Quanto vicini quanto lontani

Cari tutti –
Ho deciso di riprendere questo vecchio post, che all’epoca – 8 ani fa suscitò un gran dibattito. Riguarda gli stili di accudimento e l’eventuale vulnerabilità a psicopatologie future dei bambini. E’ un lavoro che spero sia utile, in questi anni di fatto – le mie posizioni non sono cambiate, e anzi sono state rinforzate dall’esperienza privata  e professionale. Perciò le modifiche apportate saranno molto modeste.
Buona lettura.

lQuesto post sarà lungo  perché mi sforzerò di sintetizzare malamente e con molte ingiustizie i punti salienti della psicologia evolutiva degli ultimi decenni – che mi pare, al di la delle ondivaghe mode pediatriche, si vada strutturando in maniera sempre più coerente e relativamente omogenea. Come premessa però chiedo di dare per assunta la serietà metodologica con cui le ricerche attualmente sono portate avanti in questo settore e chiedo di non sottovalutare il livello con cui le variabili ambientali e i difetti di ordine psicometrico sono calcolati nei processi di ricerca. Lo dico perché questa è la prima osservazione che viene fatta, non di rado con grande arroganza e ignoranza del lavoro psicometrico che c’è – matematicamente anche piuttosto difficile – e di controllo delle variabili. Dal mio punto di vista – la serietà statistica oggi è talmente avanzata, per cui la ricerca è amputata del suo potenziale visionario. A tal punto la psicologia si sente ricattata dalla critica sociale, che oramai è difficilissimo trovare un teorico che sia in grado di inventare mondi, ma tutti coltivano orticelli piccolini di piccole azioni e reazioni, controllabili in laboratorio, replicabili in contesti diversi. Molte di queste ricerche tuttavia, campano dell’ispirazione dei grandi padri fondatori della disciplina. Qui intanto, pParleremo un bel po’ di teoria dell’attaccamento, perché mi pare che di questi tempi chi si occupa di bambini in particolare, ma anche di adulti non può evitare di farci i conti se non proprio sottenderla come punto di partenza per andare altrove.

Quando parliamo di prima infanzia, noi dobbiamo sempre considerare due soggetti – che sono un piccolo e il suo caregiver, che nelle culture come la nostra spesso e volentieri è rappresentato dalla madre. Il piccolo che approda nel mondo con la nascita, dobbiamo considerare – non è una tabula rasa ma un libro diciamo ancora da scrivere, ma che è programmato biologicamente per essere scritto con un certo numero di variabili a seconda di come l’ambiente interagirà con lui. Abbiamo cioè una materia che è biologica e un’altra materia l’espressione comunicativa di quel dato biologico, e le forze con cui essa entra in contatto, che sono il contesto culturale e le sue relazioni primarie. La materia prima comunque – il dato biologico – è la prima grande differenza saliente e sicuramente la più importante. E’ il genoma, è quello che noi chiamiamo maggiore vulnerabilità a certe forze ambientali e relazionali, sono le carte che ci danno quando comincia la partita.
In linea di massima questo piccolo possiede un primo programma che gli psicologi evolutivi chiamano regolazione di stato – e concerne l’amministrazione del sonno e della veglia, prima di tutto, e la conquista del comportamento alimentare nella sua ciclicità. La facilità o difficoltà nell’amministrare questo programma deriva prima di tutto dalle carte biologiche di cui il piccolo è in possesso, ma in linea di massima ne ha a sufficienza per cui, con un caregiver sufficientemente attento approda da solo a una buona esperienza.

Nella media generale delle esperienze, le madri ci mettono un po’ a sintonizzarsi con i figli e dopo una serie di legittime prove ed errori, trovano una modulazione di frequenza nell’interazione con i bambini. Daniel Stern e soci, il gruppo dell’Infant Research, ha filmato centinaia di bambini con le mamme codificando questa strutturazione della comunicazione, campionando momenti di addormentamento e momenti di nutrizione, o momenti di gioco. Stern e soci hanno quindi approfondito il concetto di Bowlby – quelli di Modello Operativo Interno, usato per indicare la traccia mestica, il ricordo, di quello schema di interazione che essendosi ripetuto spesso per il bambino fa da orientamento, da recipiente mentale per vivere le situazioni simili che si ripropongono. Egli sa che la mamma quando deve mangiare farà in un certo modo, e risponderà al suo solito modo. Egli interiorizza un se con la mamma, un se nella relazione. I modelli operativi interni della primissima infanzia, andranno poi a confluire negli stili di attaccamento – cioè nei modi con cui i bambini organizzano la loro relazione con la loro – o le loro figure di riferimento. (Sono molto belle le ricerche che mettono in relazione modi di interazione tra mamma e bambino nei primi mesi, e stili di attaccamento dopo) La variabilità di questi funzionamenti delle coppie è immensa e le risorse degli adulti per gestire i piccoli non mancano mai di affascinare i ricercatori, tuttavia – esistono delle classi di comportamenti generali che coincidono con gli estremi – io credo quello che si dice alto contatto e basso contatto – che si rivelano problematiche, non nel senso comune di immediata garanzia di una psicopatologia, ma senza dubbio di una maggiore vulnerabilità alla psicopatologia – che emergerà con più facilità se insieme a un accudimento non funzionale ci saranno altri fattori di rischio.

Ripensiamo infatti a questo concetto dell’autoregolazione di stato. Il bambino si trova nella necessità di trovare dentro di se qualcosa che ha già, ma è pur sempre un bambino molto piccolo con poca esperienza di se stesso. Il genitore, è allora nella posizione di garantire assistenza, senza però mettersi al posto del piccolo. Quando il contatto è molto basso – per esempio un bambino non riesce a dormire, piange a squarcia gola e nessuno va da lui, il bambino diventerà terrorizzato dal suo stesso bisogno, acquisirà un modello operativo interno di abbandono sciagura debolezza e rabbia, che alla lunga possono diventare pattern stabili della struttura caratteriale, pattern che incoraggiano gli interlocutori a confermare il vissuto di abbandono e di inefficacia della prima infanzia. Se questi vissuti sono molto gravi e intensi potrebbe certo diventare un adulto terrorizzato dalla relazione, dai suoi sentimenti esperiti nel bisogno frustrato della relazione, a cui le dipendenze possono offrire un valido strumento vicario. Quando però il contatto è troppo alto, per esempio si tiene sempre il bambino in braccio finchè non si addormenta, il bambino quasi ugualmente non riuscirà ad accedere alla sua capacità di autoregolazione, perché c’è qualcun altro che fa le sue veci, c’è l’io vicario che lo culla per l’eternità, e questo lo renderà dipendente, ed incapace di accedere autonomamente alle proprie risorse, approdando a quella stessa convinzione di debolezza e inefficacia che connotava il suo fratello invece abbandonato, solo con una marca di difficoltà diversa. Spesso in casi in cui questa dipendenza è prolungata in una costellazione di comportamenti – allattamento prolungato, dormire nel lettone, non permettere al bambino di piangere o di avere sentimenti negativi – l’adulto che ne verrà fuori farà molta più fatica dei suoi coetanei a disimpegnarsi dal nucleo familiare, a separarsi dalle identificazioni genitoriali, a ristrutturarsi in una vita propria e a sopportare le relazioni di dipendenza – proprio per il suo comportamento troppo dipendente. (Alcune ricerche poi – mettono in luce la correlazione tra patologie della sfera alimentare e allattamento prolungato. Non è difficile da capire, l’anoressia interviene spesso in quadri familiari in cui la fusione con la madre è molto alta, e il padre è satellitare. L’allattamento prolungato può essere il cemento precursore, il mezzo con cui fissare i confini di una simbiosi – che poi simbolicamente e paradossalmente si mantiene e si rifiuta con il cibo).

La persistenza e continuità dei modelli operativi interni dall’infanzia fino all’età adulta, specie nelle psicopatologie, è stata dimostrata dal voluminoso corpus di ricerche basate sull’impiego dell’Adult Attachment Interwiew, una intervista con domande chiuse e aperte che è stata implementata da Mary Main e che si ripropone di rintracciare lo stile di attaccamento di un adulto interiorizzato nella sua infanzia e come questo stile di attaccamento sia ancora presente nel suo sistema comportamentale, con le figure importanti della sua vita relazionale – così c’è una consistente mole di ricerche che mette in relazione i modelli operativi interni strutturatisi nella prima infanzia con i modelli operativi che i soggetti applicano nella vita di coppia, e nelle situazioni di innamoramento, e un’altrettanto fiorente ricerca sulla genitorialità e sul modo con cui i genitori tendono a riprodurre con i figli i modelli operativi interni che hanno interiorizzato. Molte poi sono le ricerche che invece correlano certi stili di attaccamento a situazione francamente psicopatologiche. Da tutte queste ricerche emerge che non è infrequente il caso in cui le persone nella vita possano cambiare stile di attaccamento dall’insicuro al sicuro – ma è molto più infrequente che accada il contrario. Riportare qui gli esiti di queste ricerche è semplicemente impossibile, tanta è la mole, ma quello che si può dire con certezza è che i modelli operativi interni sono connotati da una buona stabilità anche se nel corso della vita ci sono fattori di protezione e fattori di rischio che possono relativamente modificarli (una buona psicoterapia ha questo tra i suoi scopi, e altro esempio, qualche volta quando gli schemi mentali ed emotivi interiorizzati non sabotano l’esperienza, i modelli operativi possono essere virati verso la sicurezza da delle buone relazioni)

Torniamo allora all’antinomia tra alto contatto e basso contatto. Quando il contatto è molto molto basso l’esito patologico è pressocchè certo, in un range di possibilità che dalla ridotta crescita fisiologica arriva al disturbo di personalità, o di dipendenza da sostanze. Il basso contatto di cui parliamo qui però, è difficile che sia ascrivibile a direttive di tipo culturale, ma a cause a loro volta psicopatologiche. Una grave depressione nella madre, o a sua volta un suo disturbo psicopatologico franco, la rendono così scarsamente recettiva da indurre una patologia grave. Una madre inaccessibile per una psicosi post partum, una madre tossicodipendente per esempio possono ritrovarsi a stare in una stanza con un figlio che piange le ore di seguito, e naturalmente il contesto sociale ha una sua forte incidenza – fasce sociali più deboli, in ambienti di povertà e alta criminalità sono più esposte. Ma non c’è cultura che possa suggerire questo basso contatto – per il semplice fatto che è troppo antievoluzionistico, e antieconomico per il gruppo sociale – men che mai i società in cui i figli sono così pochi, come la nostra. Una cultura trasmette ai genitori i valori che richiede dai piccoli cittadini che mettono al mondo, ma non può volere che questi piccoli cittadini muoiano o elaborino stili di vita pericolosi per se o per gli altri. Può – in contesti in cui ci sono molti bambini – desiderare che resistano solo i più forti, ma non tollera che i più forti vadano perduti. (In questo senso è interessante ricordare la reazione che ebbe Margareth Mead, antropologa, davanti al costrutto dell’attaccamento. Attaccò la sua prima formulazione come ingenua – ma da subito si rese conto della sua applicabilità trasversale ai più svariati contesti culturali – come di fatto è accaduto).

Il polo opposto dell’alto contatto genera psicopatologie relativamente più tollerabili e che permettono una funzionalità sociale, ma in compenso è un rischio più frequente nella famiglia media anche se – pure in questo caso è molto più probabile che l’eccesso di alto contatto sia dovuto a motivazioni psichiche individuali o della coppia che a direttive di ordine socioculturale. Il sistema diadico che mette insieme madre e bambino infatti è uno strano dispositivo che per funzionare deve implicare uno sforzo relativo per entrambi. Un elevato contatto – cullare sempre il bambino finchè non si addormenta, allattarlo finchè non è lui stesso a chiedere che si smetta, dargli nel mondo non un posto che è il suo ma che è al posto del proprio non è autoconservativo, è funzionale a una malessere della madre o della coppia genitoriale. Il figlio prende il posto del padre, con una valanga di effetti negativi per tutti. La madre struttura la sua vita in funzione di un altro, usandolo per evitare di prendere contatto con parti depressive proprie da cui si sente minacciata, e per trovare una forma di gratificazione. Regala al bambino la propria paura del dolore negandogli l’esperienza del dolore o della difficoltà. Il processo evolutivo del figlio viene compromesso – frenato, perché la sua capacità di raggiungere l’omeostasi da solo è scoraggiata e non trova un terreno per focalizzarsi. Inoltre il bambino – per usare una parola dei sistemici, viene triangolato. Essendo posto al posto del padre diventa il canale di comunicazione emotiva tra i due coniugi – diviene strumentalizzato dalla coppia. La coppia viene messa in una posizione di grandissimo rischio: il padre non riesce a ritrovare il rapporto con la madre e quindi cercherà il rapporto erotico altrove, spezzando la famiglia, oppure (cosa che mi è capitato di osservare frequentemente nel centro clinico dove collaboro ora) sessualizzando il suo rapporto con il figlio – nella sinistra atmosfera dell’incestuale.

In tutto questo – sinceramente – non so quanto possano incidere le direttive culturali in entrambi i casi, specie nelle loro derive psicopatologiche gravi. Quando una cattiva psicologia attecchisce è soprattutto perché il malessere psichico la usa come pane, come alibi, come risorsa – la struttura sana sente dove non si deve fidare. Ma forse esistono delle zone intermedie, di incapacità di toccare le proprie buone risorse, e di essere per questo buoni caregiver, per le quali una buona psicologia potrebbe fare un buon servizio. Non credo neanche che questo buon servizio sia da destinare solo alle madri e alla genitorialità – mi sono fatta l’idea – assolutamente personale e non comprovata da niente – che l’istinto vero è quello del grande verso il piccolo della sua specie. Tutti siamo portati quando siamo ragionevolmente sani, o se vogliamo tollerabilmente imperfetti, a saperci sintonizzare con un piccolo e a dover sentire per un piccolo in difficoltà un senso di protezione. Quando questo senso di protezione manca – figlio o no – la psicopatologia è franca.

 

Farfalline e poltrone

 

 

E’ interessante come la vicenda Weinstein e il dibattito che ne è conseguito, fotografino lo stato dell’arte in merito alle consapevolezze culturali sulle questioni di genere. Intanto, accogliamo come una buona notizia – per questo caso e per alcuni altri dell’immediato recente – che la questione del ricatto sessuale è diventata una notizia rilevante considerata capace non tanto di generare scandalo – che per la verità, lo ha sempre fatto – quanto indignazione.
In secondo luogo, se c’è un contesto dove almeno io constato una certa utilità della rete, è proprio il contesto delle questioni di genere, e forse di questo specifico range di questioni, che toccano il privato ma non troppo, che alludono a momenti della vita che stanno in una zona intermedia tra pubblico e privato. E insomma in questi giorni ho assistito a scambi interessanti.

Il dibattito si è agganciato infatti, sulla parte dello scandalo che ha riguardato Asia Argento, che ha dichiarato di essere sentita costretta ad avere rapporti con lui quando era più giovane, e di esserci sottostata temendo di non avere scelta. Asia ha avuto successo, e alle spalle aveva un padre noto regista, e queste stimmate poco adatte al ruolo di vittima hanno fatto perdere a diversi commentatori l’attenzione sulla natura del reato e hanno spostato astio e giudizi severi sul comportamento della vittima di ricatto sessuale. E’ una cosa interessante, che mi ha sollecitato diverse riflessioni. Siccome questo è un post un po’ frettoloso perdonatemi se schematicamente le enumererò una per una.

  1. La questione dei ricatti sessuali si iscrive sempre in un contesto dove al vertice non c’è mai il potere del sesso, ma il potere politico – ossia il potere di determinare cambiamenti materiali, che a sua volta è correlato al potere economico, il potere cioè dei soldi di muovere cose e altri soldi. Il potere del sesso è invece un potere sempre povero, sempre di corto raggio, in qualche raro fortunato caso può essere un potere strategico, ma di solito, siccome è insieme risultato e infamia, non porta a granché di buono. D’altra parte, bisogna dire, scopare è una cosa che sappiamo fare tutti, per questo al di la del valore della carrozzeria, il sesso rimane una prestazione viziata dal suo essere sostituibile. Invece il potere politico non è sostituibile con la stessa agilità, e non ha mai il marchio dell’infamia.

A questo aggiungiamo un secondo tassello: partiamo da un orizzonte culturale per cui il potere maschile è – spesso anche se non sempre – tendenzialmente quello tradizionale rispetto al quale il potere femminile è – spesso anche se non sempre – subalterno a esso. Spesso, questa subalternità è garantita dall’uso suggerito o imposto, della moneta del potere sessuale. Quel potere sessuale, che è in realtà fuori dal mondo della monetizzazione e della gerarchia il gigantesco della prosecuzione della specie –ma che dentro vale poco, e si autodenuncia ipso facto come un potere misero. Se non nullo.

2. Il grande mito di questi scambi da Berlusconi a Weinstein è che la donna che cede allo scambio fa carriera per quello scambio. Questo mito culturale è molto interessante. Da una parte aggancia qualcosa di vero, ma una parte molto minima – come in generale accade quando ci si concentra con troppo incantato livore sulla carriera per raccomandazione. In generale infatti vale la triste regola per cui, quando non si hanno capacità di nessun tipo è difficile che si faccia carriera perché non si è capaci di gestire nessun tipo di potere.   Ci si può forse assicurare uno stipendio, ma non ci si assicura una scalata.
La questione è allora diversa: la questione è che ci sono diverse persone in grado di assolvere un ruolo, o una scalata di ruoli, ma i criteri per farcele arrivare possono essere onesti e disonesti, sessisti o non sessisti. La raccomandazione e la corruzione sono criteri che ammettono l’accesso alla scalata tipici dei contesti semplicemente disonesti. Poi però ci sono contesti onesti e disonesti, che vincolano l’accesso in base a un’appartenenza di genere, e in questi ambiti le donne possono avere due tipi di chance: essere migliori di molto rispetto ad altri, oppure essere brave quanto altri, sottostando però a un ricatto sessuale. Le grandi attrici, o le attrici che per una qualche magia tipica della loro professione hanno avuto successo – e con questo intendo la misteriosa capacità di un volto e di un modo di usare il corpo di incarnare immagini dell’inconscio culturale – che avessero dichiarato di aver soddisfatto Weinstein si sono adeguate prob ob torto collo – alla regola ferrea del sistema sessista, che chiede il dazio dell’abuso di potere. Ora lo possono dichiarare perché a voja a rosicare nessuno potrà dire che un film ha incassato milioni di dollari per un pompino a Weinstein. Tra tanti pompini, ha fatto carriera quella che aveva delle cose in più ossia un’altra forma di potere.
(In questo senso, uno dei tanti termometri che misura il grado di sessismo di un contesto culturale potrebbe essere determinato dalle frequenza con cui si sommano scambi sessuali in contesti economici e possibilità per le donne di poter usare lo scambio sessuale come accesso al potere. Regimi poco sessisti, condannano lo scambio sessuale e l’ostacolo sessista. Regimi molto sessisti impongono a prescindere il dazio sessuale come obbligo da tributare al maschile, e poi ci sono le democrazie intermedie, dove i dispositivi funzionano insieme, poco o molto, quando si quando no – in gradazioni diverse).

3.Scrivo tutte queste cose, piuttosto rarefatte e forse noiose, perché vedo che forze psichiche oscure e lontane anche da parte di persone oneste e di buona volontà, in buona fede alla ricerca di un’opinione moralmente corretta, perdono l’occasione politica, perdono lo sguardo di insieme, non pensano a di cosa è sintomo questa vicenda, e si fanno imbrigliare da altri oggetti simbolici, marginali all’abuso di potere. Weinstein non lo conosce nessuno qui, diciamocelo Asia Argento si! Angelina Jolie si! Sono potenti! Ricche! Belle e famose! Come mai non hanno in primo luogo respinto le avance? E come mai non hanno fatto denuncia subito dopo? Dietro questa cosa c’è in parte l’idealizzazione del potere estetico e sessuale, e la supposizione di una costante contentezza in merito ad esso – per cui alla fine, aleggia l’accusa sottile che una che viene scritturata come comparsa deve esser contentissima e orgogliosa di questa gran fica che è, mentre del fatto che si è impegnata per imparare a far bene una determinata cosa non deve importare un bel niente. E’ bona e incantatrice deh, sta mignotta! E siccome quel tipo di incantamento è molto incisivo su un’altra economia che è quella della ita privata e tutti noi vorremmo esserne titolari, si fa il corto circuito tra il potere che ha nel privato la seduzione e la trappola che rappresenta nel pubblico quella medesima seduzione.Soprattutto però, si perde la visione di insieme

 

Diagnosi in psicoterapia. Una breve nota.

Molto spesso le persone che arrivano in terapia, fanno una esplicita richiesta di una diagnosi. Qualche volta si aspettano, alla fine delle sedute di consultazione – quelle prime che si fanno allo scopo di verificare la trattabilità di un caso – che il terapeuta dica a chiare lettere di cosa soffre il paziente.
Quelle chiare lettere non di rado, corrispondo all’alfabeto della psichiatria che si ritiene – per certi versi neanche a torto – che la psicoterapia condivida senza esitazione. E’ una domanda per diversi aspetti più che lecita. Una persona arriva, non sa che cos’ha ma non sta bene, vuole sapere come definirsi e cosa deve fare, viene da un mondo dove le parole sono l’inizio di ogni soluzione e stare fuori dalle parole lo fa sentire fuori dalle soluzioni possibili. Inoltre una diagnosi precisa da la sensazione secondo me più che giustificata, di una riduzione dell’asimmetria di ruolo, in particolare se a quella diagnosi segue una decodifica: l’esperto da al suo assistito un vocabolo del suo gergo, e gli spiega con cosa esattamente corrisponde e questo atto, lo fa sedere al suo tavolo, lo fa diventare medico anch’esso – di se stesso.

In psichiatria la diagnosi ha oltre che una funzione comunicativa importante, una improcrastinabile funzione procedurale. La diagnosi è infatti una costellazione di segni, che corrispondono invariabilmente a delle disfunzioni da correggere. Se si vede come è strutturato il DSM V (come del resto anche i DSM delle precedenti edizioni) si osserva che appunto le diagnosi sono costruite tutte nello stesso modo: esiste un insieme di sintomi disfunzionali, e un minimo numero di esse compresenti costituisce l’etichetta da proporre e soprattutto da proporsi, per decidere come procedere.
Quelle disfunzioni infatti sono la parte fenomenica di un noumeno materiale in cui c’è qualcosa che non va. Una carenza di una sostanza, l’eccesso di un’altra, un neurotrasmettitore che sta troppo poco in circolo, etc. etc. biologia e mondo astratto si parlano in termini di carenza, di meno, di inadeguatezze.
Invece tutto ciò che funziona è per questo tipo di diagnosi, un intoccato da proteggere, niente su cui contare, se non per un vantaggio di risulta.

Nel contesto psicoterapico la diagnosi psichiatrica ha invece una valenza molto più insidiosa, pericolosa. Se da una parte è infatti, pacificante, tranquillizzante, quella tranquillità è pericolosa, perché ha il potere di accorciare una tensione linguistica, fa correre il rischio di usare la diagnosi come un verdetto a cui reagire come adattandosi. Sono fatto così ergo – oppure ho questo problema dunque. Ci si identifica con la diagnosi, la si può ipostatizzare, trasformare in cosa, e questa cosa in cui ci si trasforma non include i nostri pregi e le nostre risorse, che sono i mezzi con cui lo psicoterapia lavora – diversamente dalla farmacoterapia. Ne consegue che il clinico che come primo pensiero cerca la diagnosi psichiatrica tradizionale si mette in una brutta posizione mentale, perché non diagnostica le risorse. Non le mette nel pacchetto unico.

In realtà in psicoterapia, la costruzione della diagnosi è una parte del percorso di cura che quasi combacia con una prima, molto consistente sezione, della terapia. Per come lavoro io la diagnosi combacia con un primo numero molto consistente di sedute in cui il paziente racconta la sua realtà psichica, la sua storia e il suo modo di stare nel mondo e in quella stessa narrazione si drenano gli aspetti psichiatrici in senso tradizionale e quelli invece evolutivi che aiuteranno i primi a evolversi. La costruzione della diagnosi insieme al paziente è essa stessa passaggio successivo alla diagnosi, quasi una situazione paradossale, perché nell’atto di acquisire quell’insieme complesso di mondo interno e modo di usarlo verso l’esterno in quel mondo interno si mette qualcosa in più di discriminante, ossia la possibilità di isolare indicare e riconoscere aspetti del proprio stare al mondo e questo come dire è un altro funzionamento in più che quando il paziente era arrivato non c’era, ora c’è e ha la possibilità di modificare l’insieme.

Questo tipo di acquisizione non può naturalmente coincidere con le sedute preliminari, le quali tuttalpiù riescono a indicare in linea di massima delle aree di difficoltà e delle aree di funzionamento un dove bisogna cominciare a lavorare e un cosa c’è di buono da sfruttare. Si può decidere, qualora un paziente ne faccia una richiesta – di dare una diagnosi nell’immediato. A volte quando la situazione è critica e c’è bisogno di lavorare in tandem con uno psichiatra quella diagnosi può avere un valore ancora più dirimente. Ma non può essere mai l’unica cosa da dire. E se anzi si elude, per quanto comprensibilmente frustrante, è per rispondere a una necessità di lavoro.

Identificazione proiettiva, Self disclosure, come delicati strumenti di lavoro.

C’è stato un tempo lungo e importante in cui il modello della terapia analiticamente orientata era quello della psicoanalisi freudiana di prima maniera. Con l’analista seduto dietro al lettino, silenzioso, accogliente, non giudicante, del quale in linea teorica doveva essere noto il meno possibile.   In realtà molte cose dell’analista sono note, malgrado le sue migliori intenzioni. A volte l’arredamento di uno studio parla chiaro, ma altre volte, sono spie insindacabili i modi di vestire, le posture, i segni del volto, le inflessioni dialettali. Il corpo dell’analista cioè rivela sua malgrado età, posizione sociale, stato civile, stato di salute, qualche volta orientamento sessuale e religioso.
Di queste denunce identitarie, la psicoanalisi è certamente sempre stata consapevole, così come gli analisti sono sempre stati consapevoli di vivere dei pensieri, delle suggestioni emotive che erano indotte dai racconti dei pazienti. Tuttavia per molto tempo il cosiddetto controtransfert – l’insieme di tutto ciò che prova sente l’analista rispetto al suo paziente, ivi compreso ciò che si ritrova a proiettare su di lui è stato considerato una fonte di problema se non di sciagura, da osteggiare, da sciogliere. Come se le percezioni emotive del clinico fossero sempre uno spessore che impedisce di vedere l’altro, una nebbia egotica ed egocentrica che ostacola la linda decodifica del racconto.

Col tempo il controtransfert è diventato un prezioso dispositivo, utile a capire moltissime cose un ampliamento delle strumentazioni razionali e intellettuali, e ascoltarlo è diventato per molti clinici la via regia per procedere nella cura (Jung diceva, bisogna ammettere in tempi non sospetti, che il transfert è l’alfa e l’omega della terapia – alludendo però anche a quello che provava l’analista in merito al paziente e a quello che gli metteva addosso) . Questo è accaduto per molti motivi – parlarne qui ci porterebbe troppo lontano, ma in generale c’è stato un grande cambiamento epistemologico che ha riguardato l’oggetto di sguardo nella cura – che dal singolo si è sposato sulle sue relazioni, e il giudizio di valore sulle dinamiche inconsce che da vessillo della patologia sono diventate simbolo di logiche funzionali, oltre che disfunzionali. Ma sono stati enucleati anche nuovi meccanismi psichici, che hanno messo in luce l’utilità dell’uso del proprio controtransfert. Per esempio l’introduzione del concetto di identificazione proiettiva di Melanie Klein ha dato alla lettura delle reazioni dell’analista una nuova gamma si sfumature, aiutandolo a capire in maniera più distinta quando si trovasse a essere manovrato dalle dinamiche inconsce del suo paziente. L’identificazione proiettiva è infatti quel meccanismo difensivo che induce nell’altro stati d’animo che si tengono scissi in se stessi e che si controllano meglio nell’altro. E’ una sorta di induzione a provare delle cose che non si tollerano, di cui non ci si vuole appropriare, che al terapeuta può essere molto utile far entrare nella propria consapevolezza. Tenendo a mente il concetto di identificazione proiettiva infatti, può capitare che in seduta ci si chieda se quel paziente ci sta facendo arrabbiare perché ci proiettiamo delle nostre vicende personali sopra – perché elicita dei nostri aspetti ombra, per dirla con Jung, o perché in qualche modo la sua psiche vuole che noi ci arrabbiamo, per esempio subappaltando delle funzioni superegoiche che il paziente crede di non considerare importanti per tutelare un’immagine narcisistica di se per esempio come cinico, oppure per far sentire il terapeuta male come il paziente si sente, arrabbiato come il paziente è arrabbiato, per punirlo di una percezione di equilibro di cui si vorrebbe appropriare, un materno fuori da se.
Tenendo a mente l’identificazione proiettiva il terapeuta potrà allora da una parte rendersi conto di parti scisse del paziente subappaltate, ma dall’altra anche di cosa capita nelle sue dinamiche relazionali – perché quella situazione che lui sta vivendo con il suo assistito non deve essere tanto diversa da certe che ricorrono nella sua vita quotidiana: in terapia si è gli stessi di fuori, si funziona come fuori, e chi sa quante volte il nostro paziente che ci fa arrabbiare per amministrare un bisogno di aggressione, ha fatto arrabbiare qualcuno: colleghi, compagni di scuola, una moglie.

Parlo qui dell’identificazione proiettiva perché è uno dei concetti che tengo maggiormente in considerazione quando penso al mio uso della Self Disclosure, strumento clinico entrato in auge da poco nelle terapie analiticamente orientate, e che presenta per un verso consistenti margini di rischio, per un altro consistenti vantaggi. Per una trattazione estesa di questo concetto, rimando all’articolo di Annamaria Loiacono che mi ha ispirato questo post e mi ha suggerito queste riflessioni, qui sintetizzeremo grossolanamente definendo la Self disclosure un’apertura che l’analista fa al paziente rivelando cose di se stesso con lo scopo di fornire qualcosa di utile alla terapia.
Si tratta di uno strumento oggettivamente pericoloso. L’analista che dice qualcosa di se, anche se quel qualcosa riguarda il suo paziente, mette in campo un oggetto che non è quello principale, una grandezza che potrebbe essere un ingombro, in un certo senso è come se nello spazio della stanza dilatasse la sua fisicità psichica, in un modo che – se non c’è accortezza – può usurpare uno spazio che è sacro, ma che anche può coprire comodamente aree vulnerabili del paziente. Questi magari è ben contento di non parlare tanto di aree scabrose della sua vita, ma che si faccia finta di fare terapia (quando in realtà si soddisfa il narcisismo del curante).

Più in generale, se intendiamo l’analizzando come un complesso di parti psichiche, alcune delle quali agiscono in direzione ostinata e contraria al suo benessere ma che anzi hanno lo scopodi mantenere e foraggiare assetti patologici, è sempre opportuno chiedersi quale parte del nostro paziente si servirà della nostra self disclosure- se quella che lo porta in cura o una di quelle che gli fa saltare le sedute, bisogna chiedersi se un piccolo aneddoto la rivelazione di uno stato d’animo non saranno cioè manipolate per attaccare la terapia anziché per aiutarla. Può succedere.
Infine bisogna sempre sapere quello che si sta facendo. Mi sono accorta per esempio che la mia percezione della self disclosure è spesso una sorta di superstrada tramite cui far arrivare dei concetti, saltando una serie di passaggi intermedi che ne garantiscano una più autentica acquisizione, e questo può essere un peccato perché le migliori acquisizioni in terapia, sono delle costruzioni individuali di cui il clinico è principalmente testimone. Dire qualcosa di se, offrendosi come esempio può allora implicare che il paziente capisca un’esperienza in maniera passiva, come complemento oggetto della narrazione e non come soggetto, e magari l’acquisizione diventa parziale, di facciata, alle volte ancora una volta testimonianza di un ego ipertrofico, di fronte all’ego dell’assistito che si autopercepisce in fase di costruzione e qualche volta – come invaso.
Tutte queste considerazioni, non mi fanno pensare però che la self disclosure sia una prassi da evitare, e con una certa attenzione e sicuramente un dosaggio modesto – da calibrare da paziente a paziente, e da occasione a occasione, qualcosa che può essere utile a vario titolo.

Alcune self disclosure – sono su temi diciamo innocui almeno per me, o tuttalpiù forireri di riflessioni da dipanare insieme al paziente riguardano per esempio alcuni gusti personali, opinioni personali – in fatto di estetica o di politica (come avevo scritto nel post precedente). L’ammettere un gusto estetico, una passione veniale, un orientamento politico è un mezzo che utilizzo per costruire alleanze terapeutiche, ma anche per offrire una costa umanizzata, limitata, non onnipotente della mia persona di analista, e anche un modo per confermare le percezioni che potrebbe avanzare questo o quel paziente. Mi guida anche il ricordo della mia esperienza quando sono stata al posto di quelli che oggi assisto, e la sensazione di fastidioso gioco di potere che posso aver provato all’idea che qualcuno fosse evasivo su certi dati collettivi e storicamente determinanti. Trovo opportuno quindi non tirarsi indietro davanti a certi quesiti, anche se il fatto che vengano posti non deve sfuggire alla disamina delle parti, perché la possibilità di rispondere in maniera onesta, non deve occultare i bisogni che la richiesta di disclousure o il suo implicito suggerimento – può sostenere: questa persona mi sta chiedendo se ho figli. Perché ? cosa significa? A cosa le serve sapere questa cosa? Perché questa persona pone queste domande mentre altri no? Si fida di meno? Vuole controllarmi di più? Vuole rispecchiarsi narcisisticamente? Non lo vuole affatto? Vuole spostare il campo del discorso? Ancora una volta, quale parte del mio analizzando, mi sta facendo questa domanda?
Di fatto il fornire informazione ha lo svantaggio di far cadere una possibilità immaginativa saturandola di dato di realtà. E’ per esempio interessante constatare di cosa i pazienti si fanno convinti a proposito della vita dei loro terapeuti, perché spesso quelle supposizioni che scivolano in granitiche convinzioni dicono molte cose importanti che riguardano la loro storia personale – ma si tratta soltanto della perdita di una via di accesso a fronte di molte altre possibili, e forse anche questa questione non andrebbe esasperata.

A prescindere da questo, personalmente io metto in campo anche un uso della self disclosure diverso, che è atto a mettere in luce le dinamiche relazionali che un paziente mette in atto. Per esempio può capitare che un paziente mi racconti qualcosa che mi induce un potente stato d’animo, oppure che mi aggredisca in modo tale da farmi sentire ferita oppure mi faccia arrabbiare, o mi scandalizzi, o anche mi trasformi in una madre che vuole spiegare cosa è giusto fare. Allora può capitare che io espliciti lo stato d’animo che provo, e cerchi però di riflettere insieme all’analizzando su cosa sta succedendo. La mia self disclousure sul mio stato d’animo   – es sa cosa mi è successo? Mi accorgo che mi sento arrabbiata per questa cosa che le è successa, ma lei invece mi appare tranquillo, è vero? – solitamente va di pari passo a una esplicitazione degli stati d’animo dell’altro e di poi alla riflessione sulla dinamica relazionale che una certa modalità mette in campo. Spesso lo scopo è il disvelamento di proiezioni e identificazioni proiettive. Si tratta di una cosa interessante e utile nella clinica perché spessissimo, quello che accade in stanza accade anche fuori, ma spesso e volentieri quel che succede porta a risultati spiacevoli per il paziente, perché non di rado sono i risultati che vuole ottenere l’organizzazione patologica, né più né meno ingranaggi di faticose e frustranti coazioni a ripetere. La self disclosure del terapeuta può essere utile a smascherarle.

Infine, esiste un vantaggio come dire di risulta, da questo tipo di scelta operativa, che di norma va detto è particolarmente efficace perché cade o forse crea, un momento di forte tensione tra i membri della coppia analitica, qualcosa che spesso capiterà di ricordarsi ad analisi conclusa e anche dopo. Si tratta infatti di un momento, di solito, di grande verità e vicinanza emotiva, un passaggio che di solito lascia svuotati anche a fine seduta. Io personalmente, ho un’esperienza molto intensa, in queste circostanze – credo che spesso questa intensità arrivi e venga intesa come dedizione, come un atto di onesto mettersi in gioco da parte del clinico. Ma uno dei motivi per cui molte persone vengono in terapia è proprio questa sensazione dolorosa esperita con diverse metafore diverse storie di vita, di non essere stati degni di una dedizione totale, di non essere stati degni di un’onestà che sfidasse le gerarchie di ruolo, o anche al contrario di un’attenzione che era invece invasiva e stravolgente e scardinante le separazioni. Queste piccole rivelazioni del gioco della relazione, sono cioè una prova emotiva che si può stare in relazione avendo del bene, senza farsi del male, sono prove emotive del fatto che – se ne è degni.