Abbracciare un bambino che piange

 

 

Ci sono dei bambini piccoli, molto piccoli – che per qualsiasi cosa piangono e si arrabbiano, e magari risultano anche molto irritanti. Cominciano a piangere per qualche motivo, per esempio una mal tollerata frustrazione, un rifiuto che spiace e continuano senza requie. Alcuni genitori di questi bambini, interpretano allora il loro pianto come una comunicazione nei loro confronti, una forma di dominio e di imposizione, un atto ricattatorio. Magari l’adulto si sente in colpa per aver frustrato le aspettative del bambino, perché nella sua testa sono mischiate le motivazioni nel suo interesse e quelle nel proprio. Si tratta di una miscela quanto mai umana e forse etologicamente necessaria, ma il fatto è che ora, i suoi interessi personali sono terribilmente ingombranti. Allora il pianto di questo bambino sarà un po’ un dito nella piaga della percentuale, più o meno fisiologica di egoismo – e forse di altre percentuali più o meno fisiologiche, come quella di narcisismo. Uffa, questo bambino che piange in mezzo alla strada! e che diranno di me le persone che ci vedono e lo vedono che batte i piedi ed è tutto rosso???! Smettila Smettila! E tanto più il genitore non si sente al suo posto, nel suo diritto bestiale di essere Madre e Padre, e tanto più griderà con fervore.
Il bambino che piange è un antagonista e anche, un testimone del suo presunto dilettantismo.

Non tutti i bambini piccoli fanno come questi. Certi per esempio, sono persino troppo educati e docili, bambini che imparano drammaticamente presto che non hanno alcun diritto a chiedere, bambini che sanno di doversela arrangiare da soli. Come ci sono bambini che hanno un accesso forte a una serie di risorse interne mentre l’ira e la rabbia le contattano con più lentezza. Questi bambini che piangono come ossessi invece, vuoi per genoma, vuoi per storia psichica, sono bambini che contattano velocemente e intensamente la rabbia, che la toccano subito.

Il fatto secondo me sottovalutato, e che spesso si crea un grave fraintendimento. Perché quando il bambino di un anno o due o tre continua a piangere disperatamente perché non può avere il secondo gelato, si crede che stia comunicando il fatto di volere il gelato disperatamente, quando invece a ben vedere quel bambino sta combattendo un’altra battaglia. Il fatto è che quel bambino è entrato in una stanza, la stanza della rabbia e dell’ira, del pianto e dell’angoscia, e non sa più uscirne, ripete meccanicamente che la questione è quella pregressa, uffa il gelato uffa uffa uffa, ma non sta scegliendo di piangere, è invece prigioniero di uno stato d’animo, regressivo, preverbale, in cui gli stati d’animo producono una pulviscolare presenza di micropensieri, o sentimenti, che non si riescono a organizzare in nessun modo, e c’è solo una sorta di atmosfera prevalente opaca e frustrante. Il genitore che rimprovera e basta: lui in pedi alto e quello piccolo che piange, non fa che rafforzare questa sensazione desolante di stare in una stanza piena di rabbia dove non si trova l’uscita. Il genitore è percepito come lontano, alle volte io credo neanche percepito, una falsa presenza che non aiuta a risolvere questo problema della porta della rabbia.
Il bambino a quel punto manco lo guarda più.

Quella porta li, non si impara mai a trovare con le parole. Ci vuole qualcuno che faccia dei gesti fisici, ed emani gli strumenti dell’elaborazione degli stati d’animo con il mero corpo. Ci vuole il bestiale dell’abbraccio, e del tono di voce basso e conciliante. Perché queste due cose, indicano materialmente la via d’uscita – vieni via da li, dice il genitore che abbraccia, vieni via dalla rabbia guarda come si sta meglio qua, solo qua si mettono le cose apposto.
Una cosa che nell’esperienza ho trovato utile, e che materialmente suggerisco, è quella di abbracciare il bambino e mettersi alla sua altezza e dirgli piano di respirare con la pancia per mandare via gli stati d’animo cattivi. Solo quando avrà ritrovato la calma si potrà certo spiegare la ragione della frustrazione, e della sua necessità. Ma fare questo gesto, creerà una serie di importanti effetti, perché questo gesto è infatti quello che gli analisti chiamano Reverie, e che non è semplicemente il fornire affetto e cura, ma il fornire uno strumento materiale che il bambino usa per trasformare gli oggetti psicologici che lo colpiscono. I bambini cioè devono poter usare i genitori, come prima cosa, devono poter usare il loro corpo e il loro dominio delle emozioni. Quando avranno appreso servendosi di loro il dominio delle emozioni, potranno accedere al regno del super io e della morale. Potranno quindi essere non solo limitati, ma anche rimproverati. Prima è tempo sprecato, e peggio prima sono solo semi per magagne a venire.

Sembra una cosa sciocca questa – ma ho scoperto che moltissimi genitori possono fare fatica a fare un gesto così banale, per un mucchio di motivi comprensibili. Il primo è di ordine cognitivo – una visione adultomorfa da al pianto un intenzione che invece il pianto aveva magari all’inizio, ma dopo non più. Ma soprattutto è il bambino interno dei genitori quello che gli fa fare la sua parte, un bambino a sua volta scontento che si adopera per mantenere in vita la sua scontentezza. Il genitore che non sa abbracciare un piccolo di un anno e mezzo due, può essere una persona gentilissima ma che difetta di una sintonizzazione emotiva, per il semplice motivo che nessuno al tempo si è sintonizzato con lui e con lei, il bambino di ora anzi, agli occhi dell’inconscio di questo genitore gli ricorda il bambino rabbioso che è stato, e che ora anzi pericolosamente potrebbe tornare ad essere: anche lui o lei sono stati bambini che nessuno sapeva far smettere di piangere, e oggi sono persone sempre molto malmostose o risentite. Altre madri o padri, sono stati invece bambini bravissimi ed educatissimi perché proprio dimenticati, e la loro acquiescenza è stata una strategia di sopravvivenza, e l’idea che ora il loro figlio sia capace di chiedere ciò che non hanno mai chiesto, li rende pazzi di invidia, pazzi di invidia dell’infanzia che non hanno avuto.

Abbracciare i propri bambini allora, anche se esito di un suggerimento come dire, quasi pedagogico, e quindi all’inizio poco spontaneo, può essere un cosa buona anche per i genitori, perché è un’occasione per riscrivere anche la loro storia, un modo di dire, sono capace sono capace sono capace di avere dentro di me un grande che sa indicare a un piccolo la porta d’uscita dalla rabbia.E ancora:  sono capace di riscrivere la mia storia.
E’ una cosa sciocca – ma è di capitale importanza – e lo capiamo meglio se pensiamo ai sentimenti non come categorie della psiche alternative ai pensieri, ma come invece categorie della psiche che organizzano i pensieri e ne costituiscono la sintassi. L’emergere del pensiero e della personalità è qualcosa che arriva da un mondo di stati d’animo/assunti che noi adulti descriviamo a parole in mancanza di meglio, ma che non sono parlati, sono anteriori al linguaggio, sono frasi emotive. Abbracciare è un modo per creare il terreno per accedere al linguaggio, oppure per riportarci qualcuno che ne è uscito.
Se nessuno adulto farà mai questa cosa con il bambino, il bambino rimarrà una vita con questo problema di gestire dei contenuti pericolosi e aggressivi che in certi momenti della vita ritornano allo stadio anteriore alla parola.