Intorno all’ADHD

 

A qualsiasi genitore oggi, capita con regolarità di avere a che fare nella classe del proprio figlio con un bambino che viene definito come problematico, anche se l’area problematica sembra di difficile identificazione. Il bambino problematico – o la bambina – di cui parliamo non va bene in molte materie, o in alcune, e questo è il meno. Ma non sta mai fermo, spesso non sta mai zitto: interrompe sempre, è terribilmente irrequieto, vuole uscire in continuazione – oppure propone attività che non ci entrano niente, si alza spesso, disturba i compagni, è agitato. Spesso fa fatica a fare amicizie oppure no, non ne ha alcuna, ma questo dai genitori è registrato poco. Si accorgono invece delle volte in cui è aggressivo – può accadere che aggredisca un compagno, o che sputi a qualcuno, o che scansi rumorosamente un banco. In certe occasioni, quando sono al massimo dell’agitazione, questi bambini difficili sembrano incontenibili: non reggono la parola né l’abbraccio, e quindi può accadere che una maestra ci provi in tutti i modi e non riesca a entrare in relazione.

E’ una situazione che, noto sempre più spesso, elicita reazioni forti tra i genitori e non solo, per quella che mi pare una strana mescolanza di ideologie e di mondi che si sono succeduti troppo rapidamente. Non è affatto lontana da noi, l’epoca in cui si facevano molti figli, l’infanzia non era preziosa, non era oggetto di interesse e neanche di scienza. I nostri nonni hanno avuto genitori che lavoravano bambini, e che bambine erano spose e madri. I nostri nonni non hanno avuto un pediatra ma solo un medico, e solo i più colti dei nostri genitori, e probabilmente i più ricchi, possono avere potuto godere delle attenzioni di uno psicoterapeuta infantile. Tutti, genitori, nonni e bisnonni, sono stati invece – nella migliore delle ipotesi sotto l’occhio attento di un ordine femminile di madri, di zie, e dunque di donne: un sapere pragmatico, non formalizzato, non trascritto, non valorizzato, non validato: un sapere da cucina e di terza classe, abituato alla natura cattiva per cui, vita morte vaiolo, dolore e schizofrenia erano parte ineludibile del panorama.

Di contro oggi, ce ne stiamo – pochi e vecchi – seduti sul cocuzzolo di un consistente progresso culturale scientifico e politico in senso lato (non si sa questo ancora per quanto). La scienza ha cambiato velocemente il nostro mondo e il nostro modo di pensarci. La nostra vita si è dimostrata incredibile! Migliorabile con la forza dell’intenzione e con l’ausilio della del sapere. Rispetto ai nostri nonni, non solo diventiamo adulti molto più tardi ma scantoniamo la morte e la vecchiaia con molto più successo: noi possiamo molto ma molto di più sulla nostra vita di quanto sia mai stato credibile. Abbiamo imparato a mettere in scacco il potere dionisiaco della natura con mille strategie: i vaccini per esempio, e l’igiene quotidiana per farne un altro, e l’attenzione collettiva all’alimentazione (gli ingredienti sui prodotti, le date di scadenza, i controlli dei NAS) e la medicina naturalmente massimo esempio. E ultima ma dirimente, la psicologia – che al sapere confuso delle madri non alfabetizzate ha sostituito la costruzione di un mondo teorico e altamente specializzato di uomini e di donne.
Con questo armamentario e queste aspettative facciamo pochi figli, e questi pochi figli diventano piccole icone da idolatrare e su cui investire il nostro desiderio di immortale perfezione: le atrocità che nevroticamente nei secoli scorsi erano perdonate a Dio e al Destino – oggi guadagnano il tragico e l’intollerabile: non facciamo mica dieci figli, manco sei: ne facciamo uno o due. Per noi hanno un nuovo valore, ne va della nostra vita.
Anzi, non solo devono vivere, ma devono vivere al meglio, al meglio delle loro prestazioni emotive e intellettuali. Devono essere non solo la continuazione del nostro io, ma anche del nostro collettivo. Sono i nostri valori che cammineranno dopo la nostra morte.

Un bambino con grandi difficoltà che dunque inciampa nella sua edificazione e sembra far di inciampo ad altri bambini, mi pare che spesso procuri questa successione di reazioni: un primo senso di enpasse nel gruppo di adulti che si sentono messi in scacco dall’infanzia che appare difettosa, la così preziosa infanzia, e la reazione a questo stato emotivo che non è quella di rivolgersi alle consapevolezze degli strumenti culturali e condivisi del momento attuale di tenerle in mente, ma quella di fuggire nel mondo dei padri e dei nonni, quando il bambino in difficoltà era nel panorama del naturale e quindi.

  1. Ai tempi dei nostri genitori le diagnosi non c’erano mica e si campava tutti lo stesso che schifo ora tutta questa importanza a queste sciocchezze.
  2. due schiaffi ci avrebbe dato mio padre e passava la paura, si vede che i genitori di questo bambino non sono abbastanza severi
    Ah questo bambino non è capito non è amato bisogna essere carini tanto con questi bambini
  3. E però evidentemente le maestre non ci sanno fare.
  4. E però evidentemente i genitori non se ne occupano come dovrebbero
  5. E però scusate capisco ci avrà anche i problemi ok ma perché deve avere una corsia speciale.
  6. (eventuale di solito madre casalinga) eh ben pensano alla carriera i genitori la madre pensa solo a lavorare.

 

Invece molto spesso, nessuna di queste affermazioni è neanche blandamente sufficiente o peggio ancora semplicemente congrua, con questo ordine di problematiche. Di solito questi bambini difficili in classe hanno una diagnosi specifica ADHD, il disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività – che erroneamente viene associata alla normale vivacità infantile, ma che invece è qualcosa di profondamente diverso. Si tratta di un disturbo – che ha una sua base neurologica – che combacia con una difficoltà a mantenere la concentrazione su un qualsiasi compito, una continuità – e questo non disturba solo le possibilità di apprendimento proprio e altrui, ma anche le possibilità di socializzazione – perché i bambini da un certo punto in poi hanno attività collettive estremamente sofisticate per portare avanti le quali occorre una capacità di concentrazione che in loro è continuamente squadernata, disorganizzata – per cui, alla fine non riescono a fare amicizia, e sono isolati rispetto al gruppo dei compagni. La diagnosi è recente, perché in realtà è molto recente tutto il mondo della psicologia infantile. Basti considerare che i primi criteri differenziali delle diagnosi psicologiche e psichiatriche per i disturbi dell’età evolutiva sono arrivati solo alla quarta edizione del DSM, quella del 1984 – in medicina e psicologia cioè l’altro ieri.
Prima – con risultati piuttosto gravi e fuorvianti – si usava anche per i minori lo spettro diagnostico della psichiatria degli adulti – e si potevano compiere molti gravi errori.

Un esempio di questo cambiamento che ci riguarda in modo particolare è la diagnosi di depressione. In età infantile infatti la sintomatologia depressiva degli adulti – quella staticità, il silenzio, il trascinarsi, non svolgere attività, la malinconia permanente, sono sintomi che rinviano più a questioni di ordine neuropsichiatrico che alla depressione, la depressione in età infantile ha invece spesso e volentieri un contenuto che sfuma nell’ADHD perché l’essere esagitati, aggressivi, irrequieti è il modo di scaricare vissuti dolorosi e negativi per i piccoli altrimenti ingestibili. In effetti secondo gli psicoterapeuti infantili di orientamento psicodinamico, il disturbo da deficit e attenzione e iperattività è una forma depressiva: come per gli adulti infatti ci sono contenuti penosi che disturbano e una forma di aggressività verso oggetti simbolici. Solo che queste dimensioni problematiche non possono essere fisiologicamente mantenute intellettualmente ed emotivamente e devono essere in qualche scaricate.

Va detto che alle modalità con cui si presenta il disturbo, e alle diverse intensità contribuiscono gli effetti di diverse concause. La prima, come bisogna considerare per molte psicopatologie – è di ordine biologico: a disturbi gravi spesso corrisponde una predisposizione neurologica che indica alla psiche la strada maestra del sintomo nel caso specifico di quel bambino o individuo. Il corpo dice quale sarà il suo modo di esprimere un certo malessere o una certa reazione a disagi causati dall’ambiente. (Questa questione della predisposizione biologica andrebbe sempre tenuta a mente in questo ambito: spiega perché a parità di storie di vita ugualmente dolorose e difficili una persona possa avere bisogno di un intervento strutturato di equipe, mentre a un’altra sia sufficiente una semplice psicoterapia). Questo vale ancora di più per forme del disturbo particolarmente gravi e che creano un disagio importante nel bambino – e sono forme che secondo me, possono in caso giustificare l’introduzione del tanto detestato psicofarmaco.

Gli psicofarmaci in età infantile sono un tema controverso: perché si teme – non a torto – che possano interferire sullo sviluppo del sistema nervoso, e rallentare le capacità intellettive dei bambini, e che siano anche una sorta di scorciatoia per evitare di confrontarsi con la dimensione emotiva di un problema, e della lunga strada che presuppone la sua risoluzione. Vanno perciò prescritti e presi in considerazione con cautela. Ma quando certi disturbi si pongono in maniera molto rigida, con sintomi che coprono le risorse, garantendo uno stato di infelicità e frustrazione costanti – l’introduzione di un farmaco, a un dosaggio sorvegliato e fornito da uno specialista, è una cosa da considerare: perché l’infanzia e l’adolescenza sono un terreno da lasciar libero, sono il tesoro della vita futura, il posto dove tutti noi torniamo da adulti, e bisogna mettersi una mano sulla coscienza prima di farle confiscare da una patologia che guarisce più lentamente della crescita del corpo.

Ma certo ci sono altri fattori, che riguardano le storie individuali. E quindi sono diversificati per quanti romanzi ci possono essere nelle vite dei singoli. Trasversalmente mi sembra comunque che l’ADHD corrisponda alla situazione di un bambino che combatte una doppia battaglia: da una parte ha il problema di fronteggiare elementi psichici disturbanti che vengono dall’inconscio e dal passato, pensieri dolorosi che hanno la capacità di frantumare la sua esperienza quotidiana e che riguarderanno la storia della sua famiglia, i suoi genitori, le mancanze a cui è stato esposto, le perdite di sintonizzazione troppo frequenti. La classificazione dell’esperienze patogene in questa sede ci è impossibile perché infinita. Ma dall’altra ha il problema di un mancata capacità contenitiva. Un’assenza di contenitore esterno che ha anticipato la difficoltà a costruire un contenitore interno. Spesso magari i genitori di questi bambini, non per cattiveria, non hanno saputo fronteggiare il pianto quando questi erano piccolissimi, contenere le richieste – e quando sono stati un pochino più grandi non sono riusciti, e ora cronicamente non riescono a fornire un argine. Non riescono a dire stai fermo! E a essere obbediti, come prima non riuscivano a dire vieni in braccio a me che risolviamo questo tuo pianto.

Mi pare che spesso manchi nei genitori di questi bimbi, la forza della reverie. Bion chiamava con Reverie la capacità di un genitore di contenere le forze distruttive che prorompono da un lattante e da un bambino molto piccolo che piange, e di trasformarle in oggetti gestibili. Piangi e tu bambino non sai perché piangi ma vieni in braccio a me e insieme trasformiamo questa cosa potentissima che ti fa essere rosso di rabbia in un oggetto riconoscibile: hai fame. Hai freddo. Ti manco. L’infinito mondo preverbale che ti vive e ti sovrasta, in braccio a me diventa una cosa gestibile definita, a cui diamo assieme nome e risposta. Fame, Freddo, Solitudine. Latte, coperta, abbraccio.

Tenere a mente tutte queste cose però deve fare stare in guardia prima di esprimere giudizi affrettati sulla condotta di genitori che hanno un bambino complicato. La storia delle psicopatologie è intessuta per una percentuale consistente ma minoritaria di cattivi genitori, o di genitori disinteressati o molto distratti, ma per grande parte di genitori imperfetti che a loro volta sono titolari di un carico emotivo di difficoltà che non sono riusciti a dipanare, e che ora si mettono in gioco nella loro relazione più importante. Per altro, con queste aspettative altissime che abbiamo sulla qualità di vita nostra e dei bambini nostri – giuste o sbagliate che siano – in ben pochi siamo davvero immuni dalla constatazione delle conseguenze che una sofferenza strutturale procura nella progenie, e quindi prima di lanciar strali, calma e gesso. Quando un genitore non riesce a sintonizzarsi con i bisogni di un piccolo, e non riesce a contenere e a trasformare i famosi elementi beta di bion (quei dolori preverbali soverchianti) in elementi alfa (i nomi che riusciamo a dare calmando i bambini) questo succede perché nessuno è stato capace di farlo con loro, che pure loro se la sono cavata alla bell’e meglio. In certi casi, il pianto disperato di un lattante può aver evocato (senza che sia davvero ricordato) il proprio pianto, un proprio dolore non curato, un essere stato da parte – e il genitore si è trovato davanti al bivio psichico tra il riscrivere sul figlio la propria storia, o il cambiarla e no – magari, non l’ha cambiata.

Quando poi questo figlio cresce, ed è il caso in cui questo problema lo definisce più di altre cose, il genitore può vivere diverse condizioni che a prima vista possono non sembrare molto logiche. Per esempio può faticare moltissimo a prendere atto della dimensione problematica del piccolo, perché lo addolora renderersi conto che i suoi migliori tentativi di cura, in buona fede non lo hanno reso sicuro. Oppure, al contrario può fare molta fatica a toccare la colpa di quel presentimento, di quel sapere che stava facendo male ma no non voleva o riusciva a correggersi. E ora che ci prova il figlio o la figlia sono dannatamente resistenti, oppositivi, vanificano qualsiasi intervento per cui, il vissuto dei genitori in questione potrebbe essere di grandissimo disagio e frustrazione, di fuga, di esasperazione. Possono avere bisogno di molto tempo (un anno, due anni, uno o due cambi di scuola al piccolo) prima di prendere atto di un problema importante da risolvere in altro modo. E bisogna anche tener conto del fatto che purtroppo le istituzioni sono svuotate della possibilità di un intervento tempestivo per cui, una volta che i genitori si dovessero decidere finalmente a portare un figlio a ottenere un percorso diagnostico che potrebbe far mettere nero su bianco il bisogno per esempio, di una figura di sostegno a scuola, per l’assenza cronica di personale, questo iter potrebbe durare moltissimo tempo.
Chi ci sta intorno dunque, dovrebbe cercare di essere molto paziente – e aiutare con grazia, qualora ci sia l’intimità necessaria – a imboccare la strada di cura e di protezione più opportuna, tenendo conto del fatto che, questo ordine di problemi come altri di ordine psicologico e psichiatrico non si risolvono con alcuni lampi di buon senso, con semplici rotazioni di approccio, con un aumento di sanzione o di gentilezza o di cura. Un bambino è già un risultato di azioni -biologiche e storiche. Non si trasforma con un sorriso. Né sceglie con tanta agilità cosa fare e cosa non, manco quelli che stanno relativamente bene – e forse neanche noi. Assumere la consapevolezza di quanto siamo tutti vincolati dalla nostra storia, dalle abitudini caratteriali che performano la nostra personalità e la guidano, può aiutare a essere più comprensivi con le rigidità degli altri.

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3 pensieri su “Intorno all’ADHD

  1. L’ha ribloggato su MAPPE nelle POLITICHE SOCIALI e nei SERVIZIe ha commentato:
    Di solito questi bambini difficili in classe hanno una diagnosi specifica ADHD (beizauberei.wordpress.com), il disturbo da deficit dell’attenzione ed iperattività – che erroneamente viene associata alla normale vivacità infantile, ma che invece è qualcosa di profondamente diverso. Si tratta di un disturbo – che ha una sua base neurologica – che combacia con una difficoltà a mantenere la concentrazione su un qualsiasi compito, una continuità – e questo non disturba solo le possibilità di apprendimento Intorno all’ADHD, dal blog proprio e altrui, ma anche le possibilità di socializzazione – perché i bambini da un certo punto in poi hanno attività collettive estremamente sofisticate per portare avanti le quali occorre una capacità di concentrazione che in loro è continuamente squadernata, disorganizzata – per cui, alla fine non riescono a fare amicizia, e sono isolati rispetto al gruppo dei compagni.

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