante. Lo scarto dell’attività cerebrale infatti potrebbe essere un oggetto assai prezioso per capire cosa si mangia il cervello durante il giorno, le sostanze emotive che compongono il suo sistema circolatorio, e da tutti gli scarti noi infatti ricostruiamo abitudini culture e identità. E un processo logico che raccontava bene per esempio in un racconto Marguerite Duras –in giornate intere fra gli alberi – dove una signora che frugava nella spazzatura ricostruiva le vite delle famiglie che l’avevano buttata – se c’erano carte di giocattoli indovinava dei bambini, e se trovava le bucce di molta frutta riconosceva il sintomo di un pranzo.

La stessa logica inversa, che usa gli scarti per la ricostruzione di contenuti positivi, la usiamo anche noi, quando facciamo come la magica suora di Foto di gruppo con signora – secondo esempio letterario, questa volta Heinrich Boll – che in base agli escrementi delle persone ne stabiliva moltissime cose: cosa avevano ingerito e il loro stato di salute, se una donna era incinta e se uno aveva un tumore. E quando noi portiamo le nostre cose a fare le analisi, ci avvantaggiamo della stessa logica.

Noi clinici dunque, lavoriamo con il sogno, considerandolo testimonianza del processo digestivo della vita psichica. In questo senso quanto il sogno ricorrente quanto l’incubo che si interrompe per un risveglio pieno di spavento, li possiamo leggere come la testimonianza di qualcosa di emotivamente difficile da digerire, da portare a termine, da metabolizzare. Qualcosa che si continua ad avere bisogno di assumere, che si ripropone nell’esperienza psichica, che è alla base di una dimensione problematica, e che non riesce a trovare elaborazioni successive.

Un altro modo empiricamente utile, per considerare il sogno, è leggerlo come il prodotto ultimo di un regista plenipotenziario. Un regista che ha risorse infinite e che non ha limiti di sorta alla scelta di sedi, oggetti, operazioni, attori e rappresentazioni possibili. Il nostro regista interno può non solo attingere a tutta l’esperienza mnestica di cui dispone il sognatore, ma in più alle bisogna si inventa pure oggetti che non esistono, e situazioni che violano bellamente le logiche del piano di coscienza. Questo suo costante pieno potere, deve farci diffidare da letture pedisseque e casuali dei nostri sogni – “ho sognato pino perché l’ho visto ieri” – perché avete presente quante migliaia di cose e persone avete visto ieri?
Se Pino è stato scelto dal regista plenipotenziario però, non è per la sua intrinseca importanza, ma per la sua capacità diciamo simbolica e allegorica. Pino è capace di incarnare qualcosa di importante che appartiene al sognatore, qualcosa di suo che per l’appunto deve essere affrontato e digerito – per questo, gli psicoterapeuti di orientamento dinamico usano tanto volentieri i sogni in terapia, perché quando il sogno viene portato in stanza, si lavora in due in quella digestione dell’esperienza emotiva e in qualche modo si aggiungono ingredienti. Ne deriverà una trasformazione dell’esperienza psichica. Quando un sogno rimane ricorrente in terapia, spesso e volentieri è segno che la decodifica ha mancato il bersaglio, e allora il problema si ripropone invariato. Quando si riesce a entrare in un circuito virtuoso con il sogno, l’esperienza onirica ha delle modificazioni – questo è molto bello e interessante.

Ora la decodifica simbolica del sogno varia teoricamente da scuola a scuola, ma io ho notato che con clinici di valore, che stimo – c’è spesso in ultima istanza una forte convergenza interpretativa. Incide il fatto che, il buon clinico ha un orecchio speciale per i modi di parlare degli oggetti del sogno che il paziente è sollecitato a esprimere, le associazioni, a capire quale risuona di una verità emotiva. Constato che c’è una sorta di primo livello interpretativo che rende le letture diverse da scuola a scuola, e un secondo livello in cui ci si avvicina: un po’ come una piccola sezione del Talmud, di cui parlava sempre volentieri Tedeschi, mio primo maestro – dove un piccolo ebreo andava da un collegio di rabbini a raccontare loro un sogno, e quelli rispondevano molte letture diverse, ma tutte secondo la Legge, erano vere. In ogni caso le letture sono indirizzate in un modo o nell’altro, e spesso i sognatori in terapia possono orientare la loro produzione onirica al linguaggio di scuola dell’analista – così come il mio modo di lavorare con i sogni è prevalentemente junghiano.
Nel mio modo di lavorare per esempio convivono letture degli oggetti simbolici legati all’esperienza del soggetto, con aspetti del sogno che appartengono alla storia simbolica degli oggetti rappresentati. Per questo una consistente cultura umanistica, antropologica, ma anche sociologica e massmediatica sono appannaggio importantissimo per capire i sogni in particolare alla maniera junghiana, perché da una parte c’è l’esperienza del sognatore, ma dall’altra il mondo sociale e valoriale da cui prende gli oggetti. Mentre per i canoni freudiani ortodossi, valgono in prima istanza le reazioni soggettive e le simbologie sessuali, nel contesto junghiano sognare per dire un tatuaggio, o una capra, vuol dire sognare anche il mondo culturale di cui sono simbolo, la tradizione in cui sono iscritti, le canzoni le poesie e i proverbi ritenere che nel mondo interno del soggetto quel vocabolario collettivo sia usato per parlare. Ma certo si possono anche sognare persone, che si sono incontrate nella vita, e che il regista del sogno decide essere la rappresentazione più adatta per interpretare un certo stato d’animo.

La questione è che il sognatore è uno che a fronte di questa illimitata disponibilità di mezzi rappresentativi però, ha la missione di rappresentare non il mondo esterno, ma il mondo interno. Il regista del sogno cioè è uno che lavora in termini allegorici utilizzando quello che l’esperienza cognitiva gli porta – non di rado attingendo a ambiti teoricamente disprezzati o non particolarmente valorizzati dal sognatore . In questo senso io sono affascinata dallo stile dei sognatori, e dalle loro evoluzioni. Io per esempio ho un sognare generalmente sotto tono, dove prevalgono sogni domestici di madre di famiglia – faccio la spesa, raccolgo cipolle, cose così e dove se proprio devo mettere un guizzo creativo, metto qualche attore della commedia americana in mezzo, in genere di tradizione ebraica. Ma ho avuto un paziente artista che faceva dei sogni di una bellezza incredibile, pezzi di Dalì fatti e finiti, e una indomita paziente molto graziosa e piacevole che ha per tutto il primo arco di terapia sognato efferati polizieschi di stampo americano, film di gangster. Questa curiosa tendenza del sogno potrebbe essere spiegata con il concetto di funzione compensatoria dell’attività onirica, che secondo Jung farebbe si che il sogno tenda sempre a valorizzare aspetti scotomizzati, surclassati e messi al latere dai principi di coscienza, allo scopo di farli reintegrare nella vita cosciente. La compensazione junghiana, si capisce meglio considerando l’idea di personalità di Jung, per cui a fronte di quattro funzioni fondamentali: intuizione/sensazione, pensiero/sentimento noi tendiamo ad avere una funzione più spiccata nel nostro modo di conoscere il mondo, che è compensata da quella opposta nell’esperienza inconscia.   Nel mio caso, che sul piano di coscienza sono un tipo molto intellettuale, portato alla speculazione e ai voli pindarici, la funzione compensatoria porta a mettere l’accento su questioni pù percettive, materiali, vitali dell’esperienza.
Fai la spesa, sta a pensà ai romanzi!

Se comunque si comincia a capire bene la lettura del sogno come attività inconscia che ha il compito di fotografare lo stato presente della realtà psichica di un sognatore, ci si può rispondere sulla loro eventuale capacità predittiva. Non è che naturalmente il sogno sia in grado di anticipare eventi di cui sul piano della coscienza si hanno poche informazioni, o comportamenti di altre persone o che. Il sogno non è un oggetto magico, e questo suo uso non riguarda l’esoterismo: ma il sogno dice spesso senza finzioni il proprio stato emotivo, le cose di cui ci siamo accorti e di cui non credevamo di esserci accorti. Un rapporto allenato con il proprio inconscio, raddrizza la barra del timone nella propria esperienza quotidiana, e io credo sia il più grande regalo che lascia una buona analisi una volta compiuta. Si ha a disposizione cioè una risorsa aggiuntiva, per capire come mai in un certo periodo siamo dispiaciuto, per capire cosa ci dispiace esattamente, nel nostro mondo intimo, di un certo insieme di circostanze.