The Jung Pope

 

Ho finito ora di vedere The Young Pope, di Sorrentino. Ne voglio parlare, perché mi è piaciuto molto, anzi, non so quanto tempo passerà prima che incontri di nuovo qualcosa che mi piaccia altrettanto, e ne voglio scrivere perché è uno di quei lavori che mi metto in un mio personale arsenale professionale, in una mia immaginaria biblioteca dove oggetti di qualità estetica hanno una loro spendibilità nel mondo della clinica.
Preliminarmente voglio dire – non mi occupo né di cinema né di televisione e questo post televisivo lo è solo pretestualmente, non potrò infatti parlare dei meriti di fotografia, e di montaggio e di regia di questa serie, della capacità estetica e iconografica di Sorrentino nell’inventare mondi – qualcuno spero però che scriverà di queste cose, qualcuno anzi sicuramente l’avrà già fatto, e qualcuno si è forse addirittura stizzito, perché l’estetica qui è talmente esplosiva che schiaccia, sembra fare storia a se, è talmente potente che viene da dire, ah il compiacimento, ah la trina inutile. Sarebbe un giudizio comunque ingeneroso – perché l’estetica di questa serie è la fenomenologia di un altrettanto densa sceneggiatura, che ha a sua volta una profonda chiave metafisica e concettuale, in sfacciata controtendenza rispetto al modo contemporaneo di pensare al concetto di fede, ai problemi che implica e a tutta un altro ordine di significati che mi vengono in mente, e che cercherò di argomentare qui.

Lenny Belardo è un Papa insolito e, forse casualmente, agli antipodi non solo del Papa attuale ma dell’idea che generalmente abbiamo di papato. E’ giovane, bello, distante, antipatico, impenetrabile, e con un’idea di diocesi e di fede attualmente in disarmo: la fede come frustrazione, la fede come stato psichico e posizione esistenziale di totale dedizione, la fede come sottomissione premoderna a un paterno totalizzante. Il divino come incarnazione di un imponderabile, di un capriccio a cui sottomettersi. All’inizio della serie, il Papa giovane oscilla tra godimento nell’identificazione con il divino, e fustigazione nel suo esserne servitore e testimone. Non si fa vedere ai fedeli, quando si esprime si arrocca su posizioni molto rigide, che si dipaneranno in tutte le puntate. Ostilità agli omosessuali, Scomunica in caso di aborto – e una generale propensione spontanea alla frustrazione delle aspettative altrui. Un Papa antico e cattivo. Che chiede una perfezione di se, per la quale l’umano non è sufficiente. Intransigente come tutti i giovani, tetragono come tutti gli infelici, Pio Tredicesimo semina morte al suo passaggio. La chiesa si svuota, i fedeli si allontanano, pochissimi resistono alle prove che chiede, e muoiono – muore il giovane seminarista che voleva diventare prete, muore il suo amico fraterno quando torna in Sudamerica, attraversa una terribile devastazione – il meraviglioso Padre Gutierrez, che però vincerà. Chi lo guarda però sa, che c’è qualcosa di vero e sacro, in questa sua dannazione all’intransigenza –   questo Papa è un Santo, qualche volta fa veri miracoli. Anzi,  la vertigine del Sacro va incontro nel dipanarsi delle puntate a una metamorfosi narrativa: the Young Pope, è il romanzo di formazione di un uomo per un verso e della fede per un altro.

Credo che per capire bene dovremmo scorporare due letture possibili.
Una prima lettura, è più semplicemente psicologica. Lenny è stato abbandonato da bambino, ed è cresciuto in un orfanotrofio, sotto le valide cure di Suor Mary – meravigliosa madre vicaria, ora sua segretaria particolare. Non si da pace, di questo abbandono primario, che lo tormenta ossessivamente, e che sembra essere la matrice originaria della sua esistenza: il padre della carne si è ritratto, negato, l’ha abbandonato – Dio viene costruito a sua immagine e somiglianza.  Il padre  vissuto come assente, e quindi straordinariamente potente e platealmente persecutorio,  come tutti gli oggetti importanti ed emotivamente assenti è mortale per Lenny, mentre la perdita della madre lo  ha reso certo infelice e cattivo, ma Suor Mary è stata un valido oggetto sostitutivo che l’ha protetto dal crollo psicotico. Per questo padre abbandonante invece non ci sono sostituzioni salvo un Deus Absconditus terribile quanto ritratto, Lucreziano, perverso – le madri saranno colpite solo nel loro desiderio di non essere madri.

In questa lettura psicologica, la storia di Pio Tredicesimo è il romanzo di formazione di una adolescenza protratta, e ibernata al sacrificio a Dio, al maschile, in un certo senso alla carriera. Lenny ha un fugace contatto con il femminile, che continuerà a coltivare in lettere segrete che non spedirà mai, ma si arrampica nella angosciosa carriera del maschile dimezzato, nel parossismo dell’incompletezza psichica, efficace, inappuntabile, incorruttibile, fuori dalla relazione. Papa nel tempo di un lampo – ma un Papa gravemente nevrotico.
La nevrosi della sizigia assente, lo porta a far ammalare la chiesa tutta, e i devoti tutti. Lo porta a chiedere l’iniquo nel tentativo estremo di compiacere un oggetto malato interno, lo porta anche in un certo senso a disconoscere il suo talento innato per essere in sintonia con la sua bussola etica.
Nell’arco della serie però, piano piano si confronta con il suo desiderio di avere contatto con i genitori perduti, ed esplora una pietas e una misericordia che gli erano sconosciuti. Questo passaggio non viene benissimo alla regia, forse è il punto debole – e risulta a chi lo vede meccanico, non ben articolato – forse ci voleva semplicemente un paio di puntate in più, perché non sono le idee a essere sbagliate, ma il tempo narrativo contratto. Una serie di eventi costellano l’emergere della misericordia, del femminile interno, ed è molto bello e psicologicamente congruo che siano messi in relazione con il suo cambiamento: Pio Tredicesimo che è sedotto dalla giovane mistica, attratto, e che fa si che rimanga incinta, e che desidera stare intorno alla sua creatura, Pio Tredicesimo che manda – l’alcolizzato, abusato, omosessuale Gutierrez – incarnazione di una sua parte malata ma eroica, a risolvere lo scandalo scabroso della pedofilia. Il Bildungsroman del Giovane Papa, si compie quando non ha più bisogno di Suor Mary, e sceglie Gutierrez, il prete omosessuale e alcolista come suo segretario particolare. Interiorizza il suo desiderio di crescere il bambino della mistica, esplora il suo desiderio di contattare i suoi genitori, accetta di predicare in pubblico e fare il Papa. Il Papa mostra un contatto con il lato femminile della fede. Adesso voglio che sorridiate tutti!
Nella predica di quell’evento memorabile, a Venezia, città dove fu abbandonato, crede di vedere i suoi genitori – che lo ascoltano egli voltano le spalle. Ne morirà.

Per una seconda lettura – più junghiana – vorrei che si facesse un passo indietro, sulla disamina del concetto di religiosità secondo Jung. Una delle grandi correnti distorcenti, delle critiche superficiali fatte allo junghismo, è quella di vedere nell’epistemologia junghiana una qualche devozione a una religione positiva piuttosto che a un’altra, e nell’approccio di Jung un che di religioso. Non è corretto, non è preciso. Il modo di Jung di parlare di religione è un modo quasi antropologico, e filosofico, oppure squisitamente psicologico, per il quale il contatto con il Divino è una soluzione agibile al di la delle differenze culturali e sociali per contattare l’archetipo de Se, il tao, il principio originario dell’umano. La preghiera è un modo congruo per contattare l’archetipo del Se. Intorno a questo archetipo gli umani non sono ancora né buoni né cattivi, sono cioè anteriori alla loro declinazione storica. Questo modo di intendere la fede, è qualcosa di molto laico, metafisico e mette insieme la tradizione laica della filosofia occidentale, con le tradizioni medioorientali. Non chiede la conversione a questa o a quella religione, ma un non mediato contatto con la trascendenza – che junghianamente sconfina nello psichico.

(Per capire quanto è laica questa cosa, voglio citare un esempio personale.
Molti anni fa, raccontai a Gian Franco Tedeschi mio primo maestro, che mio padre – un ebreo ateo – la mattina prima di andare a fare il suo lavoro di commercialista – si svegliava intorno alle sei, e leggeva libri di astrofisica, o di filosofia della scienza. Io ne ridevo e la trovavo una bizzarria, Tedeschi invece – mi disse gravemente: questo è il suo modo di pregare, non dissimile al tuo quando leggi di psicoanalisi. Come se pregare appunto fosse il modo di toccare la trascendenza passando per le cose vere per se, e poi per il Se. Come se ci fosse una strada che passa per una concentrazione su ciò che ci piace fare.  – Dio è nelle cose che ci piace fare, dice Benedetto tredicesimo all’inizo –  Non so se afferrai del tutto, non so se ho afferrato ancora del tutto, ma mi mise in pace con delle cose, mi ha dato una piattaforma su cui ancora mi muovo con agio.)

Tornando al Giovane Papa, nessuno degli eroi della serie, è ontologicamente cattivo: sono peccatori tutti, ma anche brave persone disgraziate che lottano per la vita e per il bene come possono. Angariati dall’immanenza cercano in malo modo di contattare l’archetipo del Se, con alterne vicende. Lo fa lo splendido Voiello, e lo fanno tutti gli altri in modi maldestri o efficaci. Ma se adottiamo questa lettura junghiana si può decidere che questo è un testo sulla fede, sulla formazione del sentimento religioso, ma si può anche decidere che è un testo sulla costruzione di un uomo, dell’uomo,  della sua completezza, del suo contatto con se stesso, e dell’integrazione dentro di se dei compiti esistenziali che gli sono necessarii per superare la sua adolescenza simbolica, il suo costante stato latente di figlio.

Passeggiata Romana (2013)

Le città sono fatte anche di cicatrici, intorno a cui si arrampica di nuovo il sangue dell’edera, i cui bordi si cicatrizzano nel tempo in paesaggi sopportabili, le ferite diventano allora lineamenti, la possibilità di espressione di un mondo interno, strade su cui si può camminare anche se sono dritte come solo la perfezione di una sciabola può fare, e profonde solo come la violenza di chi sventra può permettere.
La pelle ambrata di Borgo Pio intorno alla via della conciliazione, il dorso ruvido di un rinoceronte, dietro i palazzi di Corso Vittorio. Le chiese ritratte di fronte all’arroganza del rumore.

E poi il rasoio che ha fatto il quadrato intorno all’ombelico di piazza Argentina, e il coltello per la carne che affonda, asfittico, su via del Plebiscito, fino alla strage di medioevo e finestre piccole nelle bestie di pietra del ghetto, che ha fatto l’incauta spianata di Piazza Venezia, una distesa di illogica e disordine intollerabile, di false redenzioni in aiuole ordinate, di palazzi che reggono per l’ambizione e la nostalgia di un potere ceduto.
E poi via dei Fori Imperiali – immensa, persino ingenua nella sua tracotanza.
Pure, tra tutti questi squarci, è la mia preferita.

Non è tanto per il fatto che con quell’approdo smargiasso al Colosseo, è come i vestiti di tulle delle ragazze povere alle feste, fumo negli occhi di una falsa ricchezza, di un impero per un momento credibile, Sentirsi minimi sui marciapiedi larghi, i tappeti rossi per la sfilata militare, le colonne romane su un fianco, e la capitale che si arrampica dall’altra parte. Non è la truffa del potere, la storia lucidata e dilatata fino al collasso.

Ma è che in un preciso punto dove conviene passare alle ore oblique del mattino o del far della sera, subito dopo il terribile Altare della Patria, in mezzo alle colonne alle rovine, ai desideri avanzati, e alle favole degli scrittori, ecco guardando a destra, all’orizzonte, si stagliano due altissime palme, di tipo californiano sembrerebbe: secche arrivano fino al cielo con un ciuffo di foglie alla fine.
E io quelle vecchissime palme gemelle che sono li da quando io nacqui e forse prima, le trovo esotiche, audaci, e dolci. Mi pare che regalino all’improvviso un sogno diverso, che tra loro ci sia il passaggio a un altro mondo, a un altro tempo: di qua il passato che non passa –  di la un futuro impossibile di nuovi deserti, nuovi oceani chi sa.
Palme come colonne d’ercole,.

Viene voglia di piegare il tragitto, rinunciare alla meta della consuetudine, scavalcare transenne e tagliare in mezzo ai ruderi, come se fosse il prato della prima volta. Come certi sconfinamenti dell’infanzia.
Invece si continua, si sorride alle palme californiane, e si asseconda la strada del potere che è diventata vecchia anch’essa, e la si perdona.
Un po’ troppo.
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Una predica

 

 

Mi è stato chiesto da molti, un post su questa triste vicenda di Lavagna – dove un ragazzo si è tolto la vita, dopo che la finanza ha perquisito la casa per trovare delle droghe leggere. La rete si è infiammata, prima di tutto perché il suicidio di un giovane infiamma, ma poi perché ha scoperto che è stata la madre a chiamare le forze dell’ordine. Oggi, è su tutti i giornali l’orazione funebre della signora, che ringrazia le Guardie di Finanza, e chiede ai giovani di prendere in mano la propria vita.

Ho letto molti giudizi su questa vicenda, la rete pullula, la maggior parte dei quali riduttivi e immediati, non pochi – involontariamente – sciocchi. Penso però che, allo stato attuale dell’arte tutti siamo figli, tutti siamo figli di una madre, tutti siamo, a nostra volta madre e padre. Un evento del genere non può che cortocircuitare nostri incadescenti simboli interni, le nostre aspettative tradite da figli e da padri. E siccome la storia di un genitore che si rivolge alle forze dell’ordine è la storia di un genitore che sembra abdicare alla sua funzione genitoriale, e che chiama l’aiuto di terzi, aiuto a cui poi invece segue la morte, ci fa lampeggiare la nostra idea di figlio, di padre, di sostegno e di contenimento, tutta quella storia ci sollecita, ci tira fuori cose, dobbiamo dirle per forza per sopportarle. Specie, se abbiamo figli. Quindi, io davvero capisco il bisogno di reagire e di dire pareri, di condannare e di trovare sentenze commestibili. Un ragazzino che si ammazza è uno scacco matto, una chiamata all’angoscia intollerabile. Uno pensa ai propri figli e scappa subito nella gogna, e anche se pensa ai propri padri – forse gli viene da fare lo stesso.
Io non sono così! Non sono così! Non sono così!

E’ legittimo. In un primo momento persino fisiologico.  Vorrei solo dire però, che questo è rischioso prima di tutto per noi stessi. Se trattiamo così male l’ombra incarnata negli altri è segno che con la nostra non ci vogliamo parlare. L’incapacità di aspettare delle informazioni, o ancora meglio l’incapacità di tollerare il fatto che l’assenza di informazioni deve far sospendere il giudizio è un agito nevrotico che più che scaricare l’angoscia la moltiplica e la lascia innescata. Allora io dico: ci siamo sfogati, abbiamo detto delle cose che avevamo bisogno di dire, ora teniamo il punto su alcune cose.

  1. Questa è una vicenda di adozione che sembra essere stata poco assistita. Dove un bambino è arrivato in una casa straniera forse dopo essere stato precedentemente istituzionalizzato. Un passato segreto e roccioso lo riguarda, e la prima cosa che mette in discussione è il suo diritto di essere figlio. Lo stesso diritto alla genitorialità non se lo riconoscono la maggior parte delle madri adottive, che devono fare un sacco di strada per combattere il giudizio di Dio che ritengono sia stato impresso nella loro difficoltà a fare bambini. Hanno torto naturalmente, quel diritto ce l’hanno eccome. Ma queste storie di corpo e psiche delle donne sono poco accessibili alla razionalità. L’adozione tocca un tabù filosofico, emotivo, che tutti ignorano bellamente, non rendendosi conto che strade difficili e anche belle attraversano certe famiglie che si formano in questo modo. Intorno a questa vicenda io leggo gli itinerari dei dolori di queste storie. Itinerari il doppio difficili, il triplo dolorosi, di quelli che emergono dalle nascite naturali. Tanto più se c’è una voragine di ricordi che dura ben due anni, i più importanti della vita nostra. Non sappiamo. Questa prima cosa non sappiamo come si sta, cosa è successo. Sappiamo però che quella è una prova difficile, e che psicologicamente se non è aiutata è foriera di guai non lontani da questo. Ora arriva questa vicenda plateale, ma la fuori c’è un mondo di sfide. Attenzione dunque.

    2. Questa vicenda è avvenuta in un paese, in seno a una coppia che si è separata. Dove un padre ammette di non essere riuscito a trovare un contatto e una madre, che forse sulle droghe leggere ha messo dei significati peculiari, ha cercato di attivare in malo modo una funzione paterna fuori da casa. E’ stato un atto infelice, che forse vuol dire delle cose – possono essere un miliardo. Ma ancora una volta noi non sappiamo. Non sappiamo manco com’è stare in un paese da sola, adottare un figlio e separarsi.  Però una cosa la possiamo immaginare. Avere un bambino che ti dice che la vuol fare finita, e avere un figlietto che la fa finita, madre adottiva o no, è una cosa che ti mette un principio di follia dentro. Pensate a come si sta. Siete sicuri che direste così disinvolti che il problema non sono le canne?

    3. Vale per questo ragazzo quello che valeva per l’altro. Ossia il sacro diritto della complessità, e della grande scomodità nella vita. Non facciamo ad altri quello che non vorremmo fosse fatto a noi stessi, e non togliamo all’altro il diritto a una sofferenza così terribile, e a un ordine di storia privata così complicato, da cavarcela con ah ma non si manda la pula, ah mamma cattiva. Sopportare che qualcosa ci è precluso, misterioso, lontano vuol dire pure, permettere di difendere la propria complessità. Difendetevi. Domani anche a fronte di una misteriosa felicità potreste dire a qualcuno di farsi i cazzi suoi.

 

 

 

 

Note su Sanremo 2017

Si è concluso ieri sera un Festival sobrio, finanche noioso, con un grande successo di pubblico, e allora oggi scrivo un posterello per il blog in proposito, come d’altra parte ho fatto anche in altri anni. Perché il Festival mi piace sempre, ci ho fatto pace con questa cosa, mi piace cioè in primo luogo per un godimento nell’hic et nunc, le canzonette, i vestiti, la coralità, in secondo luogo nella possibilità di condivisione, di esperienza momentanea culturale condivisa, in terzo luogo e solo in terzo luogo, che viene incomparabilmente meglio quando ci sono il primo e il secondo luogo, per il piacere che mi da la disamina sociale, i cultural studies rispetto ai fenomeni di costume, anche se certo in maniera spicciola e subitanea come questo articolo.

La prima riflessione che mi viene in mente, riguarda il dato auditel – abnorme rispetto a un’edizione per parecchi versi deludente, noiosa, quasi in difficoltà. Il finale ha visto uno share del 58 per cento. Una cosa veramente incredibile. Credo che questo dato sia l’esito non tanto di un format – un po’ in difficoltà – ma della moltiplicazione di due fattori: il primo è il fattore De Filippi, un personaggio di cui le accademie dovrebbero occuparsi con meno elitarismo considerando la sua capacità di trascinare le masse, andando spontaneamente in direzione ostinata e contraria a tutti i clichet del carisma televisivo, femminile in particolar modo. De Filippi, ne parlo dopo, si è portata dietro un’audience composta dai ragazzini dei talent e le casalinghe di c’è posta per te, e l’ha immessa nella percezione del festival. Il secondo fattore, penso possa essere la funzione svolta, addittivamente dei social network: dove si è svolto un gioco collettivo secondario, di commento, di partecipazione, di divertimento, ironia e falsa distanza che io credo abbia invogliato molti a guardare il programma, pure dicendo tutti in coro che questo era un festival pallosissimo. Questa cosa potrebbe essere un’indicazione per il futuro, che sarà interessante osservare: la rete tende a mediatizzare come dire, a un secondo livello esponenziale, oggetti già mediatizzati. Li riconfigura, li ripropone li ridisegna. Ne rifà i contorni e anche quando è vissuta da soggetti che sperano di autoproclamarsi come elitari – in realtà tramite essi, finisce per rafforzare la potenza culturale di un fenomeno.
Sento che parlate di Sanremo! Hanno scritto quelli che avevano bisogno di far sapere che non lo vedevano.
E Sanremo ha trionfato.

Malgrado canzoni in buona parte oneste ma modeste, e una conduzione professionale ma molto frenata. Non parlo tanto di come hanno condotto Conti e De Filippi, anzi sono sempre incantata dalle competenze degli animali da palcoscenico di lunga percorrenza. Anche in questo caso ho ammirato quel saper gestire il volto, i passi, i nomi, la fatica gli spazi e i tempi scenici, la relazione con le altre soggettività, un saper lavorare che è parte sapere della testa parte sapere del corpo, con quell’arsenale di automatismi che non sempre sono pensati razionalmente e ricordati, quando si sa fare una cosa da tanto tempo. E insomma, anche in questo caso, due grandi bestioni del palcoscenico. Ma è stato scelto di evitare polemiche, evitare umorismo becero, evitare cattivo gusto – e questo sinceramente l’ho apprezzato, sono state azzerate gag sessiste scenette imbarazzanti con gente che fa vedere mezza zinna o il fil di passera – ma si è avuto paura di sostituire queste cose con qualcosa di smart, con una conduzione attraente. Si è avuto paura di un contenuto brillante sulla scena. E così il festival, rispettando il suo ruolo di icona culturale, ha ritratto fedelmente la crisi creativa di un paese che ovunque vai, sembra obbligato a scegliere tra le mignotte e la noia mortale.
(Ho rimpianto Antonella Clerici per fare un esempio, altra regina sottovalutata dalle elites culturali, e il colpo di genio dell’Armata Rossa. Ho pensato all’Armata Rossa e mi si è aggiunto del dispiacere. Ma al di la della tragedia recente, l’Armata Rossa a Sanremo è stata una grande soluzione glam.)

Un po’ forse è stata la – misteriosa cifra stilistica di Maria De Filippi. Una donna non estroversa, non particolarmente bella, non particolarmente elegante, anzi una donna a cui riconosciamo tutti il merito di difendere con orgoglio una assoluta mancanza di buon gusto, che emana un’idea di pensiero strutturato ma non spocchioso, che parla sempre con una voce bassissima e che dunque, come certi terapeuti apparentemente noiosi e con poco da dire, ha la capacità di mettere il cono di luce con un solo gesto, la vitalità dell’altro, la sua identità sessuale e di genere. Sono tutti più colorati, più sessuati, più emozionati vicino a Maria, tutti più umani e nell’umano, tutti più maschi, più femmine, più padri più figli e più divi. Il modo riservato di essere di lei, qualcosa di androgino ma non sfruttato nella sua androginia, l’androginia come zona di ritrazione anziché di ostentazione – la rende paradossalmente tranquillizzante la controparte ideale per tutta quella parte di mondo che non vuole confrontarsi con un super maschio o una superfemmina che li domina o sollecita implicite competizioni. Nessuno dice della De Filippi che non è brava a punirla della sovrabbondante femminilità – come accade alla fantastica Belen. Ma neanche le rimproverano che è brutta  – anche perchè non è così vero.
Una signora con la gonna brutta al ginocchio e gli occhiali, che ride poco, intelligente esposata con un altro capoccione da tanti anni. E  che con questa veste modesta drena milioni.

Sono stata nel complesso, profondamente perplessa per la scelta di cantanti e canzoni, anche se alla fine ne ho trovate di godibili. Faccio tanti auguri a Bravi, che mi pare abbia una sua finezza che merita di trovare un bel futuro, e a Meta – che avrei voluto vincesse, mentre il podio della Mannoia, di cui riconosco la professionalità ma a cui ho trovato sempre il nome appropriato, mi ha lasciata di stucco. In generale però c’è un’aurea mediocritas un sentore di paura delle istanze creative che secondo me taglia fuori dal palco del festival le migliori risorse della canzone, e anche le sue forze più vitali. Quel borghesume in senso migliore di Conti, ha provocato gli effetti del borghesume in senso deteriore: non solo in termini di testi più o meno sofisticati, e sperimentazione musicale, ma di carica vitale. Ho trovato la maggior parte dei concorrenti di una moscezza angosciante, di una prevedibilità disarmante, a parte qualche trovata criminale in ribasso (il baricentro degli occhi: a zappare) – non trovo casuale quindi che abbia vinto questo bravo guaglione versiliano, l’unico tarantolato con un po’ di sangue in vena di tutto il festival, l’unico vivo forse, anche se a me non è piaciuto granchè. Trascina, fa cosa, ma alla fine rimastica vecchi stilemi al limite del plagio. L’ho trovato insomma un po’ datato. Ma era uno dei pochi vivi, e quindi – e comunque tecnicamente preparato e seduttivo. Lunga vita a Gabbani e tanti auguri per tutto!
E per il resto, grazie dell’intrattenimento, mi pare che il festival muova un sacco di soldi, faccia girare l’economia per un numero davvero notevole di persone, implichi un titanico dispendio di energie, e alla fine è visto dalla maggior parte del paese. Aveccene, altro chè.

Crisi, sintomi psichiatrici, gesti politici.

 

 

Pochi giorni fa un giornale – il Messaggero Veneto – ha pubblicato la lettera di un giovane appena suicidato. Dopo il suicidio la famiglia l’aveva ritrovata e consegnata al quotidiano, che non ha evidentemente saputo resistere alla succulenta occasione pubblicitaria, a uno  finto scooppismo poverello. Né d’altra parte ci sono riusciti altri, per esempio successivamente non si è trattenuto Beppe Grillo a cui notoriamente il pelo sullo stomaco non difetta mai, e che ha pensato bene di pubblicare la lettera sul suo sito, per farne un oggetto politico.
L’uso politico di questa lettera è facile. Chi la scrive si lamenta dolorosamente di molte cose che vanno male, gli affetti, il quotidiano, la vita, un senso profondo di stanchezza, il lavoro come grafico. Ma il lavoro è un problema per tutti! Ed è un problema che non si riesce a risolvere con agio. E allora può essere comodo servirsi di un suicida per fare una battaglia politica, per strumentalizzare un argomento in modo grossolano. Dopo tutto, quando si è senza lavoro o si vive in uno stato di precarietà si sta male davvero. Che non lo sappiamo?
Lo sappiamo mi viene da dire, ma solo in alcuni rari casi – ci togliamo la vita. E d’altra parte, la figata della disoccupazione è che, diversamente dai concorsi pubblici per psicoterapeuti nei CSM, che quando ci va uno e dice mi voglio suicidare lo rimandano a casa per assenza di personale, non è che O la risolvi O non la risolvi. O fai una cosa O non la fai.  Invece, a strepitare guadagni già nobiltà – perchè se fai una cosa non si vede, se non la fai non si vede e quindi appunto apposto così..

Ora. Non è opportuno ritenere che questa lettera dia dati a sufficienza per dire qualsiasi cosa su questo ragazzo, e parlarne senza conoscerlo farebbe cadere nella stessa bassezza morale di chi ne ha fatto uno strumento pubblicitario e propagandistico. E’ opportuno riflettere però sul pensiero collettivo che ha elicitato, e fornire qualche riflessione in più di ordine psicologico sul tipo di causalità che questo tipo di uso retorico lascia sedimentare. La crisi fa male, procura disastri, procura catastrofi, procura suicidi. La crisi, ha un impatto sociale tale per cui bisogna fare qualcosa. Questo impatto è immaginato con un processo di causalità ed effetto lineare: per cui si cerca lavoro, non lo si trova – oppure si ha lavoro e lo si perde e si diventa così disperati – che ci si ammazza. Basta sommare due grandezze mistiche e sfumate “la crisi” (che poi che è? Dice l’assenza di soldi) e l’”umanità” ( altra cosa monolitica e sfumata) e niente 1.0 vince la crisi.
Questo è pieno il grado di sofisticazione della psicologia popolare e bisogna dire mediatica.

Io però vorrei fornire in modo schematico, asciutto e poco letterario alcune riflessioni che sono di pertinenza della psicologia. E le faccio, perché se c’è una cosa sola a cui serve il messaggio di una persona sotto scacco che non ha ricevuto sostegno, è per indicare materialmente quali sono le vie politiche e amministrative del sostegno. A scopo di chiarezza e rapidità – sarò didascalica e procederò per punti.

  1. In psicologia oggi, si parla di matrice bio psico sociale del comportamento. Ossia siamo determinati dalla biologia del cervello, dalla qualità delle relazioni, dall’ambiente sociale. Ed è una matrice che lavora su due livelli entrambi consistenti. Un primo livello perdurante nella vita e decisamente incisivo è il corredo di oggetti biologici, familiari, sociali con cui veniamo al mondo e che determinando i primi anni della nostra vita, continuano ad operare negli anni a venire fino all’età adulta. C’è una radice genetica e biologica che variabili contestuali  – familiari prima e sociali poi, possono slatentizzare. Quindi per esempio: in una famiglia c’è una madre gravemente depressa con quindi un dato genetico – semplifichiamo a spanne – che trasmette alla progenie (matrice biologica). La probabilità che la progenie elabori questo sintomo a sua volta dipenderà anche dalla qualità della cura della famiglia di origine (matrice psichica) e anche da quanto lo contestualità sociale aiuterà questa famiglia di origine – per esempio con un assegno di disoccupazione se il padre perde il lavoro, o con un asilo nido a costi accessibili per aiutare i genitori, con un intervento strutturato dei servizi sociali se dovesse subentrare un problema di alcolismo conclamato. In assenza di tutte queste cose (matrice sociale), la probabilità che una vulnerabilità diventi patologia per un giovane è più alta.
    Il secondo livello è nel presente. I nostri stati emotivi variano a seconda delle esperienze psicologiche e sociali con cui ci confrontiamo, con il nostro aderire o meno a una domanda sociale. Il nostro cervello risponde biologicamente a queste esperienze, e cambia fisicamente con queste esperienze.
  1. Ne consegue in primo luogo che da una parte, ritenere che una patologia grave sia solo dovuta a carico dei fattori sociali (la crisi) è una sciocchezza. In efffetti considerando la pervasività di precariato e disoccupazione se la crisi fosse da sola così potente, noi avremmo un migliaio di suicidi al giorno. Il suicidio è l’esito di un malessere gravissimo e profondo che affonda in una dolorosa difficoltà ad accedere alle proprie risorse, e anzi a una tendenza ad attaccarle. Nella depressione che porta il suicidio c’è un tragico avvelenamento dei propri pozzi d’acqua – specie quando a suicidarsi è una persona così giovane. I suicidi sono diversi, e le storie psichiche relazionali e sociali che vi ci portano possono variare molto. Per esempio è molto diverso il caso di un uomo adulto la cui identità psichica e relazionale di efficacia e di paternità è profondamente legata alla sua capacità di guadagnare che va in frantumi a seguito di un fallimento. Ma rimane il fatto che anche in quel caso, una certa organizzazione psichica di antica data, aveva più di un tratto preoccupante all’occhio clinico, per quanto così socialmente rinforzato. (E’ questa una riflessione amara che ho fatto una volta che ho avuto un lungo e intenso scambio con un lavoratore del nord – est, che mi raccontava con enorme intelligenza e sensibilità il collasso di un maschile che per generazione ha affogato qualsiasi sintomatologia psichica nella fame di lavoro e di conferma sociale. Per cui oltre ai suicidi c’era un’intera regione messa psicologicamente in ginocchio dalla perdita di un’identità, di un potersi riconoscere e anche –  io credo  – dalla perdita di una coperta per  una serie di dolori e di cose irrisolte)
  1. Ma – tornando a noi – da tutto questo consegue anche la consapevolezza che quando c’è questo mostro generico della crisi, questo grande oggetto slatentizza problemi psicologici di altro ordine e grado oppure toglie ai soggetti qualsiasi argine al loro sviluppo fino a grave forme di cronicità. Faccio un po’ di esempi a casaccio:

    a. Crisi può voler dire padre disoccupato, padre depresso, padre alcolista, padre aggressivo su madre, figlio che assiste ad abusi sulla madre, figlio abusato, e sempre per la crisi, figlio che non ha prima nido poi tempo pieno come esperienza di relazioni emotive sane, e quindi  un domani la  psicopatologia del figlio sarà più probabile.
    b. Crisi può voler dire giovane con diagnosi di disturbo di asse due ad alto funzionamento, gradevole simpatico, ma con esplosioni in agiti disastrosi che se però trova un lavoro otto ore al giorno che gli piace sarà contenuto, la tendenza ad agire contenuti aggressivi magari canalizzata in questa o quella attività, e magari potrebbe trovare una relazione moderatamente funzionale, sufficientemente collusiva, ma che lo traghetterà sul piano nevrotico. Ma senza lavoro, senza contenimento il ragazzo cercherà contenitori dove li troverà e che si mostreranno più accessibili per esempio in figure carismatiche nella criminalità organizzata, nell’uso e circolo di stupefacenti e via di seguito. Se va bene. In assenza di questi contenitori una sintomatologia ingravescente si può prendere il ragazzo fino a livelli di disfunzionamento che gli impediranno qualsiasi relazione sociale.
    c. Crisi può voler dire anche una persona che sta male, è depressa, non riesce più neanche a cercare lavoro, va in un posto pubblico, dice che non riesce a fare niente, e lo mettono in lista di attesa perché il fatto è che nel Lazio non c’è un concorso per psicologi da 18 anni.

Quindi, in conclusione, se proprio si vuole utilizzare un suicidio, per porre una domanda politica, anziché frignare narcisisticamente dicendo quanto sono fico io che parlo di questo disgraziato, non vi vergognate voi che parlate d’altro? E’ opportuno fare delle domande puntuali. Nella consapevolezza che meno ci sono soldi, più la sintomatologia psichiatrica delle famiglie è slatentizzata, e quindi meno ci sono soldi più questioni che con quei soldi non ci entrano niente esploderanno – una volta il suicidio, un’altra il femminicidio, una terza l’infanticidio, una quarta la tossicodipendenza,e via proseguendo fino alla triste congerie di sopravvivenze dolorose che non fanno tanta notizia, le migliaia di depressioni che si trascinano e di cui la politica se ne fotte. A fronte di queste cose, la domanda deve essere quella di servizio pubblico, di potenziamento dei servizi alla famiglia, di riqualificazione dei servizi sociali, progetti di recupero sul territorio e della possibilità di accedere a psicoterapie e a farmacoterapie in tutti i csm. Ma anche la domanda dovrebbe riguardare una domanda di screening un qualche tentativo di prevenzione e intervento. Non lo so, decidete voi, ma la domanda deve riguardare cose pratiche, precise, inerenti ciò di cui si parla, e non un piano astratto – ministro abbruttone –  che alla fine è solo un posticcio alibi morale.

 

un ricordo

 

 

(Il primo ricordo in cui ho capito qualcosa del mio mestiere, risale a molti anni fa, quando facevo un tirocinio in una clinica psichiatrica. Ero già laureata in filosofia, e mi stavo laureando in psicologia. Avevo concluso un primo ciclo di analisi e quindi tutte queste cose, più il corpo degli anni mi davano una credibilità in più rispetto ai miei colleghi tirocinanti, per cui mi fecero fare dei colloqui con alcuni pazienti ricoverati.C’era una signora che voleva parlare di pipì per tutta la seduta, c’era quello che aveva cominciato a fare uso di cocaina quando la moglie aveva sfornato il tredicesimo figlio, c’era la paziente poetessa e io facevo del mio grossolano meglio con ognuno di loro. Ho fatto moltissimi errori. Si fanno errori sulla pelle delle persone.

Poi un giorno mi misero davanti questa madre di ventisei anni, una venere secca e stralunata, madre di una bambina che aveva rischiato di far morire in contromano su una strada di grande scorrimento. Veniva nella stanza di latta e mattonelle con una vestaglietta a scacchi, le ciabatte, e il volto molto molto truccato, quasi una maschera di carnevale: con lunghe righe nere che attraversavano le tempie, e grandi macchie blu sopra gli occhi.Era entrata con abuso di psicofarmaci. Aveva tentato il suicidio.

Dottoressa, mi disse dopo qualche volta volta, ferma, lucida, rabbiosa. Mi mandano da lei, ma io mi voglio ammazzare ha capito? Io mi voglio ammazzare, e io lo farò qui, sa? Esco di qui e io mi ammazzo.E io le dissi: Lo faccia. Cara mia a me non importa.. Non mi importa perché secondo me è una scelta sua, sulla vita sua, e per quel che mi riguarda nessuno ha il diritto di dirle cosa deve farsene: stare in una vita brutta deve essere molto scomodo.

Mi ricordo che glielo dissi molto duramente, severamente, addirittura con una punta di sarcasmo. Come due persone che parlano tra pari quando la posta in gioco è alta, quasi in un’area di clandestina condivisione. Mi batteva il cuore fortissimo. E cercavo di dissimulare – con una recitazione che a posteriori ho considerato notevole – l’impulso di controllare il tavolo per rassicurarmi dell’assenza di coltelli, di cercare nella memoria che no in una clinica psichiatrica non troverà in bagno delle lamette.
Dissimulai la sensazione di giocare col fuoco.

Non mi ricordo molto della sua reazione, alla mia risposta. Credo che sia rimasta sostanzialmente inespressiva. Il ricordo di quel colloquio è tutto bruciato da quel momento, dal senso di sfida che avevo percepito, e di aggressione, e quella cosa incandescente e terribile che un po’ è manipolazione dell’altro, un po’ voglia di stupirlo, un po’ voglia di dominarlo, ma tutto tragedia e tutto morte. Era reduce da un TSO. Non è che parlasse proprio a vanvera.

La volta dopo, venne con il viso completamente struccato, normale. E con la volta dopo cominciò a raccontarmi dei sogni, e di uno stare al mondo davvero incomprensibile per tutti i suoi. Gli psichiatri mi fecero i complimenti, e credo di aver cominciato a lavorare anche per quella paziente – che purtroppo non potei continuare a vedere quando fu mandata a casa.

Sono spesso ritornata con la mente a questo episodio, chiedendomi esattamente cosa fosse successo. Sono una persona pavida, e non si può dire che la morte o il desiderio di morte non mi spaventino. Tuttavia intuitivamente dovevo aver capito che li la questione era una richiesta di presa in carico che forse fino ad allora non era avvenuta. E anche una sorta di messa alla prova. Ti metto sul tavolo le cose con cui combatto voglio proprio vedere che fai. Fui facilitata dalla patologia culturale per cui stiamo tutti a guardare film di morti assassini ma siamo terrorizzati dal qualche volta comprensibile desiderio di morte. Di contro, una cosa che mi ha sempre accompagnato da prima di allora è il senso di profonda costernazione per chi è in cattiva compagnia quando è con se stesso. Ho sempre avvertito la persecutorietà di questa cosa, l’angoscia che ne deriva, ancora oggi guardo certe vicende di chi resiste eroicamente con ammirazione, perché so com’è stare male, ma anche com’è comodo e agevole prendere un caffè con se stessi potendo dire ok che facciamo oggi? Quella persona mi stava dicendo. Anche tu mi manderai affanculo con tutte quelle moine sull’importanza della vita e della mia bambina? Oppure anche tu scapperai nelle solite domande del perché mi dice questa cosa? Uffa cazzo, mi diceva, io non mi sopporto più. Ecco cosa.
E io credo che l’alleanza terapeutica sia questo, uno ti dice – cazzo non mi sopporto più. L’altro dice, cazzo hai ragione. Vediamo che fare.

E se va tutto bene, torna senza la maschera di trucco. Oppure, si permette di posarla cinque minuti.)