C’è un bellissimo romanzo di Pamuk Istanbul, dove un marito molto innamorato, spesso si trova a chiedersi con angoscia che cosa faccia sua moglie a casa, che non lavora. Sa che legge molto, ed è questo lo rende in qualche modo geloso della libertà di lei nel campo dell’immaginifico. Il romanzo si svolgerà poi nella ricerca di questa compagna che a un certo punto scompare – ma qui lo utilizzo volentieri, perché incarna molto bene qualcosa che buona parte delle discussioni – che siano sui ruoli di genere, che siano su occupazione e disoccupazione – eludono: ossia quel che di anarchico e libertario che ha il dominio sul proprio tempo, la zona franca che rappresenta un’ora vuota senza nessuno che imponga come spenderla, quell’aspetto inquietante, destabilizzante che ha, per esempio in un sistema familiare una persona che ha molto tempo per pensare, e un margine di obbedienza ai vincoli di un sistema di obblighi e diritti piuttosto modesto.
Ripenso spesso a quelle pagine di Pamuk, come a quelle altre di Marx ( a cui invece mi rivolgo meno spesso e molto meno volentieri di altri della mia generazione e della mia parrocchia politica e intellettuale) dove spiegava con tanta lucidità quanto il Capitale, sarebbe stato capace di confiscare la libertà dei soggetti, e le fonti di godimento della loro vita privata. Marx non era uno psicoanalista, ma oggi mi viene da aggiungere – che il Capitale confiscando libertà e godimento dei soggetti, confisca anche la maturazione materiale delle relazioni, provocandone violente distorsioni, e forme di malessere successive che permetteranno ad altri psicoanalisti di incrementare il Capitale.
Questa cosa, come appunto Marx aveva individuato, succede a diverse altezze, e il regime di crisi ne aumenta il vigore, rinforzando imposizioni e accordi che eludono sempre di più le regole che la contrattazione sindacale era riuscita a erodere in tempi di maggiore consapevolezza politica delle parti in causa e di più diffuso – quanto in Italia decisamente mal gestito – benessere economico. Perciò succede che moltissimi lavoratori dipendenti si ritrovino a svolgere 40 ore settimanali retribuite sulla carta, a cui si aggiungono spesso e volentieri altre ore di straordinario non sempre retribuito, e ancora tempi di raggiungimento del luogo di lavoro che alla fine si traducono in tempo che stanca, e ancora tempo di obbedienza, e ancora tempo che bisogna togliere alla gestione delle relazioni private. Negli alti vertici della borghesia urbana, spesso e volentieri le cose vanno solo per un verso meglio -il verso che ti fa dormire la notte perché sai che il tetto è sicuro – ma per altri versi la confisca del Capitale è altrettanto potente: si vedono bambini portati a scuola dalla Tata, cani portati a spasso dalla colf, libere professioni che ritengono che, per sopravvivere al regime di concorrenza bisogna per forza stare sul pezzo 15 ore al giorno. Il capitale segue il vecchio adagio latino: dividi et impera, scatena lotte fratricide e rendi perciò tutti più sottomessi.
Ora l’obbiettivo di questo post non è quello di porre uno sguardo politico o economico su questa situazione, per il quale dubito di avere i mezzi. Né la citazione di Marx deve trarre in inganno rispetto a teoresi anticapitalistiche radicali che non condivido – ma questo è un altro post, quanto piuttosto vorrei ragionare su qualcosa che comunque credo sia opportuno arginare, perché mi pare – che allo stato attuale dell’arte, siano sovradimensionato alcune categorie della vita psichica e completamente sottodimensionate altre, se non più importanti almeno altrettanto importanti, e che riguardano il tempo del privato. Dall’alto al basso si premia il ritorno narcisistico, l’idea di se come efficace, la capacità di tradurre in oggetto qualcosa che magari non c’è, ma anche l’istanza superegoica, la capacità adattiva, il valore del contenersi. Mentre ci si industria a fare tutte queste cose, e quindi a mantenere sempre buoni i rapporti con il capitale, il privato diviene un campo alieno e subappaltato – con tutta una serie di derive estreme, a cui probabilmente un cambiamento che fa fatica ad avvenire per tutti in termini di ruoli di genere, da il suo contributo. Cercherò di mettere per punti, l’elenco di queste derive, con alcune aperture a eventuali riflessioni ulteriori.
- In generale, si fanno pochissimi figli, che non si vedono crescere. Il che può ingenerare una serie di conseguenze importanti. I pochi figli che non si vedono crescere sono, in quanto pochi – i depositari unici di una immortalità, di una eredità identitaria che è enorme e pesante per loro, unitamente, in quanto pochi, sono oggetto di una attenzione mentale abnorme e ipertrofica (ah la retorica del tempo di qualità!) e allo stesso tempo in quanto costantemente lontani vissuti come minacciosi, segreti, antagonisti, misteriosi, giudicanti. Lavorare tanto rende l’idea del fare i figli onerosissima, ed emotivamente insostenibile, un secondo complicato lavoro oltre il lavoro, un onere terribile, una prova insormontabile. La qualità di un essere con è sostituita con una serie di garanzie prestazionali, che renderanno il poco essere con avanzato oggetto di sinistre proiezioni. Sui figli in questo modo aumentano gli investimenti narcisistici, le richieste prestazionali, il tutto in un lessico che elude completamente le categorie del desiderio, del piacere, dello stare bene facendo bene delle cose, ma che invece si incistano sempre di più sul dimostrarsi capaci, sull’assecondare dimostrazioni di status, sul compensare con la prestazione ciò che non si ottiene per altri canali.
- La confisca del capitale del tempo privato, costringe a subordinare le proprie relazioni private a terzi, con una ricaduta sulla salute psichica dei soggetti. La ragione della mia moderata ostilità all’organizzazione patriarcale, è in questo senso dovuta al riconoscimento che in quel tempo di divisioni rigide, qualcuno nelle prassi – per lo più le donne – continuavano a intitolarsi oneri e onori delle relazioni intime, da cui il maschile si era autoestromesso. Ora il capitale costringe tutti a evadere il piano delle relazioni private, e quelle ora vengono date in affido a terzi, parenti per esempio o personale retribuito (altre donne, spesso – più povere, ma sempre altre donne). Con una serie di conseguenze importanti e non sempre salubri, sul piano della percezione di se, dell’autostima, dell’efficacia e anche in certi casi dell’emancipazione verso un proprio processo di individuazione.
Per esempio, quando per motivi di lavoro ci si trova a chiedere ai genitori, di prendersi la prole dopo scuola, con costante regolarità, viene da se che i genitori si sentano titolati a esprimere scelte educative, a dare consigli non sempre necessari. Se una madre o un padre non sono riusciti a svincolarsi dalla famiglia di origine, in questo modo la prole cementa ancora di più una situazione di invischiamento consistente per cui alla fine, chi è diventato genitore per un verso può non sentirsi tale, ma solo un figlio un po’ più cresciuto. Parimenti, delegare completamente a baby sitter o badanti il proprio ruolo relazionale, perché confiscati dal lavoro, qualora ci siano delle forme di insicurezza latenti, delle nevrosi potenziali potrebbe renderle operative, con un’immagine della baby sitter o badante o che, come capace di fare ciò che non si è capaci di fare, come titolare di una capacità relazionale che si crede di non poter avere. Non di rado questa cosa si traduce in un’esperienza di perdita di autorità, di esemplareità, per mio figlio – si dice – da retta più retta a me che a lei. - Infine, le stanze degli analisti sono sempre più piene di gente senza ricordi. Naturalmente questo vuoto del ricordo è una manovra difensiva rispetto a qualcosa di vissuto come spiacevole, e ha a che fare con i dolori privati. Ma mi prendo questa formula un po’ letteraria per parlare della sensazione che lascia un magro essere con. L’assenza di una routine strutturata, foss’anche uno stare insieme pacifico di due soggetti – un piccolo e un grande? , ma anche, due grandi? – che fanno le proprie cose in uno spazio condiviso e sicuro.
(E quindi tutto questo per dire, lottare come si può per riprendersi quello spazio condiviso, e il piacere di farci le cose dentro)