Mazada

 

Il rapporto dell’ebreo con le classi sociali è da sempre improntato a un’appartenenza mai conclusa eppure vistosa, se è povero è straccione, se è borghese è molto borghese, e questo dipende da un problema degli occhi di chi lo guarda, ma anche da una sorta di formazione reattiva, a un sentimento opposto. Forse gli capita di vestire con zelo, le stimmate di una famiglia a cui sa di non appartenere mai del tutto.

I più forti però, fanno di questa appartenenza difettosa, un dolore ma anche un privilegio: sono liberi, disincantati, distanti, e quindi allo stesso tempo affabilmente conquistabili, e pure liberi e portati a un’agile iconoclastia.
Mia madre per esempio, per quanto studiasse da giovane signora con gli occhiali a gatta, non ha mai perso questa scomoda posizione privilegiata, neanche agli esordi della sua carriera borghese.

Per esempio racconta ancora oggi, con la risata potente dell’anarchia dei vecchi, di quando vestita con un taielleur di tutto punto, le scarpine col fiocco, sul portone dell’ufficio – s’era ritrovata di fronte a un abnorme temporale, la furia del cielo che imperversava, la pioggia come una stoffa che non fa vedere niente. Ma io sapete, racconta allora, dovevo assolutamente andare via! –  Aveva visto una macchina gialla con forse un signore dentro – un taxi! – e ci si era buttata dentro con un grande sospiro. Poi, racconta già con soddisfazione, aveva ordinato con l’autorità delle cosce lunghe, dei guantini ma anche del segreto pensiero che io tzk sono una donna che lavora sa – Per cortesia! Mi porti a piazza Mazzini!

(E credo di poterne ricostruire la voce – meno compromissoria di oggi, più manichea, con delle note che derivavano da una fatica lontana fino a un punto d’arrivo, la convinzione di esserselo meritato quasi angosciata, e anche penso ci potesse essere un che da ridere, perché mia madre è il tipo che la pioggia, la fa ridere)

Pare che il signore comunque, quello dentro la macchina, si sia girato tutto piccato dicendole – ma signora! Scusi, come si permette! Questa è una Rolls Royce!  – Evidentemente sconfortato dal tradimento di una stimmate di classe che non aveva fatto il suo dovere, per quanto col mal tempo – uno vole passar per principe e bastano du gocce che diventa proletario.

A quel punto mia madre, garibaldina, ma diciamo pure infame a questo pover’uomo ha allora prontamente risposto “Ma lei è un cretino, le deve cambiare colore” con riprovazione convinta, come una professoressa a un allievo sciatto nei compiti, come un caporale dell’esercito alla matricola imbranata.
E senza che quello potesse aprir bocca poveruomo, lei è scesa, ridendo di soddisfazione.

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L’istrice morente: sulle interruzioni delle psicoterapie.

 

Capitano spesso in studio, pazienti che hanno alle spalle altri percorsi terapeutici, magari di altro orientamento. Si potrebbe pensare che arrivano in terapia con un senso di delusione di amarezza perché il fatto che essere di nuovo su quel tipo di poltrona dovrebbe essere la dimostrazione che non si è venuti a capo del problema – giudizio questo, socialmente molto persistente. La psicoterapia è quella disciplina che culturalmente vive uno stato di esame reiterato, di aspettativa scettica per cui, le si chiede la risoluzione totale di tutte le questioni più complesse, per poi trovare in eventuali delusioni la cronaca di una morte annunciata. E’ un fatto curioso, che fa capire come non si riesca bene ad afferrare da una parte lo stato di una disciplina in via di strutturazione e quindi la questione di un sapere che non si divide tra tutto vero e tutto falso ma tra cose ottenute e cose da ottenere, e da un’altra si fa fatica a sopportare quella che io chiamo la storicizzabilità del corpo psichico.
In medicina, sopportiamo – anche se a fatica – la storicizzabilità del corpo: ossia il fatto che il suo uso nel tempo e le esperienze materiali lo modificano al punto tale da portargli danni cronici, senza che per la mancata guarigione di quelli nessuno dica che la medicina è inefficace. Per esempio una persona beve molto e a lungo, il fegato ne rimane irrimediabilmente compromesso, compromesso in modo tale che se va bene dovrà prendere farmaci tutta la vita e essere più vulnerabile alle patologie e questo è un fatto. Vivi all’umido e al freddo e ti viene l’artrite e questo è un altro fatto, e via discorrendo. La nostra identità psichica va purtroppo incontro alle stesse trasformazioni dovute alle nostre esperienze storiche particolari, e tutti rimaniamo colpiti dal fatto che eh si può correggere un po’ il tiro, ma la personalità non cambia radicalmente.
Non si torna mai vergini.

Le psicoterapie sono incontri tra due soggetti storicizzati – in cui uno dei due ha trasformato la propria esperienza storica in esperienza tecnica. Questa techne si è focalizzata su un processo, su una serie di problematiche piuttosto che altre, su una classe di strumenti, su un tipo di sguardo. Grandi terapeuti hanno un vasto raggio esistenziale che copre anche romanzi lontani dal proprio o dalla letteratura su cui ci sono specializzati, ma ci sono ottimi terapeuti estremamente capaci su una certa classe di segmenti esistenziali. Per questo, soprattutto per persone che emergono da una vita e da un’infanzia di ripetute aggressioni al corpo psichico, o che hanno una genetica fragilità nello stare al mondo, o entrambe le cose, può essere comprensibilmente utile fare per esempio un primo ciclo di psicoterapia anche lungo magari con un collega uomo di formazione per dire, cognitivo comportamentale, e a distanza di anni, un ciclo con una collega di formazione psicodinamica. Ma ha più senso di quanto si creda anche affrontare due cicli di psicoterapia di orientamento psicoanalitico, prima con un uomo e poi con una donna, o prima con uno psicoanalista che lavora in un modo e poi con uno psicoanalista che lavora in un altro, i quali, pur provenendo persino dalla stessa associazione avranno un modo completamente diverso di stare in stanza in ragione della propria personalità e del proprio carattere. Il secondo spesso e volentieri, nota aspetti che il primo considerava meno rilevanti, e via di seguito.

Diverso è il caso invece di persone che avviano una terapia la portano avanti fino a un pezzo, e poi la interrompono a metà. Per poi decidere qualche anno dopo di voler ricominciare da un’altra parte. Si tratta di manovre per me, quasi invariabilmente autodistruttive e che si servono di un apparente sguardo razionale sulla realtà. Il quasi è determinato da quei casi, che ci sono certamente, di pazienti che si trovano male con il terapeuta o ne contestano il modo di operare, ma accade davvero di rado, perché di solito o un paziente si rende conto subito del fatto che non si trova bene con il terapeuta che ha consultato, oppure lo fa come dire troppo troppo tardi, magari perché guidato da terzi.

In generale però la situazione che si osserva con maggiore frequenza è che un paziente si è trovato bene, ha fatto una serie di apprezzabili progressi, e comincia magari a percepire un senso di noia, entra in una zona della terapia che è ripetitiva, e magari anche il terapeuta fa fatica a far fare lo scarto al lavoro a un livello superiore – oppure, ha ragione di credere che lo scarto debba arrivare a tempo debito, cosa che con pazienti con un mondo inconscio particolarmente devastato, che ancora occulta questioni molto dolorose e delicate, il cui emergere potrebbe mettere in pericolo il paziente, ha anche una sua ragion d’essere. In ogni caso, anche con una spiegazione esplicita, il paziente non si persuade, e chiude la terapia.

Di solito questi abbandoni non sono casuali, avvengono in parte in corrispondenza di elementi che emergono e che possono spaventare, per cui sono ricacciati lontano di nuovo, sotto le soglie della coscienza, in parte in ragione di una personale organizzazione relazionale con un Altro avvertito come potente, del cui essere benefico si fa fatica a fidarsi, a seguito del proprio modo di percepire delle relazioni di dipendenza. Allora si percepiscono vissuti di noia, ma anche di soddisfazione, di tranquillità – che sono però puramente difensivi, e che risultano tanto più sorprendenti quanto più si considera la gravità dei problemi che la persona aveva portato in consultazione e che ora sono per esempio semplicemente tollerabili e visibili ma ben poco sistemati. Le identità di chi fa questo tipo di operazioni possono essere diverse, non sempre ostili alla psicologia, anche se spesso – per forza di cose, presto o tardi ci diventano, perché le terapie non concluse sono come lavori a maglia senza nodo, spesso e volentieri si sfilaccia tutta la trama e l’ordito, e la persona, dopo qualche tempo si ritrova da capo a dodici, con lo stesso problema di prima, ma con meno risorse di quante ne avesse le volte precedenti, – anzi alla lunga rischia di diventare aspra, disillusa, cinica – e naturalmente è molto meglio essere aspri disillusi e cinici su qualcun altro, che su se stessi, o solo su se stessi.
Qualcuno – addirittura – ne trae persino una decorazione narcisistica. Ah non ne ho conosciuto nessuno – mi disse uno scrittore di un certo successo – che sia stato capace di trattarmi! Nessuno ha gli strumenti la disciplina non è disciplina.
Non gli veniva il sospetto che ab ovo era lui che non li voleva fornire. Come un paziente che non assumesse farmaci, pur essendo un caso ben poco originale, e andasse in giro dicendo che la medicina non ha fatto abbastanza progressi.

Di fatto in ogni caso, succede anche qualcos’altro difficile da spiegare. Può certo succedere che un secondo psicoterapeuta sia più adatto a un paziente di un primo. Persino un terzo. Ma c’è un problema e riguarda all’uso della narrazione della propria esperienza. Questo uso dell’esperienza è un’occasione preziosa e magica, che si serve di risposte emotive con qualsia lessico di scuola sia portato avanti. Funziona tanto meglio quanto più il lavoro su di essa produce uno scarto di stato d’animo, una risposta che non è solo pensiero. E questa cosa, succede molto bene con i grandi incontri, e magari altrettanto bene con grandi incontri alternativi, ma alla terza, quarta, quinta volta, il racconto si è deposto sul fondo, si è fatto maniera di se stesso, e al di là della autodenuncia di problematicità che implica una dichiarazione di molte terapie lasciate a metà strada, oramai quella narrazione di se è diventata una sorta di istrice moribondo. Una parte di se vitale che sta ferma, adagiata, che non è più capace di reagire, ma tiene comunque una grande quantità di aculei pronti a  ferire per difendere, il corpo psichico dell’animale straziato.

Ora, il clinico può subodorare, e sentirsi abbastanza forte per tendere la mano oltre la cornice di aculei schierati, in qualche caso ha anche successo. Però sarebbe opportuno non arrivare a questo stato, e tenere duro quando arriva, la grande tentazione della rottura, sopportare, resistere. E questo naturalmente è un compito che riguarda anche i terapeuti.
Perché un’altra osservazione che si può fare è che quando un paziente abbandona il campo, qualcosa sta succedendo alla relazione. In qualche modo anche il terapeuta o ha portato elementi suoi, o la relazione ha seguito cocciuta la sua condanna, oppure il terapeuta si è comunque lasciato trascinare, non è riuscito a fronteggiare una resa, oppure ha creduto che come spesso succede la terapia sarebbe ridecollata. Bisogna allora saper intuire anticipatamente i segni dell’accadimento prossimo – e mettere sul tavolo l’intenzione psichica di chiusura quasi prima che venga espressa – perché a volte, può essere troppo tardi.

Ci sarebbero magari altre cose da aggiungere, ma magari confido nel dibattito.

piccole cose

Stavo in macchina lato passeggero, davanti, una strada di alberi e acqua, un nastro liscio grigio e stretto, una macchina si ferma perché non sa se imboccare un sentiero sterrato, sarà quello o non sarà quello si capisce che si chiede il guidatore davanti a noi, noi dietro fermi un po’ col desiderio di sorpassare un po’ col senso del pericolo, la percezione della sosta incongrua da parte del guidatore davanti, dico ma non potevi accostare insomma eh mentre che decidi potresti provocare un incidente.
E poi penso a mio padre.

Perché mio padre aveva questo rapporto colla strada, probabilmente identico a quello del signore davanti a noi, un rapporto esemplificativo del suo rapporto col mondo d’altro canto, mio padre per esempio era solito fermarsi agli incroci e riflettere, vado di qui o vado di li, le persone dietro a suonare il clacson, i motociclisti a passargli intorno nervosamente, mio padre ancora più impassibile, anzi se ero con lui parlava del malumore degli automobilisti, del fatto che al giorno d’oggi nessuno ha più pazienza, papà cazzo deciditi, papà LA FRECCIA!

 

Perché corollario diretto della pensata dell’incrocio, era un uso rapsodico della freccia, episodico, umorale, Michele la freccia urlava mia madre, e quello dietro bisogna dire anche cose peggiori, e lui eh ma guardate proprio ora ci stavo pensando, mi stavo decidendo posso raccontarvi una barzelletta? Perché a mio padre, di comunicare al mondo dove sarebbe andato non aveva né interesse, né intenzione, anche il suo mondo interno era a noialtri in macchina, noi intimi, assolutamente blindato – non era comunque un bel mondo – e a tutti riservava questa affabile zona intermedia di ansia e ironia, di angoscia commestibile e levità gentile, mentre sotto le fronde e i fiumi e i laghi del suo elegante e svagato stare al mondo, c’era la nascita feroce, la depressione aspra, e tutta una serie di fantasmi muti, e imprigionati.
Tuttavia

Tuttavia veleggiava e conveniva lasciargli lo spazio di una manovra che lui altrimenti non avrebbe mai considerato opportuno calcolare. Le occasioni in cui codesto calcolo gli era rigorosamente e senza scampo imposto, i parcheggi, le ricordo con nausea e angoscia per l’uso spasmodico, iracondo – per quanto questo potesse attenersi alla sua persona – delle marce, e dei freni. Nel parcheggiare mio padre costringeva la macchina a dei balzi furiosi, a delle impennate, a dei sofferenti singhiozzi, grazie ai quali riusciva evitare di ammaccare il paraurti di quello parcheggiato tre metri dietro a lui. In ogni caso, la macchina, avrebbe avuto metà del culo di fuori.
Mia madre avrebbe detto Michele, con riprovazione, lui avrebbe fatto spallucce.

E niente. 
Poi la macchina e partita, e tutto non è ritornato come prima.

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La terza moglie

 

Di tutte le mogli quella a cui la realtà costringe uno sguardo più severo è la terza. La prima infatti conserva il sogno del primo amore, e anche la carezza dell’errore ingenuo, la seconda quella dell’amara ma orgogliosa consapevolezza e la fa almeno pettinare con fierezza -l’ultima sarà quella a cui la vecchiaia e la morte, regalerà la consolazione di una romantica bugia.
Mi ha amato fino alla fine dei suoi giorni.

La terza ora lo guarda, il suo patriarca di una carovana di cani gatti canarini e tartarughe, il padre fratello di bambini non suoi, domatore di balere di provincia, esteta del liscio, virtuoso del caschè, il più galante con le vecchie di paese, il più paziente con le bimbe del belvedere, un uomo sempre con una rosa in mano o un prosecco, un pensiero, un vagheggiar qualcosa che gli manca.

Le comari la guardano scuotendo la testa – alcune dal lato della riprovazione altre da quello dell’indulgenza: il dibattito si dipana intorno al dilemma tra l’ascissa dell’amore e l’ordinata dell’autodistruzione. Il campo più malefico s’è le scelto di certo la terza moglie, concordano tutte sulle sedie di plastica intorno alla pista da ballo, c’è la festa del santo patrono. Fa molto caldo e si sventolano guardandola,mentre sta discosta dal corpo di lui, assorta, bellina sull’orlo della sfioritura, la magrezza di quelle che volevano un figlio ma s’è fatto tardi, e neanche l’impennata di un’ambizione professionale.
Terza moglie pure nella carriera, dice la meno vecchia e più cattiva.

(Ma la terza moglie è una sopravvissuta a leoni che le comari non conoscono. Ha visto ospedali, malattie, s’è seduta con la morte, se ne è lasciata accarezzare, quasi abusare, nell’imprevisto intervallo di una tregua, per un romanzo man mano sempre più impietoso. Infine, s’è vista arraffare da questo vento di leggerezza, di facilità, quando tutto doveva essere perduto. La terza moglie s’è regalata un fotoromanzo quando quello prese a corteggiarla fanfarone e teatrale, a cantare di rose rosse sotto alla finestra, a spostare sedie come in una piece teatrale, che tutti vedano la scoppiettante galanteria, e barzellette e regali e cesti di frutta – e certo, anche lenzuola

 Tutti,  ma soprattutto se stesso, il primo beneficiario delle sue generose prestazioni. Non vorrete mica che mi sposi una quarta volta! Dice ora l’eterno marito ridendo con altri maschi – eroticamente più pigri, più d’uno cocciutamente monogamo, qualcun altro approdato a una bigamia ordinata come la spola di una tessitrice, qualcuno infine solo come un cipresso sul ciglio della strada, e vecchio di vento e di fatica. Le comari allora registrano la crudele levità – trattata come una cosa qualsiasi proprio! come una macchina!
Nel mentre lei chiude gli occhi, e si sente cinica, materna, viva.

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Memorie di una lettrice perbene. Su “l’amica geniale” di Elena Ferrante

 

Ho un ricordo distinto legato all’ingresso nel piacere di leggere. Ero in treno dovevo avere circa tredici anni, e andavo a Torino, uno dei miei primi viaggi da sola. Leggevo i Miserabili, ed ero arrivata a quel punto in cui Javert deve fare i conti, con il fatto che Jean Valjean l’ha salvato. Quel passaggio, mi commosse terribilmente e mi ritrovai da sola a piangere calde lacrime nello scompartimento. Il controllore arrivò e mi interrogò preoccupato. E io mi trovai a capire e a spiegare che stavo piangendo per via di un libro, per via di Victor Hugo, e neanche per un passaggio romantico o sentimentale, anche se – e questo ci doveva entrare molto, i Miserabili è davvero un romanzone romantico e sentimentale – tuttavia piangevo per l’acquisizione del grigio, dell’ambivalenza, della dolorosa confusione sul piano morale. Mi ero immedesimata nel povero quanto cattivo Javert, di cui era evidente la buona fede, e la stolida, forse, adesione a un codice etico che ora si dimostrava inaffidabile e traditore. Ma certo, piangevo anche perché ero intrisa dell’atmosfera e del romanzo, della Francia del tempo e piangevo perché mi ero affezionata a dei personaggi mitici, la piccola Cosette, ma anche a quelle vie, a quelle case – a quelle barricate.
Imparai allora una prima regola del buon lettore, secondo cui, quando trovi un romanzo che ti piace molto, ed è molto lungo, hai trovato un posto dove sei felice a cui sei grato perché ti ci puoi accomodare.

Quel tipo di commozione, quel tipo di piacere puerile non è poi stata una costante nella lettura, ed è tornato solo a tratti, non sempre in corrispondenza di prodotti di grande qualità, ai quali invece è spesso corrisposto un godimento diverso più meditato: si cresce, e si comincia a chiedere ai libri anche altre cose, le quali raramente si presentano tutte insieme. Spesso ho ragionato su questo insieme di richieste, o almeno sulle mie, lettrice forte e discretamente esigente. Io so di fare delle richieste agli scrittori che incontro, diciamo ad altezze diverse: una prima altezza riguarda la pasta del linguaggio, una seconda altezza, riguarda l’invenzione di un mondo che non c’è , una terza altezza la comprensione di un mondo che c’è, una quarta altezza riguarda – un tentativo di visione del mondo. Vuol dire che come lettrice forte, chiedo agli scrittori: di lavorare sulla qualità della loro prosa, e quindi di restituirmi una prosa mediata, e lavorata, di decodificarmi realtà che mi sono vicine oppure lontane (e qui quindi rientra la qualità anche della descrizione di luoghi e personaggi) di inventarsi un recipiente, un’atmosfera, un contesto, un mondo, e nei casi più fortunati di intessere la propria scrittura di un tentativo di pensiero del mondo, ossia – un tentativo sotterraneo di dire qualcosa di filosofico, tramite una trama: un tempo si diceva una weltanshauung. Nel mio approccio forse dilettantesco del pensare alla letteratura, sicuramente cioè extra accademico, un autore eccezionale è un autore che satura tutte queste grandezze, un grande autore è uno che riesce nella maggior parte di esse.
Quando ho cominciato a leggere l’amica geniale, ho in primo luogo ripensato al mio rapporto con Victor Hugo, al tipo di piacere che mi aveva dato lo stare dentro ai Miserabili – con cui ha davvero tanti contatti in termini di contenuti e di struttura: la struttura del feuilletton, la vicenda di un bildungsroman nei termini di un’ascesa sociale dalla miseria alla nobiltà, la storia di un individuo e di una serie di relazioni come occasione per parlare della storia di un paese, la Francia di allora come la Napoli di adesso, lo sguardo sull’emozioni private, sul sensibile femminile, ma allo stesso tempo i continui confronti e ribaltamenti sul piano dell’etica, e sul piano per usare una parola antistorica e fuori luogo, del conflitto sociale e della lotta di classe. Ma soprattutto, come con Hugo, io ho provato un senso di divertimento, un’immersione, un desiderio di stare con il libro, che da tempo, sempre inseguendo fruizioni celebrali della parola scritta, avevo perduto.

Tuttavia, più sono andata avanti nella lettura, e più mi sono resa conto che sull’impianto della costruzione di trama del feuilletton con dentro tutti i suoi possibili epigoni televisivi e soap operistici, venivano saturate quasi tutte le altre grandezze che sono per me importanti in un romanzo: il ritratto di un mondo, la comprensione di un mondo, e persino – cosa che con mio disappunto devo dire incontro davvero raramente – una visione del mondo: tragica, filosofica, ma solida. In misura minore anche una prosa piacevole, anche se forse – e su questo tornerò dopo, troppo poco lavorata, troppo agile, troppo esile. Tuttavia, con questa prosa domestica, facile, difettosa, non sono mancati passaggi molto belli e ben scritti, e momenti narrativi di grande capacità simbolica.

Non mi interessa qui, ripercorrere nel dettaglio le vicende della tetralogia. Due donne nascono in un rione popolare di Napoli, Lila e Lenuccia, entrambe molto brillanti e intelligenti, e in virtù di queste spiccate qualità del carattere e della personalità faranno ognuna un’ascesa a suo modo, entrando e uscendo nella profondità del l’origine, dove sono nate – un sottoproletariato poverissimo, senza scampo (e mitico: nella distanza che c’è più che dalla concretezza del paese, dalla concretezza dei lettori di romanzi oggi). Lenuccia, l’io narrante, porta avanti gli studi, diventa una scrittrice di successo, attraversando relazioni ed ambienti sociali sideralmente distanti dalla Napoli sottoproletaria dell’origine. Lila smetterà di studiare prima, rimarrà socialmente dove è nata Elena, ma farà esperienza di diverse imprese importanti nell’imprenditoria, nella fabbrica, nella nascente informatica. Forse il cuore dei libri è nel rapporto delle due, nello sdoppiamento che rappresentano, in ciò che sono l’una per l’altra e in ciò che l’una deposita, nell’altra – quella gli stati emotivi, l’altra l’intelligenza delle cose. Si potrebbero scomodare categorie psicoanalitiche, e parlare del romanzo di un’identificazione proiettiva, dove abbiamo la storia di una lunga relazione tra donne dove una mette aspetti di se a operare nella vita dell’altra – non a casa il libro finisce, con l’emergere dalle brume del passato, incongruo e poetico, delle bambole con cui giocavano da bambine. Ma io per una volta, non vorrei parlare di questo, né dei numerosi spunti psicologici o psicodinamici che offrono quattro libri che sono un continuo germogliare di plot, e quindi di possibili riflessioni sul funzionamento psichico, su sentimenti stati d’animo e costellazioni familiari, perché quello che mi ha interessato nel lavoro di Ferrante, è la funzione di dispositivo cognitivo che il rigoglioso emergere di passioni asprezze e innamoramento svolge nel romanzo e nella sua fruizione.

Il plot emotivo infatti, la rutilante successione di colpi scena relazionali, stati d’animo travolgenti, semantiche di vita privata, sono la chiave di accesso per fare, una storia privata della politica italiana, una storia delle vicende che hanno fatto la trasformazione del modo materiale di vivere delle persone e di come vicende macroscopiche hanno agito sulle vite microscopiche, e in particolare sulla pulviscolare organizzazione delle famiglie, della vita delle donne e delle persone. A ritroso, proprio per questo a me, il volume che mi è piaciuto di più è forse il terzo, perché il volume in cui al centro ci sono le vicende del terrorismo, del femminismo e della lotta di classe, il volume in cui si racconta della relazione mai funzionante tra classe operaia e mondo intellettuale, la parte in cui si disvelano ipocrisie che la sinistra bene, ma diciamocelo soprattutto quella che spererebbe di essere la sinistra male, ma a conti fatti rimane sinistra bene, spera sempre di non vedere, raccontandosi empatie con le richieste sociali e la vita di chi le avanza che sono sempre cartacee teoriche, e che non riguardano le scelte pratiche di vita. Le persone che si frequentano, le donne e gli uomini che si decide di sposare, le famiglie in cui si decide di entrare, e da cui far arrivare dei figli: Lenuccia fa con Pietro il complicato matrimonio interclassista che tutti danno per scontato sulla carta, ma su cui ben pochi si esercitano a tutt’oggi nella prassi.

Si tratta di una strategia non nuova e anzi, nel solco della storia del romanzo. Tuttavia secondo aspetto che mi interessa e che secondo me determina non poco le reazioni che ha suscitato il successo della Ferrante, è che questa centralità della storia minima dell’Italia, è una centralità femminile, il bildungsroman è la formazione di due donne, con le vicende a cui sono andate incontro le donne: quando sono andate in Normale e quando sono andate in fabbrica, quando le hanno menate e quando le hanno lasciate con i figli e senza alimenti, quando hanno avuto il carisma e il potere e quando sono state punite per il carisma e il potere, in questo mi è sembrato un romanzo genuinamente femminista, originalmente femminista specie per gli standard italiani – meno per le abitudine letterarie d’oltreoceano. In ogni caso, questo bildungsroman femminile, è tanto più interessante perché spiega e dispiega la costruzione etica del femminile, il modo delle donne di costruire il proprio sguardo morale e politico, che passa dal materno e dalle relazioni. E ora che ne scrivo, mi ricorda molto un importante lavoro della psicologa statunitenste Carol Gilligan  Con voce di donna, tradotto in Italia nei lontani anni 80′, e che riguardava la strutturazione del pensiero morale del femminile, le sue categorie idiosincratiche, e i modi in cui si costruisce.

Forse proprio per questo, mi ha molto divertita il fatto che una grandissima moltitudine di uomini l’abbiano letta con divertimento piacere e stima, salvo poi quasi essere sbigottiti, arrabbiati o imbarazzati per scoprirsi sedotti da qualcosa che è in se così profondamente non maschile nel raccontare le logiche anche di ambiti e sguardi solitamente maschili. Un mio amico qualche giorno fa – uno con cui condivido interessi come Houellebeque o Carrere, mi ha prima detto: l’amica geniale è una roba per donne mitomani e frustrate. Quando gli ho ricordato che si era bevuto tutti e quattro i volumi con voracità e soddisfazione benchè lui no non sia una donna mitomane e frustrata, ma un solido padre di famiglia, ha ammesso che era vero ed era evidente quanto fosse sorpreso da se stesso. Ha aggiunto, in effetti – oltre mitomani e frustrate, anche brillanti. E insomma nei vari dibattimenti della critica, mi è parso anche, di vedere il maschile in difficoltà per scoprirsi immerso in un tipo di godimento per un verso, e di comprensione della realtà per un altro, tipicamente femminile. Femminile in un senso reazionario e premoderno del termine, che magari ora non esiste più da solo, non è più così graniticamente fisso e opposto al maschile ma che si c’è sempre stato e continua a sopravvivere nel modo di affrontare la realtà di molte persone ancora oggi.

D’altra parte, anche se volendo politicamente, o filosoficamente non so se sono d’accordo, premoderna, ma con una consapevolezza gentile e quasi tragica è tutta la visione del mondo che sottende il romanzo e che diventa chiara in due passaggi per me esemplari. Il primo, quando la cognata di Lenuccia a una serata in cui parla del suo libro femminista cortocircuita la sua lita con la madre e i contenuti del libro concludendo: una donna che non ama la sua matrice è una donna perduta, il secondo nella triste vicenda del bellissimo personaggio Alfonso, omosessuale con ambizioni transessuali che morirà in circostanze non chiare. Alfonso nel periodo prima di morire, era quasi perseguitato dal suo maschile originario che lo perseguitava, riaffiorando nei tratti somatici a cui condanna la vecchiaia. Tutto il lavoro, ruota cioè sulla dialettica tragica, di emancipazione dalla condanna dell’origine, che può funzionare solo, e mai del tutto e sempre a costi elevati, con un ritorno all’origine. Elena Greco nasce nella miseria, ma non se ne salva finché si nega la relazione con il suo passato. Salverà se stessa e le sue tre figlie, quando alla sua origine farà ritorno, quando con la sua madre, la sua matrice farà pace, la madre zoppa, ignorante, ma lungimirante e intelligente. La madre malata e senza speranze, che però è stata capace di generarla. E quindi la madre, ma anche il rione, ma anche Napoli.

Non sono le uniche cose interessanti queste, de l’amica geniale, ma sono per me abbastanza per sentirmi grata a uno o più libri – senza necessariamente arrivare ad adesioni ideologiche – sono grata all’autrice per avermele messe sul piatto, per avermele rese godibili, per avermi fatta divertire in maniera quasi puerile, in una fruizione apparentemente non intellettuale del testo. Forse, questo effetto è stato garantito proprio da quello che le viene più rimproverato: una qualità di prosa non sempre spessa, che nella sua estrema fluidità appare non scarna, ma parlata, qualunque – non impressionante. Ho in mente diversi autori italiani che in tempi anche recenti mi hanno regalato un piacere estetico nella pasta del linguaggio di gran lunga superiore ai sentimenti che mi ha suscitato la qualità del lavoro di Ferrante. Uno di essi, proprio perché mette insieme tutte tutte le mie domande al romanzo arriva all’eccezionalità. Gli altri però magari, con il buon linguaggio parlano gran bene del proprio ombelico, del proprio mondo, della propria generazione, del proprio problema. E’ davvero la somma qualità estetica del linguaggio la prima e unica priorità di una letteratura interessante? O una buona prosa, non eccezionale che però fa tutta una serie di operazioni se non eccezionali rare nel nostro panorama non ha diritto ad uno scranno?

Appunti

Era stata l’amica geniale di tante, ma forse geniale non era la parola opportuna. Aveva sempre avuto una brillantezza né cattiva né efficace, non stupiva nessuno nel senso dell’altezza e neanche del livore, non era stata cioè particolarmente cattiva o o intelligente e d’altra parte neanche buona. Invece era stata goffa, irriducibile, eccentrica, libera ossia per necessità più che per vocazione. Risibile e invidiabile insieme, sul bordo delle cose sempre, ai confini degli assembramenti e delle dialettiche quotidiane, sempre in ritardo sulla maggioranza, ma sempre in tempo per l’ultimo treno.

Esplorava vie laterali, e nascondeva il timore per le strade maestre con una complicata supponenza, una falsa svogliatezza – allo stesso tempo provava un senso di genuina scomodità nelle sedie tutte uguali. A un senso di inferiorità verso le cose banali e condivise, corrispondeva una sensazione di autarchia che compensava – anche eccessivamente tutte quelle incertezze. . A scuola ebbe voti mediocri, un lungo sentiero di aspettative tradite, cappelli ridicoli, pochi amici, fidanzati guadagnati con ambivalente fatica. In generale un cattivo rapporto coll’ambizione. Ma non aveva mai avuto bisogno di essere cattiva.

La sua posizione di periferica indigeribilità, vestiti sbagliati, discorsi blandamente afferrabili, fughe e rientri sull’orlo del confine, quel che di incongruo che un po’ era errore un po’ tesoro di provincia, la rendeva invece il porto sicuro di chi abitava quella stessa periferia esistenziale, ma in modo più lugubre sgraziato – o di altri altri che invece accomodandosi al centro dei cortei, nella zona più candida del gregge, se la mettevano vicino al banco, all’altro capo del telefono un po’ per avere una boccata di colore, un po’ per rassicurarsi della comodità di una scelta mansueta. La sua indigeribilità sociale, era il balsamo per la paura altrui della propria irrilevanza, la sua resistenza sul confine la speranza di chi se ne stava allontanando,.

(Ma anche, la rabbia sotterranea. Gente malconcia che s’affondava nella droga, nella depressione, che lambiva gravi dissolvenze senza ritorno, cercava di tirarla in basso dalla sua parte, di farla ammalare. La rimproveravano la ricattavano, se la tiravano appresso, allungavano le mani per farsi salvare ma parte della malattia era tirarla giù con loro).
Col tempo avrebbe trovato un posto, e tutto quel nevrotico sciupare il tempo sarebbe diventato un metodo, una risorsa, una difesa, un mestiere.

Rebecca

 

La prima volta che la bambina, 4 anni capelli rossi e un modo sufficientemente piratesco di guardare alle vite e alle cose – quasi si potrebbe dire rapinoso, parlò al padre della sua amica Rebecca, disse solo che aveva i capelli lunghi e neri, e che era simpatica.
Poi che aveva dato un cazzotto a Vittorio. Il padre aveva sorriso, a però aveva detto, forse perché il cazzotto a meno di quattro anni è gratuito come i viaggi in treno, forse perché quello delle bambine è più lieve e gentile, e insomma. Che tipino Rebecca!

La seconda volta, la bambina coi capelli rossi aveva spiegato che oggi, Rebecca, non solo aveva toccato e preso in mano i vermi dei bambini della scuola – e la madre aveva avuto un momento di vertigine, di angoscia e sperdimento – ma uno lungo così! Mamma – lo aveva proprio direttamente mangiato. Nel raccontarlo, la bambina rossa, provava un’evidente stima e ammirazione per l’amica Rebecca, e anche un precoce senso di orgoglio e appartenenza, come se avere questa amica Rebecca che fa queste cose estreme, dicesse qualcosa sulla sua persona, sui suoi valori, sulle sue priorità – tra cui si annoverava dunque un certo disprezzo per le convenzioni, per le puerili gerarchie delle donne adulte, una necessaria valutazione obbiettiva del rischio.

Tuttavia col tempo, con passaggi impercettibili che dalla narrazione conducono alla finzione, passo passo, aneddoto su aneddoto, trasfigurazione su trasfigurazione, la bambina rossa aveva trasformato l’amica Rebecca in un personaggio magico, narrativo, magnifico, fumettistico, iperbolico, letterario. Nuove e meravigliose leggende emergevano ogni giorno su Rebecca, solitamente corrispondenti divieti e pericoli. Mamma ma sai che Rebecca ha mangiato solo gelato al cioccolato per una settimana intera? Giorno e notte! Sai che Rebecca si è buttata dal quarto piano e non si è fatta niente! E ancora, Rebecca che mangia troppi dolci sale in macchina si sente male, ma sputa tutto dal finestrino! Rebecca che mette tutti ragni nel piatto del fratello, rebecca che si lancia con il paracadute dall’elicottero (quest’ultima prodezza di Rebecca, viene raccontata dalla bambina coi capelli rossi dandosi un colpo alla testa! Come a dire, ho amiche che fanno cose estreme ma sono anche un po’ troppo pazze, irresponsabili, o semplicemente stolte e poco lungimiranti perché a lanciarsi col paracadute dall’elicottero è evidente che ci si espone a un rischio eccessivo, e come a far sapere dunque, che lei, la bambina rossa, non sarebbe mai così sciocca).

In ogni caso, la famiglia tutta della bambina Rossa beneficia dell’esistenza di Rebecca e della sua trasfigurazione a fumetto, è motivo di risate e di coagularsi di lessico familiare. Se sparisce qualcosa è chiaramente colpa di Rebecca, e anche se si rompe qualcosa. Se c’è qualcuno che taglia la strada al padre con la macchina, si rimpiange l’assenza di Rebecca, e anche quando qualcosa va storto alla mamma, si auspica l’intervento di Rebecca. Si costruiscono racconti allora su cosa farebbe Rebecca in simili frangenti, e si moltiplicano personaggi narrativi che potrebbero tornare in altre occasioni.

La madre della bambina rossa, aspetta nel frattempo il momento in cui potrà spiegare come tutto questo ha a che fare con la genesi della letteratura.

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Note su “Open” di Agassi

 

Dunque. Ho finito di leggere ora Open, di Andrè Agassi. Un libro che mi è piaciuto molto, che ho trovato nel complesso onesto, anche nei difetti e nelle ingenuità. Mi ha permesso di fare una gita su Marte, cioè presso vite contesti e logiche che mi sono del tutto estranee. Dai, lo facciamo? Pare dire ogni tanto Agassi alla moglie Steffi Graf, e lei fa la ritrosa no, non so se ci ho voglia, dai ti prego fai lui più eccitato – e vanno a giocare a tennis (con mio sgomento). Tuttavia, essendo il racconto di una vita che mette insieme episodi e riti salienti con risultati e modi di ragionare, mettendo sul tavolo piccole e grandi criticità di chi scrive, al di la di certi passaggi secondo me genuinamente efficaci sul piano narrativo e poetico, genuinamente ben rinarrati, è un libro che spiega molto bene come certe vicende portano a certi funzionamenti psicologici, e a certe gravi difficoltà. Open, a mio giudizio è fondamentalmente un ottimo caso clinico, e anche devo dire un grande esempio di cosa si può fare nella vita per raddrizzare un esordio così infelice. Offre lo spunto per molte riflessioni che ora voglio mettere qui, spero in un ordine non troppo sconclusionato.

 

La biografia di Agassi ha colpito molto per esempio, per quello che racconta della disciplina paterna nell’educarlo al tennis. Questa cosa della grande disciplina precoce, è una variabile frequente presso le elite di molte competenze sportive e non. C’è anche nella danza per esempio, e tra i virtuosi della musica. C’è in questo una ragione credo neurofisiologica: la stessa per cui non puoi diventare un gran campione se accedi a una disciplina relativamente tardi tipo che so – 13 anni. L’uso del corpo in un certo modo, il funzionamento neurologico che gli corrisponde, è una cosa che si sviluppa col corpo: lo sportivo che ha cominciato presto a correre, o a giocare è uno cioè che ha una mappatura sinaptica tutta sua, diversa da chi nella prima infanzia ha sviluppato altre competenze. Perché questa cosa succeda, il meccanismo mente corpo deve essere sollecitato a una richiesta costante e martellante. Può non piacerci tanto, non penso che lo farei volentieri ai miei figli, ma è decisamente coerente con i valori del nostro contesto culturale e almeno in astratto non è un comportamento che produce risultati gravemente patologici. Se per esempio il genitore invasato dallo sport intercetta o si orchestra con la prole – o passa naturalmente il testimone (nell’ambito della musica capita davvero molto spesso – pensate alle stirpi di musicisti) anche insistendo molto sulla disciplina potrà essere severo, magari nevrotico, magari nevrotizzante – ma credo che ci sia un modo di esigere nevroticamente questo meglio facendo dei danni di medio raggio. Cioè facendo del futuro campione una persona con delle problematiche ma che per esempio si senta amata, in diritto di essere amata e in diritto di vincere.

Ma il problema del padre di Agassi è che non si limitava a imporre precocemente un’attività – ma di usare il bambino per delle ambivalenze mortali, un uso borderline dell’infanzia che avrebbe meritato l’intervento forzato di qualcuno. Tutti si sono tanto impressionati della macchina spara palle che Mike Agassi si è inventato, io ho pensato invece che razza di padre è uno che al figlio bimbo dice cose come hai un ferro di cavallo su per il culo, oppure simula un suicidio per risolvere il mal di schiena poi il figlio accorre terrorizzato e quello lo piglia a parolacce. Anzi, se volevate sapere cos’è un trauma è esattamente questo. E solo questo ultimo racconto della abitudine del padre di Agassi di appendersi a una cappio al collo per risolvere il mal di schiena meriterebbe un articolo a se. Io padre, abitato da una grave depressione e da un’ossessione di morte la insceno per esorcizzarla, per esorcizzarla tratto anche malissimo te, figlio mio che devi essere erede dei miei sogni di integrazione e riscatto di corpo e di classe (come è più borghese il tennis della box! Come è più genuinamente ariano e occidentale!) e quando tu mi credi, e accorri a me terrorizzato pensando che io mi stia suicidando io dico, che cazzo hai capito stronzo – e ti maltratto mostrando di disprezzarti. E – sotto testo – ti dico anche, beh il pensiero di morte è tutto tuo, sei tu che vuoi morto tuo padre, che merda sei, io stavo col cappio al collo per il mal di schiena, tu bambino sei una brutta persona.

 

La capacità patogona di questo aneddoto, sta anche nel fatto che ha esemplificato l’infanzia di Agassi e la sua relazione con il padre: mi è sembrato che il povero Andre fosse in una relazione violentemente schizofrenogena, in un doppio legame che gli è rimasto tutta la vita addosso. Devi giocare a tennis perché devi farmi contento ma se giochi a tennis mi vedrai infelice. Devi risolvere il mio desiderio ma contemporaneamente io ti chiedo di non risolverlo mai. Per cui se perdi mi incazzo perché mi hai frustrato narcisisticamente. Ma anche se vinci incazzo, perché non sei come voglio io – in teoria più vincente, ma in realtà più perdente. Io Mike Agassi non sono abbastanza sano, a mia volta per tollerare di vedere un figlio sano, per fare quello che Zoja con genio ha identificato con il gesto di Ettore: prendere il figlio idealmente e tenerlo più in alto della propria testa, dirgli che vuole che vada dove lui non è andato.
La lunga ombra di questa vicenda psicologica è in un campione sotto di almeno un terzo, sempre delle sue potenzialità, in maniera di cui non so neanche quanto lui sia stato, con tutto il libro davvero cosciente. Ma Agassi poi è diventato uno che arriva in finale e si sconcentra. Arriva in finale e s’è fatto la sera prima. Arriva in finale e mannaggia il panino col pollo. Arriva in finale eh ma Pete nze batte. Arriva in finale e ci ha la schiena che gli fa male, i crampi tuo cugino. Mi sono molto arrabbiata con Mike Agassi in tutte quelle finali abortite. Ho un controtransfert piuttosto operativo e lo tengo a bada soltanto ricordando che con ogni probabilità i padri dei nostri pazienti potrebbero essere spesso anche se non sempre, pazienti a loro volta. E sicuramente dietro ogni orco, c’è un bambino senza porte aperte. Ma quando il giorno prima della chiusura della carriera di Andre, quello va da lui e gli fa, non giocare ritirati fermati qui – non reggerei, io leggevo che non è che non reggesse la tensione, quello non reggeva il successo del figlio. Ha brigato una vita perché quel poveretto fosse un eterno secondo, uno che potesse stare a ridosso del campo ma non svettare. Uno che al momento cruciale non doveva portare a termine la lotta edipica e mettersi al centro della scena e della sua vita. Che tutto ciò sia avvenuto alle alte vette del pantheon tennistico non vuol dire che non sarebbe successo ugualmente se Agassi si fosse dedicato alla carriera accademica, o al marketing dei coltelli da cucina. Se comunque è stato un grande campione, una parte è stata dovuta al grande allenamento, una parte a quella roba li che si chiama incredibile talento.

In questa relazione patologica la madre di Agassi ha fatto forse poco. Non ha mai difeso Andre, almeno stando al libro, comprendendo anche le ferite profonde che avevano fatto del padre l’uomo insopportabile che è stato e presumibilmente è ancora. In Open si parla molto poco della madre e delle figlie femmine della famiglia, un poco a cui io ho fatto caso e che fa aprire a delle congetture: non so se dovuto al desiderio di proteggerle, o a un tipo di infelictà che ha dell’incomunicabile, o a entrambe le cose. Tuttavia credo che sia stata capace di fare da base sicura, e di permettere al figlio di concepire una relazione col femminile sufficientemente buona da permettergli non solo di sposarsi, ma di indovinare – in seconda battuta – un buon matrimonio. E trovo molto interessante, che questo secondo buon matrimonio sia stato con una donna forte, una grandissima campionessa, campionessa Stefanie Graf che ha vinto molto più di Andrè nella sua carriera tennistica. Magari non durerà tutta la vita, ma la sensazione che arriva dalla biografia, dalle interviste e dalle foto, è che ci sia un aggancio autentico e che Stefanie -che viene da una famiglia nevrotica ma non disfunzionale grave come quella di Agassi – incarni bene le parti interne che Andrè poteva guarire, sviluppare. Lei lo capiva e lo capisce ma sta un po’ meglio di lui, è sempre stata – spero si capisca l’uso metaforico della lingua – una malata meno grave che può guarire un malato grave. Grosso modo la condizione ideale di molti psicoterapeuti.

 

Il libro comunque interessa anche per l’esemplareità di certi comportamenti che noi comunemente decodifichiamo come adolescenziali. L’estetica egocentrica, l’atteggiamento sfidante le autorità, il vestirsi infrangendo le regole, quei capelli che anche all’epoca, trovavo di una bruttezza sconcertante. Mi ha molto interessato la pratica di disvelamento che Agassi ha applicato rispetto alla sua immagine pubblica, alle motivazioni che gli addebitavano i giornali, le cose che faceva da ragazzino e la confessione del reale perché dell’adulto che ne scrive. Mi ha interessato perché ben in grande e visibile a tutti c’è una dinamica di lotta per la vita che molti adolescenti mettono in atto, con la strumentazione di bordo che offre l’età e il momento storico e culturale, con tutti i fraintendimenti che questa lotta crea.
Andrè infatti viene messo in un collegio – rustico e per lo più trucido, inadeguato – dove si sente abbandonato e lasciato in balia della caricatura dei sogni paterni. L’accademia di Bollettieri, è la versione smandrappata del sogno americano: disciplina giovinetti studiare! Cazzi vostri! Il luogo di ispirazione dei più peracottari film di cassetta americani, la patria di legioni di forrest gamp la legittimazione dei più perfidi pregiudizi eurocentrici: un posto di disciplina stolida, di totale epurazione del femminile e del piacere, di ormoni e cazzotti allo stato brado. L’America secondo un iraniano poraccio insomma. Una buona metafora direi, quasi cinematografica, di certe famiglie arcaiche e fallocentriche, col papù ammiraglio o militare, e anche un pochetto alcolizzato, che tira fuori la cinghia e non conosce un libro. A queste atmosfere pedagogiche ed emotive, gli adolescenti reagiscono in due modi: o stramazzano di depressioni gravissime e senza ritorno, che possono esitare in gesti tragici, oppure inscenano un attacco costante alle pareti, un modo di sopravvivere contrapponendosi, in una maniera che da sfogo a un senso di disperazione ma anche da una conferma sociale che occulta le carte. Sono i regazzini che poi a scuola rispondono male ai professori, si fanno bocciare, e le femmine vanno pazze per loro. A buon diritto, stanno male, fanno cose sbagliate, ma dimostrano che il maschio è sano, è vivo, si contrappone, non cede.
Certo caro gli costa: Agassi ha la terza media mi pare. Tutti gli altri non diventano campioni mondiali di tennis.

In ogni caso : il mondo sta appresso alla lettura che vuole il sintomo: cioè leggono solo il ribellismo e il narcisismo, dopo tutto è un ragazzo giovane, si divertono con la sua prova di forza – come sempre è un comportamento eccentrico – nessuno riflette sul fatto che per quanto molto smart un comportamento eccentrico ( i pantaloncini rosa signore iddio – meno male che poi ha sposato una tedesca che a’ ste cose non ci fa caso) è segno invariabilmente di una grave e dolorosa lotta intestina, di un dibattersi tra il farsi vedere e il non farsi vedere affatto. Agassi ha cominciato a stare bene, non quando è andato in terapia. Quando si è tagliato quegli improbabili capelli. Quando cioè ha cominciato a ritirare le messe in scene legate alla battaglia nevrotica e si è messo a stare male sul serio.

E di questo credo che bisogni riconoscere il merito della spumeggiante, e forse non tanto superficiale Brook Schields, disegnata credo non proprio lucidamente, vi avverto delle unilateralità e delle mancanze non so. Non era un buon matrimonio, non era il momento psicologico per entrambi di sposarsi – c’era forse un gioco di specchi di difese che Agassi nel libro non riconosce (Brook che pensa ai gioielli, alle case, ai posti belli – rimproverata con savonarolesco disappunto, quando il medesimo Andrè all’epoca era più cazzone di lei, come prova l’incredibile appartamentino che si era comprato, e certi belli completini con cui andava a giocare. E’ l’età lo capisco – è il contesto, ma dare la colpa all’attrice bella, insomma. ) Fatto sta che è stata lei a dire: stai male, sei una rosa in un cesto di rovi, devi fare qualcosa per te, non raccontiamoci sciocchezze. Lo dico perché sempre a parlare di casi clinici, è interessante considerare come nella vita capitino a tutti, anche a me che scrivo, delle figure affettive che hanno fatto qualcosa di importante per la nostra psiche, che ci hanno curato. E credo che con le donne Agassi, in entrambi i casi è stato fortunato. Così come è stato fortunato a conoscere le persone che hanno costruito il suo antourage.
In particolare, mi hanno veramente commossa, le pagine riguardanti Gil, e la sua famiglia. Il fatto che Agassi piccolo potesse andare, arruffato e ventenne a casa loro a natale, e mangiare normale e dormire li. Il fatto che Gil lo allenasse e cazziasse e rimproverasse e dicesse: mettiti sulle mie spalle e prendi le stelle. Qualcuno doveva fare il gesto di Ettore, e Andre ha fatto in tempo a trovare uno che glielo facesse al posto del padre. E questo gli ha permesso di prenderne diverse. E’ stato un grande campione.

Credo infine, che scrivere questo libro, sia stato un lavoro psicologicamente utile, e che abbia da una parte dimostrato una stoffa intellettuale veramente insolita – Agassi a che mirisulta ha fatto poca psicoterapia, magari avrà cominciato per bene dopo – ma dall’altra penso che scrivere questo libro sia stata una cura, un mettere apposto delle cose. Poter per esempio parlare della madre di suo padre in modo da far capire anche a se stesso perché suo padre è stato quello che è stato. Poter capire da chi si ha preso e cosa si ha dato. Sono cose che lasciando diversi, cambiati, con un’altra personalità. E’ un libro alla fine molto utile, da quasi delle indicazioni di metodo per le vite difficili. Io di sport non ci capisco niente, ma so riconoscere quando qualcuno ci ha stoffa per campare e pensare. Invidio chi oggi ha Agassi come coach.