Erano passati molti anni di delicato apprendistato, diligenti incursioni, adattamenti reciproci, anni di dialetto impenetrabile, e discorsi e valori e modi lontani e in parte irriducibili. Anni in cui, quando andava a visitare la suocera in paese, c’era il problema di cosa mettersi, e di cosa parlare e cosa no, e se vi era il caso in cui fosse lecito arrabbiarsi. Per esempio i pantaloni di lino rovinati in fondo, la suocera non li sopportava. Per statuto etico delle cose che vanno ben tenute, perché una nuora deve sorvegliare qualsiasi orlo, perché che vezzo è questo, se non testimonianza di una impunita quanto amorale prosperità. Per esempio quali parole poter usare, per evitare le significanze di un vocabolario troppo sofisticato. Per esempio la gestione della stizza e della noia. La suocera amava molto parlare di morti, di parenti parenti ad altri parenti, di tutto quel mondo distante e lapidario.
Soltanto una mattina di agosto, sarà stato per lo meno l’ottavo o il nono da che la conosceva, la nuora sentì bruciata la distanza. Erano rimaste sole nella cucina bianca, stavano sedute su sedie di paglia vicino il frigorifero, sotto la luce della porta aperta che dava sulla ghiaia. C’erano una credenza di formica, che lei non poteva che considerare come terribilmente brutta, con sopra tutte cose terribilmente brutte: cornici di ceramica piene di fiori rosa con la foto del papa. Posaceneri con paesaggi lacustri e baci stampati in lettere dorate. Porta penne di plastica rossa con sopra la foto di una bambina riprodotta. E insieme a tutte queste cose altre che peggioravano il paesaggio per la loro prosaica necessità – le pasticche per il cuore, le bollette da pagare, i numeri di telefono dei figli, scritti a grosse cifre e incollati con lo skotch. La giovane aveva un vestito chiaro, aspettava un caffè e provava una vergognosa tenerezza. La vecchia rammendava faticosamente qualcosa.
Quella mattina di agosto la suocera si mise a parlare di suo marito, morto anni prima. Un uomo intelligente, determinato, complicato e tormentato, e certo– tormentante. Sulla credenza vi era ancora una foto di lui che riempiva lo scatto di uno sguardo dolcissimo e magnanimo. Eppure nella sua vita con lei, erano state più le volte in cui aveva urlato, e rimproverato e umiliato. Ma non si fanno mai foto di questi momenti dell’anima – per quanto frequenti. Teneva la testa china sulla stoffa e raccontava di questo onesto e amato lavoratore. Che la mattina all’alba si svegliava per curare la terra dei signori, e dava consigli, e si industriava, ed era davvero un ottimo dipendente suo marito, che si era spezzato la schiena per la terra degli altri. Parlava in modo piano, tessuto di rurale buon senso, della necessaria onestà come fatto naturale – come le stagioni, e il ciclo della frutta. Allo stesso tempo qualcosa si arcaico e rassegnato e sottilmente rabbioso si insinuava. “E poi – diceva alla nuora piantandole gli occhi negli occhi, cercando la donna che capisse l’altra donna – la domenica si metteva con una seggiola sul campo a leggere il giornale” Si lisciava allora il vestito di nylon a fiori, comprato al mercato con distaccato pragmatismo.
La giovane annuiva, e anzi sorrideva sforzandosi di far capire, come poteva toccare il sentimento di una povertà ignota. L’altra non pareva cogliere troppo, rideva in modo enigmatico, forse il dialetto e la maschera del tempo la rendevano più indecifrabile. Tuttavia: “Per questo sono stata contenta – continuò – quando è morto mio padre e io ho avuto un pezzetto di terra. Proprio un piccolo pezzetto di terra, che non ci potevi fare niente, non ci potevi fare certo i soldi su questo piccolo pezzetto di terra, forse delle piante così per noi. E però mio marito avrebbe potuto andarci la domenica, e fare quella cosa li,sedersi su una seggiola prendere il giornale guardare il paesaggio. E fare il signore a casa propria.”
(La nuora si commosse, per via dell’amore nelle parole, e della distanza accorciata. Tuttavia sapeva da tempo che sarebbe successo, fin da quel primo giorno in cui le fu presentata. Quella prima volta, contravvenendo a qualsiasi idea di pudore e buona creanza, la prima cosa che la suocera disse fu – noi siamo poveri, se cerchi soldi non ne trovi. Ruvida e diretta e anche un po’ provocatoria. Una prova che lei superò senza smentita, perché le rispose altrettanto ruvida e altrettanto seria. “Non me ne frega dei soldi, ci ho i miei.” In quella prima transazione tutt’altro che sentimentale, si erano riconosciute due donne simili e molto sentimentali.)