a.
Quando la vide la prima volta, lei aveva un bambino appeso alla mano, il bambino saltava avanti e indietro rispetto ai suoi passi, irregolare vicino al passo regolare e molle di lei. Era distratto, e anche stanco per quanto fosse mattina. S’era arrampicato sul furgone già alle sette, coll’alibi del lavoro, ma in realtà era scappato per l’insofferenza alla casa, alla cucina. Anzi si può dire che proprio l’appartamento l’avesse buttato in strada, perché nell’appartamento, non c’è niente da fare alle sette di mattina: la televisione è inutile, le canzoni della radio dopo un po’ stufano, tutto è stanco. E quella mattina che l’aveva vista era all’inizio della primavera, aveva questo bambino per mano – una madre – e la cosa che l’aveva colpito, era che quando questa madre aveva incontrato un paio di puttane s’era messa a salutarle e a ridere con loro, pure che c’era il bambino. E allora, lui ne aveva dedotto, che pure se dai vestiti non sembrava affatto, pure se ci aveva la sottana lunga tipica della madre, e scarpe da madre – insomma forse in altri momenti della giornata faceva il mestiere. E mentre si diceva questa cosa quella mattina, che come le altre era andato a guardare le mignotte ma non se lo diceva proprio così, il bambino si era tuffato nella gonna dietro, le si era incollato al culo – mamma ti ho fatto uno scherzo! E l’insieme di questi pensieri, le mignotte, la donna alta ed enorme, una grassa madre, e il figlio che le salta addosso, questa cosa l’aveva colpito. Terribilmente. L’aveva eccitato.
Che bambino fortunato.
Non che ci avesse molto pensato, poi nei giorni successivi. Aveva un sacco di donne per la verità su cui si soffermava in lunghe relazioni immaginarie, tutte grandine e sotto un certo profilo neanche molto belle. Le osservava da lontano, ogni tanto si avvicinava cercando di essere gentile, ma non tantissimo a dire il vero, più spesso le guardava da dentro al furgone. Per esempio si intratteneva con le due puttane che stavano sempre alla stessa panchina, bevendo succo d’arancia e ridendo, di cose loro di puttane.
Veniva subito.
La seconda volta l’aveva vista da sola, la madre, tornava dalla scuola del figlio, e salutava le mignotte tra gli alberi. Allora s’era accostato poco più avanti al marciapiede, ma lei non l’aveva guardato. Camminava spedita pure, aveva sfiorato il fianco del camioncino con lo sguardo, ma senza fermarsi, verso la casa non molto lontana, come aveva scoperto parcheggiando in un angolo, dopo, con lei che di lui si doveva essere già dimenticata. A quante cose pensano le donne, si diceva vedendo la testa frugare nella borsa per le chiavi, salutare la vicina, cercare il telefono che squillava. Cose di donne ci hanno la testa piena, il dare da mangiare, il pensare ai bambini. Le amiche.
L’essere donna della donna che tornava a casa, era ciò su cui si era soffermato. Quindi non per esempio, il taglio della gonna, che una compare avrebbe valutato un po’ snob, un virtuoso stemma di classe, non il trucco appena accennato della borghesia di prima mattina, neanche il modo di salutare la signora del negozio di giocattoli o il vicino di casa. Né aveva colto nel suo salutare le puttane, una sorta di cortese magnanimità, un provvisorio scendere per di corsa risalire. Invece la grave presenza dell’essere donna, era quello che aveva registrato di lei, il corpo che si mangiava tutto il resto, ossia tutto quello che poteva capire e non aveva capito e che avrebbe potuto metterlo in pericolo. Anzi, l’immaginazione gliel’aveva trasformata in una creatura immensa e in una sorta di entusiastica allucinazione vedeva la donna torreggiare nella strada, le anche che toccavano i bordi delle case, e il seno ridondante fino al cielo, il ventre come un lago e i capelli che magari scendevano fino all’asfalto e tra i tubi di scappamento.
b
La donna si accorse di lui al terzo dei loro incontri, il meno casuale. Stava andando verso la giornata con muscolare decisione, il rossetto da combattimento, la borsa da professionista rampante, il figlio lanciato a scuola, e il marito fuori città. Aveva messo pure un dietologo in agenda a dimostrare che la sua lotta armata contro il destino di una stirpe di donne mediterranee, donne a forma di pera o di pentola, le spalle strette e il culo a insalatiera potesse essere limato e sfuggito. Nel suo corpo di cuoca napoletana, lei rincorreva una e pragmatica nordica, un’elvetica decisionista, una donna che sa prender decisioni e correre compatta nel corridoio di un ufficio. Per questo, quando l’autista del furgone bianco era sceso dal mezzo e si era tirato giù i calzoni davanti a lei, aveva reagito con prussiano sussiego, l’orgogliosa non chalance della donna in età che, rispetto alle ninfe e le bimbette, non si fa impressionare da un cazzo all’improvviso. Era anzi rimasta colpita dal volto liquido dell’uomo, dall’aroma di incongruenza e inettitudine. Aveva tirato dritto forse persino accennato a un gentile sorriso, contando il quarto esibizionista della sua carriera.
Subito dopo però, lui le aveva tagliato la strada e con inedito coraggio le aveva offerto un caffè gridando dal furgone. Poi, si era dileguato. Per ricomparire, alcuni giorni dopo alla stessa ora, in paziente attesa davanti al bar del quartiere, a elargire sorrisi e a piantonare la sua utilitaria.
Lei era rimasta stupita, e aveva deciso di preoccuparsi.
Ossia. Una parte selvatica e animale della sua persona, una parte di lepre, di capra, di gallina, sentiva nell’altro, la bestia impacciata e innocua, il cane con le zampe di fango sul pavimento pulito, o anche l’esiliato e straniero nella colonia lontana di cui non conosce bene le usanze, i costumi, i rituali, uno che dice ciò di cui ha bisogno in una lingua elementare e sconosciuta, che fa tutto sbagliato. Uno di cui ridere. Perché se una ha il corpo di cuoca e di madre, un figlio che ha fame, è capace di vederlo ovunque.
Un’altra parte di lei però, quella dell’ufficio pubbliche relazioni dell’azienda, quello dei tavoli col sindacato, e anche quella che sa gestire le delicate nevrosi del vicedirettore, capiva che, quando un uomo non si cura di essere ridicolo, può diventare un’oggettiva rottura di coglioni.
L’avrebbe seguita al lavoro, le avrebbe voluto parlare mentre conduceva complicate trattative con il capoufficio al parcheggio rovinando una diplomazia che durava da mesi, si sarebbe seduto sulla soglia dell’uscio di casa dopo averla inseguita, magari tirandosi giù i calzoni un’altra volta. Le venne anche il timore, che avrebbe potuto intercettare suo figlio in qualche modo.
Si era allora rifugiata nel bar a chiedere il conforto della sua colazione, del barista giovane e il barista vecchio, il cacao sulla schiuma bianca, due battute sulla vita che scorre.
c.
La vicenda aveva fatto ridere il barista vecchio, che l’aveva iscritta in prima istanza, nel capitolo del suo folclore professionale. Nella carriera di un barista l’ubriaco e il maniaco sono due punti saldi, due capitoli ineludibili, insieme allo scroccone e alla piagnona un po’ zoccola, e qui la cosa lo faceva ancora più sorridere pensando al fatto che la signora a cui era successo, era una brava donna anche di una famiglia per bene, di cui conosceva il marito e un tempo i genitori, ma che non trovava esattamente avvenente. Non solo per quella grave maternità meridionale che lei emanava, al barista piacevano le gatte pezzate che scappavano da tutte le parti, indipendenti e cattive, e non solo per la vicinanza ai cinquant’anni sulla forma del volto, ma anche per quell’autonomia efficace e arruffata che la connotava. Era colpito dalla rapidità con cui si conquistava la sua fetta di bancone, e dalla disinvoltura con cui chiedeva le cose, sempre addolcendo una sorta di pillola autoritaria con mille formule di cortesia, per favore potrei avere, non è che per caso.
Ciò non toglieva e anzi aiutava il fatto che avessero un rapporto amichevole e a tratti cameratesco. Più ridendo che prendendola sul serio la rassicurò e la signora rimase incollata al bancone fintantoché il suo nuovo innamorato non avesse tolto le tende.
Quando nei giorni successivi era tornata da scuola al bar, si era trovata a controllare il tragitto nella speranza che non capitasse il furgone bianco – e quel paio di volte che in effetti l’aveva scorto in lontananza si era ritrovata addosso il fastidioso pensiero di dover cambiare tragitto, orario e via di seguito. Ma una volta nel bar aveva scoperto con sociologica stupefazione, di essere diventata un caso narrativo per un verso, e per un altro, che le sue quotazione erotiche erano risalite. Se alcuni maschi la guardavano con la franca risata che riserva alle vecchie, diversi altri ora la salutavano con rispettosa e galante deferenza, come se l’ipotesi di una pacca sul suo vasto culo, ne avesse illuminato una nuova appetibilità, l’avesse reiscritta nel regno delle femmine desiderabili. Tutto dipendeva non tanto da lei ma da come, il nuovo maschio della comunità che ora stava solerte sorridente e incongruo proprio vicino ai cassoni della spazzatura, venisse qualificato: se l’erede industriale dello scemo del villaggio, o invece un maschio fratello solo un po’ introverso, con cui si potrebbe parlare di calcio.
Buon giorno signora.
L’unico a prendere la situazione sul serio, e a considerare la questione nei suoi realistici confini, era stato il barista giovane. Una betulla di nuova generazione, che aveva avuto la mamma in ufficio, e pure la mamma del suo migliore amico, in ufficio, uno con la sorella iscritta a economia e che magari era innamorato di una vigorosa barricadera. Un maschio di nuovo conio quindi, abituato ad altre sintassi e altri universi, non solo altri modi di chiedere il sale a tavola ma anche altre comunanze. Il barista giovane era uno che aveva lavorato con delle ragazzine bariste giovani, e insieme avevano diviso una paga oraria in nero, un capo cafone. Il barista giovane, era l’alfiere di un altro mondo, e non gli faceva fatica capire che se che se ci hai un tizio che ti viene sotto casa a tutte l’ore e al bar tuo e a scuola dei figli tuoi non sei contento. Ossia, non è che il barista giovane capisse qualcosa che gli altri non capivano, ma femmine e maschi nel suo mondo, fuori dal bar erano seduti sulle stesse seggiole, e gli aggettivi che si usavano per le cose della vita erano gli stessi per tutti. Non si stava in piedi con le signore e seduti con i signori.
Nella sua flemmatica dichiarazione di solidarietà in ogni caso, c’era anche una omunicazione al mondo degli altri maschi, barista e avventori, una roba di padri e figli, di centro e periferia.
d.
La signora tuttavia gli fu grata. Era in uno strano, e antichissimo imbarazzo. Nel monopoli della sua esistenza consueta, dove si susseguivano in miniatura le cose grandi che altri e altre avevano attraversato, riviveva la replica innocua di altri più dilanianti imbarazzi. Se al nero fanno una battuta sui neri, con affettuosa gentilezza il nero deve ridere perché quell’altro lo vuole tra i suoi e lo sbianca del gentile candore dell’appropriazione, oppure incupirsi e chiudere la relazione perché anche in quell’amicizia ci vuole una battaglia? E quella battaglia non farà alla fine che renderlo ancora più nero e il bianco sempre più bianco? Niente sancisce nei rapporti di forza la misura definitiva di chi vince, quanto la parola di chi è disposto a ironizzare su di se. Ma allo stesso tempo, niente celebra una separazione, e spesso e volentieri la qualità di una gerarchia, meglio di una separazione. Per questo la signora fu grata al giovane e alla sua generazione tutta. Il giovane le aveva permesso di sostare in un posto in cui era affezionata, senza sentirsi sbiancata dai doveri di una signora ammodo.
Intanto l’uomo che l’aspettava poco lontano dal bar la vide uscire, si sentì quasi illuminato dal suo benevolo ottimismo, che in cuor suo lesse però con parole proprie: evidentemente lo stava invitando, gli stava dicendo che poteva venire con lui, oggi poi ha messo dei pantaloni con una maglietta deve averlo fatto per me, le stanno stretti apposta per me.
Decise di seguirla.
che bel racconto, grazie Costanza.
che bello, “sbiancata dai doveri di una signora ammodo”.
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