Cultura, Insight, creazione, trasmissione.

 

Era il 1992 – non avevo manco vent’anni – ed ebbi l’occasione di andare a vedere una mostra al Grand Palais  su Toulouse Lautrec. C’erano moltissimi pezzi, io ero a Parigi per qualche giorno, non mi feci sfuggire l’occasione. Ero giovane all’epoca e per Tolouse Lautrec nutrivo un interesse molto modesto. Ne capivo la parte mimetica dell’epoca storica, e il messaggio meramente testuale delle tele, o dei primissimi lavori pubblicitari. Andai perciò con poco entusiasmo.
La mostra era fatta molto bene, e c’era anche una grande stanza con due tavoli, dei cataloghi in diverse lingue e delle sedie. Tu ti potevi mettere li e studiare il catalogo, a sua volta molto ben fatto con molte spiegazioni critiche, e una ricca nota biografica.
Ci persi molto tempo, e vissi una sorta di rivoluzione copernicana dell’estetica. La mostra mi piacque moltissimo, e rilessi i lavori in una maniera completamente diversa. Ancora oggi, uno di quei quadri esposti per me, è un’insuperata rappresentazione di un tragico psichico, di un lutto inevaso del maschile nel suo rapporto col sesso, per me insuperabile.

A quell’esperienza penso molto, perché mi ha molto impressionato il potere che ha avuto il sapere nel mio godimento. Cioè prima un autore non mi era piaciuto, poi invece mi era piaciuto. Nel senso proprio di piacere, di dire oh che bello, nel senso del piacere sensibile. Avevo letto delle cose, e ora, una donna nuda riversa, mi arrivava in un altro modo.
Sicuramente ero giovane e il commento critico del catalogo mi aiutava a mettere nello sguardo cose che erano fuori, o sull’orlo, della mia esperienza. Oggi, più di vent’anni dopo, probabilmente anche grazie al mestiere che faccio, ma anche alle cose della vita privata che mi sono messa alle spalle, come ognuno di noi – forse ne avrei meno bisogno. Ma è stata un’esperienza molto importante per me, un monito perenne.
A un livello diverso ho provato qualcosa di non dissimile quando all’università ho dovuto affrontare la Critica della Ragion Pura – che dovetti studiare molto e per molti giorni – mesi – e che cominciai ad afferrare intorno alla quarta lettura, con molti testi critici affianco. E mantengo sempre sveglia l’attenzione – perché sono anche affascinata dal fenomeno dal punto di vista strettamente cognitivo, che in effetti ha qualcosa di magico – per accorgermi di quel momento in cui, un insieme di nozioni immagazzinate in cronologica successione si costellano intorno al loro oggetto di riferimento e lo riconfiguravano in qualcosa di completamente altro cambiandogli forma e aspetto. Per altro verso – la stessa esperienza che mi capita di rivivere quando lavoro con i pazienti con certi loro sogni, e poi ci si mettono intorno le loro associazioni, e le suggestioni dell’inconscio culturale e archetipico. In sostanza quello di cui parlo– è la microfisica dell’insight.

Tengo a mente queste successioni di cambiamenti interni, le storie dei miei insight vissuti come più clamorosi, e li ricordo con particolare veemenza quando penso alle richieste che si fanno all’industria culturale. Sia in termini di prodotti estetici che di prodotti critici. Anche solo stamattina, a proposito di un film ho letto una persona colta e istruita scrivere qualcosa come: un film perfettamente riuscito è un film che capiscono tutti. E lo diceva con la pacata consapevolezza di un etica condivisa dalle persone più giuste. Oppure sulla mia pagina Facebook un accademico molto serio scriveva grosso modo: tutto può essere spiegato in maniera comprensibile. Questa teoresi condivisa dell’immediata accessibilità per tutti, per oggetti estetici e per contenuti di saperi specialistici,  ha una base nobile e autenticamente consapevole delle proprie responsabilità cos’ come è legittimamente critica verso certe civetterie di classe tipiche delle elite intellettuali. Ma per me rimane una posizione è demagogica sotto il profilo politico, financo persino classista, e elude alcune importanti questioni.

In primo luogo, bisogna tenere sempre a mente che noi non viviamo su un nastro lineare su cui si succedono esperienze, sempre nuove e dimentiche di ciò che è vissuto nel frattempo e prima. Noi invece produciamo oggetti che sorgono su una successione di strati che sono le biografie, la storia e la geografia presente intorno a quegli atti creativi, ma anche i linguaggi,  le letture e i pensieri e gli oggetti culturali che un determinato autore, pittore, filosofo, soggetto culturale individuo e gruppo produce. Quando questi oggetti presupposti sono tanti, sia l’estetica che il pensiero intellettuale possono sintetizzare quelle costruzioni di presupposti in termini sincretici – quelli che sono per esempio le soluzioni gergali. Alcuni testi di psicoanalisi per esempio possono essere davvero difficili da capire perché fitti di termini che servono a sintetizzare una lunga serie di acquisizioni e che potrebbe essere noioso, troppo lungo riproporre per filo e per segno ad ogni frase. Vale per la psicoanalisi, vale per l’economia politica, vale per la critica d’arte. Io a leggere il catalogo di Tolouse Lautrec ci impiegai un pomeriggio. Ore. Così come, per spiegare il concetto di identificazione proiettiva a un profano ci posso mettere una ventina di minuti, o un lungo paragrafo.

La questione del tempo a disposizione è allora altrettanto dirimente della questione della semplicità lessicale. Tante cose sono difficili e non accessibili non tanto per la costruzione del discorso che portano avanti, che invece è semplice, paratattica, non particolarmente arzigogolata, ma perché di fronte alla problematica del tempo e dello spazio – interlocutore sei disposto a perdere delle ore per capire questo oggetto che è solo il mattone di quell’altro di cui sto parlando? –  si abdica. Ci sono due possibilità: o dire una parola semplice che evochi alla bell’emeglio quello che la complessità voleva esprimere, ma in realtà è sempre un’altra cosa, proprio materialmente diversa, oppure devo usare una parola complessa, in gergo per esempio (es. Controtransfert, identificazione proiettiva,) oppure con una metafora che cita qualos’altro (non so, si pensi a certi scene di Antonioni) per cui o hai già un arsenale di conoscenze che ti permettono di cogliere quella cosa, oppure te le devi procurare, senza andare ad accusare la produzione intellettuale di una mancanza di qualità che invece riguarda di più l’ampiezza del tuo arsenale di conoscenze.

Io non trovo ideologicamente giusto sostenere che tutti devono trovare tutto accessibile. Trovo politicamente necessario proprio perché perduto, dire che tutti devono trovare gli strumenti che gli procurino gli insight e le chiavi di accesso alla comprensione di un oggetto complesso. Rivendico un modo diverso di concepire la divulgazione o la mera produzione di oggetti estetici. E rivendico volendo essere espliciti, un concetto diverso di sinistra. Non voglio più cazzate per tutti, non voglio manualetti per l’interpretazione fai da te, voglio libri per tutti, che siano scalini, mattoni che portino ad altri, che siano messi a disposizione, e che se ne spieghi la necessità.

Lettera che scrissi a Giulietta. Sui miei viaggi in Germania

Arrivai una sera d’inverno nella casa della luce di Magritte, suonai il campanello sotto al lampione, e mi aprì un odore forte di marijuana e cannella,  e dietro all’odore occhi grigi e pochi denti. Un uomo curvo, con una gran barba.  Ci demmo la mano, ci presentammo, un cane sbatteva la coda contro il muro e c’era moquette consumata. Mi portò in salotto. Sprofondò nel divano, sorrise. Dappertutto tabacco, briciole, disegni a china. Un asciugamano, la televisione accesa –  qui avrei vissuto. 

Non lo sappiamo, quando apriamo una porta, che dietro ci sarà un amico. Si comincia a parlare, si dicono delle cose formali, com’era il viaggio, che cosa devi studiare, quanto pensi di rimanere. E te non lo sai, che dietro al suo nome ci saranno serate impilate come tovaglie nei cassetti, a ridere fino al centro della notte, a ridere in un tedesco smozzicato come un torrone, a smozzicare dolci come fossero libri, a parlare di mondi fino a ieri nemici, a fare pace noi, al posto dei padri.

Germania. Gli ebrei e i filosofi hanno bisogno di guardarla almeno una volta. Io all’epoca mi sentivo molto entrambe le cose ed ero partita col cuore diviso: metà ammirato metà accoltellato. E nelle strade con le mani dei tronchi nudi e con l’asfalto disegnato, sentivo le macerie sotto i piedi, il sangue sulla pelle e l’alito dei libri che non smettevo di amare. Guardavo questi begli ariani con gli occhi d’acqua e le ciglia folte, guardavo le madri che chiudevano i cappotti dei bambini, guardavo gli uomini che toccavano le gambe delle ragazze. E pensavo: ma guarda questi tedeschi, gente che scrive lettere d’amore.

Mi piacevano certe sere lavate come tazze di latte, bianche di neve possibile, e mentre camminavo, dalle finestre entrava il giallo delle cucine e magari il rumore delle pentole, e alla fine, parrà strano, ma c’era profumo di metafisica, di parole lunghe come corridoi, parole come boccoli di parrucche. Eigentlichkeit, Herrschaftsansprüch, Bewusstsein… Guardando gli stivali sui miei passi  me le arrotolavo nella bocca e le interrogavo, perché la metafisica è qualcosa che dal cielo guarda alla terra  – non il contrario.

(Dimmi allora metafisica perché ad alcuni di noi hai dato un coltello e ad altri di noi non hai dato uno scudo.)

(Dopo Auschwitz anche scrivere una poesia è cosa barbarica)

(Ma forse ci si può guardare negli occhi l’un l’altro – noi che siamo venuti dopo, trovarci le scorie nelle righe dell’iride – e negli spacchi delle labbra la chimica del dolore-)

Nella casa della luce, il mio amico una sera mi stirò la sua vita, e tutti i giorni della Germania si appiattirono sul tavolo assieme ai suoi, il pane senza olio e senza burro, il muro fino al cielo e senza il sole, silenzio e colpa, silenzio e colpa, silenzio e colpa. E raccontò di quell’anno che magico fu per tutti, l’anno del sesso, e delle grida, l’anno della libertà e dei giardini nei cannoni, ma che per lui e i suoi compagni, fu l’anno in cui togliere le svastiche dal fondo della sabbia,  guardarle e rigirarle nelle mani. Tenerle e ferirsi, e mostrare ai padri le mani sporche di sangue.
E così Giulietta curiosa, io voglio bene a questa Germania  col mantello stracciato. Mi ha chiesto perdono, e io gliel’ho dato.

Alma, Anima. Il film junghiano di Anderson

 

 

Ieri sera ho visto il Filo Nascosto, l’ultimo – notevolissimo – film di Anderson. Mi è piaciuto molto, mi è sembrato che utilizzasse al meglio l’artigianato cinematografico: tutte le manifatture che solitamente concorrono alla riuscita di un buon film qui sono utilizzate per confezionare la forma intermedia e sottile che un po’ sembra sogno che un po’ realtà, un po’ verosimile un po’ incredibile fino alle soglie del realismo magico, fino all’archetipo della fabula. Il film pretestualmente parla di un romanzo specifico: quello di un grande aristocratico quanto nevrotico sarto, che finisce per innamorarsi di una donna carismatica e decisa con una sua venatura sadica. Parla però anche delle dinamiche psichiche del maschile e del femminile, del maschile interno alla donna che sceglie un certo uomo e dell’uomo che sceglie una certa donna. E’ un film che si presta a una lettura specificatamente junghiana dove i costrutti del genere si chiamano Animus per il maschile e Anima per il femminile: la protagonista del film – si dice in omaggio a Hitchcock (continuamente citato) si chiama per l’appunto Alma. Anima.
Ora io vorrei parlare di questa lettura psicodinamica del testo filmico, che vorrei qui trattare come se fosse un sogno. Ma preliminarmente voglio sottolineare come tutte quelle vie dell’artigianato cinematografico abbiano concorso a questa resa estetica: per esempio le musiche sospese che ricordano Arvo Part, la fotografia – veramente bellissima – piena di scene volutamente simmetriche, coreografiche neoclassiche, una retorica degli spazi che mette al centro il simbolo, l’uso dei colori che -come mi ha insegnato Cromorama di Falcinelli – usa una pellicola satura di colori freddi – blu grigio bianco – per raccontare la storia di una coppia interna congelata dalla distanza e dalla diffidenza verso il sentimento – contro i colori caldi, il baluginare della fiamma del contrappunto nel raccontare di lei alla fine, e di come sia riuscita a far approdare l’eroe del film all’amore e alla relazione, al torrido rischioso dello scambio reale.

Mr Woodcock è un sarto di grandissima fama nella Londra degli anni 50. Ha un atelier dove vive con la sorella, e dove disegna e prepara vestiti per l’aristocrazia sociale londinese: nobildonne, attrici, ereditiere. Un’ossessione edipica cosciente, è il pretesto psichico a cui lo stilista appende una serie di solide ed estetiche psicopatologie: l’amore mai spento per la madre, è il vessillo che sostiene il terrore per qualsiasi relazione reale, novità emotiva, scacco dell’inconscio. E’ un edipo talmente cosciente da essere pretestuale e questo ricorda davvero un po’ la critica che Jung fece a Freud e la causa della sua separazione da Jung nel lontano 1911. L’organizzazione edipica e la persistenza della sessualità edipica come origine del mondo psichico gli sembrarono all’epoca insufficienti – così come in questo film la vicenda psichica del materno ha un sapore pretestuale. Il terrore rispetto alla possibilità della dipendenza, e alla preconscia consapevolezza di quanto potrebbe cadere nella subalternità emotiva, fanno stare Mister Woodcock arroccato in una torre di cattiveria, di cinismo e di distanza controllata da qualsiasi cosa sia vitale: non solo non riesce a tollerare qualsiasi rumore di un’esistenza materiale: nessuno deve non solo parlare durante la colazione, ma neanche adddentare una fetta biscottata, ma lui alla fine le donne le veste, non le sveste, cuce loro scintillanti armature, che stilizzano il corpo in una forma che disincarna la carne. Abiti bellissimi quanto scomodi – stimmate di potere ma non di erotismo. Abiti pensati per persone che dovranno fare fatica a sfilarseli. Un vestito a sirena – che all’epoca imperversava nelle serate di gala – non sarebbe mai uscito dall’atelier di mr Woodcock.
Troppo allusivo.

Quando incontra Alma, è uno scintillante scapolo d’oro che si tiene in vita con le sue risposte narcisistiche, e si compiace delle sue necessità spacciandosele per scelte di lussuoso potere. Alma è la cameriera di un ristorante di campagna, con una sua eleganza e una forza di carattere che ha sfumature inusitate per i clichet dell’epoca –reali e cinematografici – e per gli standard relazionali di Mir Woodcock. Per tutte le altre la teoresi della tirannia del sarto, le sue bizze e le sue manipolazioni cattive, erano coerenti ai complessi di inferiorità che le affliggevano e venivano lette come forme di comportamento coerenti con la logica di status. E’ un artista, è una persona ricca che ha fatto molti soldi, che frequenta persone ricche è logico che mi maltratti a me ragazzina senza doti forse solo un po’ carina ma comunque piuttosto povera. Alma fin da subito stana l’organizzazione patologica dell’uomo di cui si innamora, è forse attratta dalle modalità sadiche di lui che il film rivelerà come ben si gemellano con le proprie, lo sceglie, lo vuole per se, lo conquisterà.

E lo conquista, non tanto cercando di contrapporsi sul piano di realtà ai capricciosi esercizi di potere di lui, ma innamorandosi e cercando di stanare il mondo interno bisognoso e attratto dalla subalternità. Lo stana in un modo eterodosso, ossia somministrandogli mischiati vuoi nel tè vuoi nel cibo, dei funghi velenosi che lo fanno stare malissimo fisicamente per giorni e quindi lo costringono all’esplorazione del bisogno e della dipendenza, al pensare all’altro. Il film è dunque il bildungsroman di un maschile malato, che non può non avere una femminilità malata come miglior opzione per stare un po’ meglio: una donna sana non avrebbe mai accettato di stare accanto più di un quarto d’ora a un simile pallone gonfiato al primo mangia piano avrebbe infilato la porta e arrivederci e grazie – ma Alma è sadica perché ama il sadismo, è attratta come una madre da questo maschile sempre sulla difensiva, e per questo solo lei è in grado di portarlo a un gradino di funzionamento psichico superiore di quello su cui si è accomodato. La scelta di regia dei funghi velenosi è molto onirica e favolistica – un sogno che un certo tipo di persone sarebbe cioè auspicabile facesse, perchè l’amore ha a che fare con la morte,  con il rischio e il fungo velenoso ma non mortale, è una metafora davvero auspicabile. Alma, poi riesce a farsi sposare ma anche a esporlo all’esplorazione del bisogno di lei, anche senza avvelenamenti. A Capodanno va a ballare, contro il volere di lui e lui rimane solo a fare i conti con la necessità a cui iscrive maledettamente la caduta del narcisismo nella condanna dell’essere con. E’ costretto ad andarsela a prendere. E il film finirà con loro che riescono ad avere un bambino e a ballare insieme, – al centro della scena di una festa finita. Scelta retorica della fotografia che aiuta a capire la portata simbolica.

E’ un film bellissimo davvero, molto sofisticato. Credo che abbia qualcosa di così psicologicamente veritiero e forte nella comunicazione per cui alcuni l’hanno trovato reazionario – un giudizio frettoloso e poco meditato considerato i personaggi e il regista – e molte se ne sono sentite irritate. Io credo che non vada letto come il film che narra semplicemente una storia reale, io credo che sia un film che si muova sulla fabula, sul sintomo sul complicato rapporto tra maschile e femminle, oppure tra autarchia e dipendenza, forza e debolezza quando si irrigidiscono negli opposti. Forse anche fra arte e vita. Ma vale la pena vederlo per scegliere il piano simbolico che più si trova interessante per se, l’importante però è che si sappia di dover accettare un gioco rappresentativo e farsi prendere per mano.