Tra psicologi, psicoterapeuti di vario ordine e grado, c’è sempre un grande dibattito su come la professione è percepita nell’immaginario collettivo. Spesso ci si rammarica del fatto che la disciplina non è presa sul serio, che sui giornali o in televisione vengano chiamati a discutere di questioni genuinamente psicologiche persone con competenze disparate ma non psicologi, e che sia diffusa nell’opinione pubblica l’idea che la disciplina non sia tanto rigorosa.
La psicologia, per un verso infatti rappresenta un campo terribilmente attraente, dove si osano schematizzazioni avvertite però come fluttuanti e incerte per cui, a volte ci si identifica in un gruppo di osservazioni quasi come per magia, altre invece se ne scappa come se fosse stregoneria. La psicologia è una disciplina del quotidiano emotivo, e in quanto tale genera – per me più che legittimi – sentimenti di seduzione e antagonismo, inoltre fa molta fatica a promuovere una conoscenza complessa delle sue categorie interne, delle ricerche che producono delle convinzioni condivise tra colleghi – il suo rapporto con l’opinione pubblica è sempre piuttosto accidentato. A ciò si deve aggiungere che l’offerta formativa è discontinua, che gli istituti che generano psicologi e psicoterapeuti sono tanti e molti non abbastanza seri, che un lavoro sulla qualità delle motivazioni e sulle capacità artigianali dei singoli di usarsi come clinici è portato avanti solo da alcuni e soprattutto in Italia – ci sono tantissimi psicologi, e quindi, per quanto sia antipatico da dire, moltissimi sono dei professionisti mediocri – è una conseguenza di origine statistica.
Anche questo, purtroppo all’opinione pubblica, è noto.
Ho fatto questa premessa un po’ scontata, perché volevo ritornare a riflettere un po’ sull’uso della rete da parte degli psicologi, e in particolare di Facebook. Mi ci ha fatto pensare una mia amica la quale, in virtù del suo uso dei social, si è ritrovata recapitata per iscritto, tra i commenti dei suoi molteplici contatti, una diagnosi clinica su di lei. La mia amica, un’intellettuale raffinata con una cultura psicologica e psicodinamica insolita per i più – anche colleghi – si è giustamente risentita, e ha furbamente attaccato il collega, non tanto sulla qualità della diagnosi, quanto sulla sua serietà professionale, perché le diagnosi non dovrebbero potersi formulare in questo modo, non dovrebbero essere comunicate agli occhi di molti non coinvolti con la persona, il medium e la circostanza erano certamente fuori luogo, e insomma diciamolo, se la mia amica si è messa a sparare sulla croce rossa, bisogna ammettere che lui aveva proprio la carrozzeria adatta.
Facebook è per la nostra professione, uno strano territorio, presenta la stessa miscela di occasione e trappola che vi riscontrano le altre libere professioni, ma per lo psicologo quella miscela è esplosiva. Su Facebook, come su tutti i social convivono gli echi dell’informazione blasonata, ritornano le stimmate dei saperi strutturati, e insieme i segni delle identità private, quotidiane, minimali – è anche questo il bello della rete, perché avvicina in qualche modo le grandezze, e si fa amicizia con il grande esperto di questa o quella disciplina, e simultaneamente si scopre che tifa una squadra di calcio. Ancora di più simultaneamente si toccano aspetti salienti della sua personalità intima, non sempre controllata. Se il professionista contattato ha un uso disinvolto della rete, lascerà necessariamente trasparire, suoi tic, suoi difetti, il suo umano stare al mondo quotidiano – anzi, si può dire che la rete, con la sua fedele trascrizione scritta di esperienze altrimenti volatili come i dialoghi e le discussioni, offre un resoconto spietato e duraturo di ciascuno, prima di tutto ai propri occhi. Questo può essere pericoloso magari per un ingegnere, un avvocato, un dentista, un architetto: pareri per esempio forniti con arroganza, sicumera, e aggressività possono respingere eventuali clienti, mentre al contrario eccessive timidezze ed esitazioni rimandano anche senza che chi legge se ne accorga, l’impressione di qualcuno non davvero preparato – (perché non credendosi preparato fa in modo che i suoi interlocutori lo interpretino nello stesso modo).
Siccome tutto questo può essere moltiplicato per un incredibile numero di interazioni potenziali, si capisce come in termini di mero marketing professionale, un passo falso possa essere un disastro, una mossa ben azzeccata l’inizio di un nuovo percorso di lavoro.
Per gli psicologi tutto ciò è doppiamente vero, e triplamente complicato. In primo luogo – differentemente da avvocati, architetti, medici – non sono gli araldi di una disciplina blasonata, prestigiosa, solida. La psicologia è giovane appare come una costellazione di teorie affidabili, ma la sua storia recente insieme alla pluralità di approcci spesso antagonisti tra di loro, non fa da garante. Ci sono clinici pregevoli noti all’opinione pubblica ma sono molto di più quelli che sono noti ma hanno deciso di diventarlo per una divulgazione ciarlatana.
In questo senso, è una disciplina frequentemente attaccabile, e spesso da chi proviene da formazioni rigorose.
In secondo luogo, la psicologia e in particolare la psicoterapia, sono discipline che si esercitano mettendo in campo le proprie risorse emotive private e caratteriali, che secondo l’utenza spesso e volentieri devono rispondere a uno stereotipo di calma, gentilezza, accoglienza, 24 ore su 24. Per tanto, il tipo di reattività che si dimostra in rete, può essere considerato un esempio delle modalità relazionali dello psicologo in questione e quindi, anche qui un passo falso può essere pericoloso.
Ma la trappola peggiore – in cui spesso cadono anche fuori della rete soprattutto colleghi giovani – è che le interazioni della rete avvengono spesso su temi intimi e privati, che possono portare anche a dei vissuti emotivi forti, a cui lo psicologo, differentemente da altre figure professionali, può essere tentato di rispondere usando il suo sapere di riferimento, come nel caso della mia amica, sentirsi quindi in diritto di ribattere formulando diagnosi su chi non si è visto mai.
In questo senso mi è capitato di vedere spesso comportamenti inappropriati: la disciplina che viene usata come arma difensiva perché si ha la peggio in una discussione – tu alla fine sei un narcisista patologico, non puoi capire – o in altre circostanze come arma seduttiva, con consigli magari non richiesti pericolosamente mischiati a osservazioni di banale senso comune. La disciplina usata come podio su cui issarsi psicologicamente per essere ammirati, per non sentire l’amara equivalenza rispetto agli altri, per non sentire la sfida emotiva delle frustrazioni e degli innamoramenti paritari. Chi adotta questi comportamenti va incontro a conseguenze, per la propria immagine in rete, decisamente più pericolose di chi magari utilizza un linguaggio sciocco, informale persino volgare, ma è capace di contenersi anche in situazioni emotivamente critiche, sapendo tenere separato sapere professionale e interazione comune. Un linguaggio disinvolto può essere forse poco elegante, ma da l’idea di una autenticità per la maggior parte delle persone rassicurante, una capacità di vicinanza e di immediatezza, che abbatte molte resistenze sulla disciplina, forse non farà sembrare questo o quel collega particolarmente aristocratico, ma questo in realtà – specie se è davvero competente, farà buon gioco, e a fronte della citazione opportuna, della consapevolezza di un lavoro scientifico svolto nelle sedi deputate – offrirà l’idea di un professionista che sa usare registri linguistici diversi (una competenza per me imprescindibile per chi fa il nostro lavoro). Ma l’uso delle proprie competenze per le interazioni private, rinvierà inderogabilmente a un’idea di debolezza, scarsa tenuta emotiva per un verso (quello che riguarda solo il clinico) e un’idea di ciarlataneria, grossolanità (per quello che riguarda lui ma anche il suo orizzonte professionale – andando a contribuire l’immagine diffusa di una disciplina praticata da gente poco seria.
Occorre quindi farci un pensiero.