Ciao Philip. Un saluto molto sofferto

Se proprio m’avesse dovuta mettere da qualche parte, sarei stata una di quelle prime mogli da cui essere incantanti per i primi dieci minuti della tardiva adolescenza del protagonista, per poi essere gloriosamente cornificate nella restante parte del romanzo e descritte con corposa malagrazia nelle comparsate di fondo trama. Oltretutto, io e le mie consoce, ebree o intellettuali abbastanza intelligenti da amare i suoi libri, alcune persino così brillanti da farci una carriera accademica attraverso, non avremmo neanche potuto blandamente concorrere al trono narrativo della Grande Madre, le pagine immortali del parzialmente riuscito Complotto contro l’America dove quella meravigliosa signora era stata capace di tranquillizzare al telefono il figlio di un’altra, mentre l’ossessione fascista incalzava allucinata e persecutoria.
Questo amore non corrisposto, questa nevrosi divenuta stilema non gliel’ho mai perdonata, la buona scrittura di Roth ha reso, sicuramente suo malgrado, il suo sessismo un contenuto politico, e come tale l’ho trattato e pensato – per quanto il mio sguardo professionale ne abbia sempre sospettato radici private più che culturali. Le madri ebree sono spesso intellettualmente forti, e molti colleghi di Philip ne hanno fatto ritratti pacificati e fedeli, capaci di gentilezza. Ma se fossi uno scrittore non vorrei che si facessero dietrologie analitiche su un privato mio altrimenti inaccessibile, mi sono tenuta le mie congetture professionali e il mio dispiacere narcisistico.

In ogni caso, col tempo ho guardato allargarsi l’irrimediabile distanza con l’autore di cui ho collezionato prime edizioni italiane. Col tempo l’ho pensato e trattato come un oggetto politico più che come un oggetto estetico, e anche ora che sono così dispiaciuta della sua morte, non me ne pento. Io sono una di quelle che per esempio riconosce la precisa matrice ideologica del Nobel, la sua connotazione storicizzata, il fatto che incarni una classe di valori rispetto ai quali il talento narrativo è solo secondario, e no, non mi sono mai stupita del mancato conferimento. Sotto un profilo politico sono stata soddisfatta di quell’assenza.

La letteratura è piena di scrittori reazionari e ben peggiori chi per talento chi per cattiveria e certamente per conservatorismo, e la materna indulgenza con cui vengono stipati nelle librerie da chi combatte le battaglie che quella prosa non aiuta a vincere è proporzionale a un disinteresse, un affetto mancato, un assenza di parentela. Celine è un grazioso talismano, per dire, Ezra Pound un antico gioiello in fondo al mare, perle rare da mettere in teca, che niente hanno a che fare con la vita. Dopo di loro,  troviamo per lo più animali di talento misurabile con il righello, topini da esperimento accademico, e ancora più sotto,  insetti da inventario, libri senza ristampa, una sequela infinita di pane adatto più ai sociologi che ai critici letterari, o ai cosiddetti lettori forti.

Ma Philip Roth  a una certa generazione di lettori, e in particolare di lettori ebrei, ha regalato la narrazione di un mondo, ma a dir meglio di un certo modo di essere ebrei: l’ebreo che non è ebreo ma lo è lo stesso, che litiga con i padri ma mai del tutto, che celebra mediante dissacrazione, e quindi come ogni dissacrazione che si rispetti, torna a sacralizzare: non c’è niente di più pio, di più edipico di una bestemmia. Alla nostra adolescenza culturale, noi ebrei figli di quelli con lo Shabbat di ordinanza e il Talmud in mano, con i nonni sudditi del collegio rabbinico e della dieta kosher, noi co un piede legato all’identica invincibile e atavica e l’altro nel magma di un presente laico, postmoderno, erotizzato, fluido, noi abbiamo trovato una città, una casa, una seggiola. O anche: una carta d’identità. O anche la letteratura sul nostro linguaggio sulla nostra levità, sul nostro umorismo. E posso immaginare che quella scrittura così precisa, esatta a descrivere un luogo della psiche e del paesaggio abbia dato un abbraccio affettuoso anche ai nostri fratelli atei figli di cattolici devoti, i nostri compagni di corso alle lezioni su Marx ed Hegel, i nostri amici di calcetto con la nonna a messa che però a messa non ci andavano più. Negli anni della morte delle grandi ideologie, noi che stavamo all’elettrizzante fresco dell’aria aperta ci sentivamo felici e nobilitati. Leggere Roth ci faceva sentire intelligenti, certe pagine riuscite con addolorata precisione, ci davano pensieri decorosi e non indegni, il cinismo – pane del mio mondo e della mia generazione – e certe sue romantiche dolcezze non erano più immorali, ma anzi l’esito di una consapevolezza perfino tragica. Quest’uomo con un talento importante per l’estetica e un consistente carattere di merda ci ha fornito una cuccia, ci ha fatto capire delle cose di noi stessi.

Di quella restituzione identitaria e del piacere nel trovarla così narrata, anche se per me e per tutte le giovani ebree non c’è stato mai gran posto, sono stata molto grata. Da Addio Columbus in poi,  ha edificato nella lettura una relazione e un affetto persino una gratitudine che ora mi commuove. Philip Roth come l’amico più grande degli anni più belli, Philip Roth come il ricercatore a contratto che spiega le cose agli studenti troppo amici, Philp Roth come il cugino fico con cui sperare di uscire una sera, quello giovane come te ma un po’ di meno da ammirare, perché parla di te.

Poi tu diventi un altro, l’affetto non si cancella, neanche una comprensione profonda, il tuo rapporto col sacro migliora più di quanto sia successo a lui, il tuo stare nella vita non si riconsce più nel suo, e rimane questo strano affetto, strano davvero tantissimo, persino tenero ora che se ne va e pure consapevole di questa distanza di carne di ossa, di pensieri, di stare al mondo. E forse questo non è un gran post di critica letteraria, io d’altra parte faccio un altro mestiere, ma testimonia di quella visceralità che c’è in certe letture, nella vita di un lettore forte.

Quindi ecco, Philip volevo dirti – Uffa. E poi ciao. Grazie.

 

Un post banale

 

C’era  un certo punto di flessione, di non ritorno nelle sue amicizie di ragazzina, che combaciava con il momento in cui una delle due amiche pensava dell’altra: “ora non la chiamo più e vediamo se mi chiama lei”,  “vediamo se mi dice qualcosa”, “vediamo”. E siccome quel punto di non ritorno era in realtà la radice di uno scisma, la punta dell’iceberg di una differenziazione incipiente e in quell’era della pelle e delle ossa – poco gestibile, anche quando fosse arrivata la telefonata attesa, non poteva saziare le aspettative, non era veramente profondamente interessata, la telefonata attesa obbediva a un presunto senso del dovere verso l’amicizia come Totem, come altare sotto cui deporre testimonianze di devozione.

L’altra, la telefonante colpevole, l’obliatrice di attenzioni necessarie, percepiva questa sostituzione della spontaneità con un atto di dovere, l’inquinamento dell’affetto con il gioco di potere e se ne stava divisa tra memoria delle risate e rancorosa protesta, gratitudine per il passato e pugni sui fianchi, con la leggerezza trasformata in un impegno lavorativo, mentre tutto si asciugava e si cambiava entrambe, ognuna più domestica con la vita propria e con il mondo intorno e meno bisognosa delle dipendenze d’alveare. Una volta telefonava, un’altra no. Entrambe pensavano cose terribili tutte sul fronte dei doveri reciproci, ed occultavano il problema dei punti di svolta della vita, della materia del carattere, della qualità delle cose che si vogliono e non combaciano più. A un certo punto, al fondo di quella perdita di sintonia, si sentivano giudicate l’un l’altra.

Da vecchia, tra i vari sintomi del futuro che s’accorcia e del passato che s’allunga, avrebbe imparato a riconoscere il rischio del punto di flessione, ma anche a gestire amichevolezze con distanze più sicure, in cui possono ficcarsi dentro tante cose, ragion per cui ci sarebbe stato poco spazio per i tradimenti e le sorprese identitarie ma abbastanza profondità di prospettiva per vedere l’interezza del corpo psichico dell’altra, quali sono i gesti routinari della sua anima, quali pietanze sanno cucinare i suoi sentimenti e quali invece non sono proprio in grado, il colore dei suoi atti politici e del suo posto sociale. Non avrebbe più richiesto doveri, non avrebbe più obbedito a ordini, non avrebbe più considerato necessaria una affinità totale e radicale con tutte le parti di se, e se nonostante questa acquisita capacità di stare con le differenze una relazione si dovesse sfilacciare, ora forse sarebbe capace di fare una rimostranza sostanziosa, ma anche di dispiacersi, di aprire una lontananza definitiva o provvisoria, di sopportare questo fatto curioso per cui le relazioni sono come fisarmoniche, uno di quegli strumenti che, ora si pente, avrebbe voluto imparare a suonare.

Racconto della sera

 

L’avevano chiamato Pantano, dopo una notte contadina e leggendaria, i cui contorni si perdevano oramai, per via delle innumerevoli volte in cui era stata raccontato, quello che fu il primo sasso della sua mitopoiesi, la radice di un’autorevolezza già al tempo sospettabile. Pantano in quella notte lontana era un ragazzo corpacciuto, ombroso, troppo pigro per la lotta e per quegli anni infernali, refrattario al contrasto dunque, propenso invece, dopo le lunghe giornate di lavoro (mele, soprattutto. I primi kiwi – una stagione che comunque durò poco) a dissertazioni astratte e svagate, ai libri, alla carta stampata da reperire in modi incongrui. E dunque un suo amico si era ficcato nei guai, con certi stronzi della zona, un tipo astratto come lui e ben più esile, un po’ ladro vi è da dire, ma a suo modo magico e poetico, e Pantano per difenderlo da alcune angherie, s’era fatto improvvisamente audace e sfidante. Pare che a dei tavoli di legno di un locale sciatto, e qui il passaggio narrativo si fa convulso e confuso, fosse caduto in una zuffa, con uno di quei baronetti della sfiga che si infilano tra gli ultimi. Comunque, in una successione cinematografica di botte e calci, era finito nella melma, insieme all’avversario, l’aveva azzittito con le mani di fango, e ci aveva anche assestato non si sa bene che massima marxista, a chiusura teatrale dell’accadimento, scatenando l’estasi degli astanti, e l’eterna devozione del suo amico impunito.
Donde, il soprannome. Ma anche, un piccolo trono dell’antimondo, che da allora fino a questa fotografia che vado raccontando avrebbe continuato ad occupare.

Dopo, comunque, Pantano aveva provvisoriamente lasciato i campi, dove andava a raccogliere quel che c’era da raccogliere secondo la stagione, e per un po’ si era per messo alla bottega del padre – la noiosa ferramenta della piazza centrale. Ne era scappato, e infine si era trovato una moglie da amare con una granitica e imperturbabile dedizione, in una casa di sassi in mezzo alla vite separata dal mondo. Refrattario alle gerarchie, all’ossessiva e disgraziata soddisfazione di incassi quotidiani, un romantico a modo suo e anche un anarchico in altri termini, s’era messo a far vino, e quello avrebbe fatto per il resto della vita. Rivelò nel tempo una natura ossuta, lineare, cristallina e impermeabile a qualsiasi mollezza morale, e questa intima e tranquillizzante severità si aggiunse, forse per via del matrimonio, un gentile senso dell’umorismo, una magnanimità addirittura naturale. Quando i maschi del paese combinavano qualche guaio lo andavano a cercare per avere una sanzione, un parere, una colpa, una redenzione. Sarebbe diventato più grasso e corpulento, e il suo destino di sciamano, si sarebbe col tempo disvelato in un numero spropositato di occhiali. Beveva con gusto, e fumava eccessivamente. Le sere si sedeva sul retro della casa contornato da innumerevoli bestie di cui era il capo e la madre. Una gatta in particolare, un vecchio cane, alcune oche polemiche – nelle sere d’estate, dopo cena, anche dei rospi.)

Nella foto Pantano è a una fiera di paese, precisamente nell’area dove si arrostiscono le salsicce, e incontra Demetrio, e non succede moltissimo perché si salutano, rispettosi, e cortesi, con un sorriso attento. Demetrio, che si chiama Demetrio come suo nonno, e come il suo trisnonno, e come auspicabilmente si chiamerà suo nipote, ha sempre vissuto a pochi metri da Pantano, in una sorta di versione integrata, apollinea, diuturna e parallela, in una sostanziale condivisione di valori – ma come due rette sottili, o come due vertebre vicine della medesima spina dorsale, che vanno nella stessa direzione, si incurvano nello stesso punto, sorreggono e proteggono lo stesso corpo, ma non possono incontrarsi mai. Demetrio è un lavoratore infaticabile, uno sul trattore dall’alba alla notte, un tempo ragazzino responsabile, bellissimo e solare, estraneo alla colpa e alla notte, leale fin al sapore delle ossa. Su di lui i soprannomi scivolavano come l’acqua sul vetro, senza appiglio alcuno e per un certo periodo era stato poliziotto, tuttavia anche le ombre dell’arma gli erano risultate tossiche e sinistre, e se ne era andato, rimanendo comunque nell’intimo, un uomo di Stato, di legge, un cives. Se delle cose dell’anima si occupava dunque Pantano, Demetrio era il referente di quelle di carta, il depositario delle ragioni nascoste di leggi e burocrazie, il traduttore simultaneo di documenti esoterici che gli venivano sottoposti e che da tirannide lui, trasformava in democrazia. A suo modo era un positivista, un illuminista, il figlio imprevisto di un occidente regale e consapevole, nato per caso in mezzo alle valli, alle mucche e ai campi infiniti. Era pure riuscito a fare soldi, in una maniera onesta, paziente, e tutte queste cose, unite a una bellezza divistica e incongrua gli avevano garantito il trono opposto a Pantano, simmetrico e contrario. Demetrio sovrano delle cose del Sole.

S’incontrano dunque, e si parlano brevemente in un dialetto urbano e mansueto. Non accennano a pacche sulle spalle, né a battute o umorismi – per quanto potrebbero condividere una stessa platea morale, scoprire di stare vicini di poltrona dello stesso comico. Né si informa Pantano della salute della moglie di Demetrio, una principessa caraibica, drenata alla cattiveria negli anni con la pistola, né l’altro parla di vino, di raccolti, di vendemmie. Si danno la mano toccando con l’altra la parete invisibile che li separa, il perimetro della propria nazione interna, la dogana di due modi diversi di stare al mondo, lo spessore di due sintassi che qualcuno potrebbe definire identità qualcun altro epistemologia, un terzo nevrosi. Credono di non avere niente da dire, disconoscono una inspiegabile somiglianza.

Appunti sul materno. Riflessioni alternative

 

 

Noi psicologi analisti, psicoanalisti, psicoterapeuti di diverso orientamento ordine e grado staremmo sempre a parlare di madri e padri, e soprattutto di madri, e di funzioni materne di chi mette al mondo e cura e cresce. Il lavoro artigianale prima, e la ricerca standardizzata poi, i volti dei pazienti bambini, e le storie dei pazienti adulti ci hanno messo davanti, al di la delle nostre storie private e delle chiacchiere collettive, gli effetti un’infanzia difficile, deprivata o abusata, e tutte queste cose ci costellano la testa clinica ma anche quotidiana di cose da non fare. Non bisogna far piangere un bambino a lungo. Non bisogna avere paura che un bambino pianga. Non bisogna far provare al bambino paure che rientrino nell’intollerabile. Non bisogna privare il bambino dell’esperienza del timore tollerabile. Quando abbiamo esercitato, abbiamo patito il dolore terribile di chi ci raccontava un’infanzia terribile, e abbiamo osservato la strutturazione di sintomi duraturi cronici e penosi, e questo ci ha resi come invasati, dei savonarola della puericultura, e spesso ci è voluta tanta vita, magari una nostra genitorialità a nostra volta, a renderci meno molesti e intransigenti, meno morali e moralisti.
Di fatto il rinvio fantasmatico a un modello culturalmente condiviso di una maternità sufficientemente buona è una conseguenza logica della nostra struttura mentale e di quella di chi ci ascolta, d’altra parte più siamo allusivi, includenti letterari e accoglienti, più in realtà è forte il rischio di vendere fuffa. Il crinale tra prescrittività culturale e pressappochismo bonaccione è estremamente sottile.

Per non cadere tra i due versanti allora, gli sguardi psicologici specie più sorvegliati propongono classi di osservazioni e assunti molto precisi e controllati, ai quali volendo si può fornire una estesa nota bibliografica. Da qualsiasi scuola provengano questi sguardi psicologici mirano a un prodotto emotivo e culturale che è il Figlio del nuovo millennio, un bambino che si sente amato e che quindi può permettersi il lusso di amare e di esplorare, che quindi affronterà la notte e il piacere con la giusta miscela di timore tremore e godimento, che saprà avventurarsi ma anche essere fliessibilmente dipendente. A volte le diverse psicopedagogie correnti, e i diversi teorici virano questo modello di figlio a seconda della loro matrice socio culturale, almeno fintanto che non se ne accorgono e magari si sforzano di dominarla: io per esempio mi accorgo di portare avanti un modello di accudimento che premia il pensiero e l’istanza creativa, un certo stile logico improntato all’indipendenza concettuale rispetto al contesto e al dominio logico delle esperienze, altri premieranno un’idea di edificazione dell’infanzia che miri alla leadership e all’eccellenza. Pochi in questo occidente malandato e poco consapevole, pensano mai alla necessità dell’aggregazione, della sopportazione, del sacrificio, dell’obbedienza. Per il momento ce lo possiamo ancora permettere.

Non mi interessa ora, scoprire l’acqua calda della funzione che assolve la psicologia all’interno dei gruppi sociali, non costituisce per me problema l’essere moneta di un orizzonte culturale che trovo abbastanza comodo anche perché connotato da tanti sottogruppi interni, e mi piace mettere alla prova la mia moneta psicologica con quei sottogruppi, che rispetto a me parleranno altri dialetti ideologici, per quanto nell’ampia cornice di un ordine condiviso. Penso però che bisogna fare un po’ di attenzione a una sorta di effetto paradossale che mi pare venga dietro all’esegesi della funzione materna nel migliore dei mondi possibili. Perché mi succede questo, mentre per prima riconosco la necessità di un monito rispetto ai rischi di una cattiva genitorialità dall’altra guardo con sgomento quello che è allo stato attuale dell’arte una sorta di parossismo della funzione genitoriale, il quale per dispiegarsi spesso e volentieri si rifà al mito delle antiche madri, che altro non erano oltre che madri, quando invece quelle antiche madri, erano veramente molto diverse, la psicologia implicita della loro educazione era la moneta di un altro sistema culturale, un sistema di sopravvivenza alla sopraffazione e di inutilità della vita e della morte, e anzi, io credo si comportassero in ben altro modo: una naturalità della genitorialità che poteva serenamente sfiorare la crudeltà.

Io penso questo, specie a proposito dell’Italia – il luogo che si prende il peggio di tutti i mondi possibili, a causa di un boom economico più veloce della crescita culturale e tutto sommato piuttosto flebile come durata. L’Italia è il luogo dove il consumismo e le logiche di performance sono pervasive come il peggio del peggio di tutto l’occidente industrializzato, la famiglia è destrutturata e nuclearizzata come ogni tessuto sociale dove ha vinto l’industria e l’urbanizzazione, ma dove parimenti il welfare è molto carente come in tutte le culture troppo povere per pensare a un servizio pubblico capillare, ed è connotata da una visione della donna, della madre e della genitorialità più vicina alle economie tribali del centro africa che all’occidente avanzato – di fatto lavora solo il 45 per cento delle donne Italiane. Risultato: pochissimi figli, per famiglie dove la madre spesso è a casa.

Tutto ciò si traduce in una quantità di tempo che questa madre dedica alla prole fuori misura, come notevole eè il suo investimento emotivo e narcisistico sui figli, e dunque con una domanda ossessiva su quale dei propri comportamenti renderà quell’unico figlio il migliore dei figli possibili, nel mentre inavvertitamente si attuano una serie di scelte che ostacolano la crescita perché tarate su una madre perfettamente accudente di un bambino che essendo l’unico, o si e no il fratello più piccolo deve sempre essere più piccolo di quello che è realmente, perché è l’unica infanzia disponibile a dare un senso alla genitorialità di coppie che per l’appunto non fanno più figli, o cominciano tardi: bambini che sopra i 4 anni stanno ancora nei passeggini, madri che si sostituiscono a loro nei giochi infantili con i compagni, genitori che perdono orde a fare i compiti delle elementari, madri in continua autosorveglianza del faccio bene e faccio male. La psicologia allora viene chiamata in causa come garante di una genitorialità rispettabile rispetto a comportamenti che per la mera struttura dell’organizzazione familiare oggi, sono per me ipso facto a rischio di elicitare problemi, non per disinteresse ma per asfittico eccesso di cura. Per troppo pensiero sulla prole. Tutta l’organizzazione sociale di oggi, si basa sull’idea che si debbano fare pochi figli, perché per ogni figlio si prevede un notevole dispendio di energie, una reiterata intrusione genitoriale nella vita dei figli.

I comportamenti dannosi che noi analisti osserviamo, e che ci fanno arrabbiare e soffrire in tema di genitorialità sono, in linea di massima, comportamenti derivati da patologie gravi, e con ogni probabilità da esperienze di genitorialità altrettanto deficitarie. Nella maggior parte dei casi un monito potrà essere utile, si fa sempre bene a farlo, ma specie se pensiamo a certe storie terribili, non sarà una buona divulgazione a fermarli: perché un genitore che è cattivo con il suo bambino, attua una cattiveria variamente subita, e sarà difficile che possa essere arginato da un po’ di cultura condivisa. Certamente facciamo bene a parlarne, anche per lavorare a delle soluzioni alternative, per esempio nell’angariato servizio pubblico, per offrire bandoli di matasse, per davvero tanti buoni motivi.

Ma io oggi mi sento di fare un post in contromano, un post così di relazione inversa. Mi sento di dire, allentate la morsa sui vostri figli, siate un po’ meno genitori. Volendo e quasi potendo mi viene pure da dire, facciamone di più di bambini, che sono sempre belli, e più figli facciamo meno sarà terribile morire, e troviamo dei modi per non trattare questi poveracci come gli unici superstiti di una nave che affonda, gli eredi di un impero universale, i nostri soggetti fedelmente rispecchianti, ma che di più devono essere per forza migliori migliori di noi. Perché parte consistente delle patologie di oggi e di domani ha a che fare con l’asfissia dell’eccesso di cura, con l’onnipresenza della comprensione, con il parossismo del materno, che in un infinita gara alla perfezione genera figli all’infinito, che non riescono mai a diventare genitori.