Di questi tempi il tema dell’immigrazione e del razzismo ha acquistato centralità nel dibattito pubblico e mi pare, nel quotidiano di molti. Non che prima non ci fossero episodi razzisti – e non che non ce ne fossero già troppi – ma la sensazione è che siano in aumento. Qualcuno potrebbe, forse non a torto, argomentare che in questo periodo in realtà il razzismo fa più notizia di prima, e una serie di piccoli eventi quotidiani, sono diventati titoli di giornali di provincia, o episodi che rimbalzano nelle bacheche dei social, quindi magari non è che il fenomeno va così aumentando, piuttosto l’immigrazione è diventata un argomento di campagna elettorale e anche di divisione identitaria, il contro e il con che segnano il senso di due visioni del mondo, di pensare lo spazio pubblico e quello privato. Parlare di questa o quell’aggressione razzista diventa anche un mezzo per designarsi e definirsi. Probabilmente anche essere protagonista dell’aggressione o essere protagonista di una difesa all’aggressione. Di questi tempi, a fronte di una condivisa sensazione di impotenza rispetto a grandi mutamenti storici e collettivi così come di fronte alla sensazione desolante di non riuscire mai ad assistere a inversioni di tendenza della recessione economica, e di uno welfare sempre più in crisi, il nigger diventa il complemento di argomento che suona coma una ciambella di salvataggio. Altre differenze tra sinistra e destra non sembrano essere dirimenti – non tanto per la qualità delle proposte, quanto per la desolazione degli effetti. L’Italia è un paese produttore di leggi e burocrazie a getto continuo, una reazione malata e omeostatica che cerca di bilanciare il fatto che le leggi e le burocrazie che abbiamo non riescono a essere pienamente applicate.
Gli antropologi su questa inquadratura, potrebbero comunque fare osservazioni molto più sensate. Io invece qui voglio proporre una prospettiva psicologica perché mi interessa naturalmente, e perché penso che possa essere utile tenerla a mente. Generalmente quando si parla di razzismo le persone tendono a voler eludere la prospettiva psicologica perché temono che implichi ipso facto una forma di assoluzione, ritengono che se si associa un certo comportamento volendo criminoso alla psicologia o alla psicopatologia questo eluderà la colpa e la possibilità di colpevolizzare. D’altra parte esistono contesti così pervasivamente razzisti che al semplice senso comune risulta difficile pensare che siano tutti problematici. In termini di buon senso pare una cosa discutibile. Si può dire che Salvini e tutti i suoi abbiano un problema psichiatrico? E’ corretto? E’ psicologicamente sensato?
La maggior parte delle persone tende allora a pensare che il razzismo è un dato culturale, e la lotta ad esso un’operazione di cultura o di pedagogia. Bisogna insegnare ai bambini a non essere razzisti. Da piccoli. Alcuni ammettono una prospettiva psicologica dicendo: bisogna insegnare ai bambini da piccoli a non essere razzisti perché c’è una sorta di paura delle differenza che nelle nostre remote basi psichiche, e allora bisogna contrastare questa nostra originaria diffidenza maligna con un’operazione culturale.
Ora io penso che di razzismi ce ne siano tanti, e legati a diverse storie individuali e gruppali, fare perciò un discorso generico rimane rischioso e lascia il tempo che trova. Appunto al massimo lo spazio su un blog. Ma in linea di massima però mi viene da dire questo. L’atto razzista è un atto contro l’umano, e di per se per me è sempre un atto patologico. La patologia per me la da la violazione della regola kantiana: usa l’altro come fine e mai come mezzo. Quando ti scordi che l’altro è un essere umano come te, e lo usi come tramite perché lo trasformi in metonimia, in sineddoche, tu stai violando la regola kantiana, e stai cedendo a un funzionamento psicodinamicamente regressivo, non nevrotico ma borderline se non psicotico. Se tu decidi che quella bimba di sedici mesi, in quanto rom è solo il suo essere rom, è il mezzo delle proiezioni cioè che tu metti addosso all’essere rom, e la colpisci col fucile, perché non stai vedendo in lei tua figlia, tua madre bambina, te bambino, tu stai cedendo a un comportamento psicotico. Se tu di fronte a una donna sopravvissuta in mare inneggi alla sua morte non vedendo in lei qualcosa che tu sei, ma una serie di cose che non è esattamente logico proiettare in lei, tu stai cedendo in un funzionamento regressivo.
Gli psicologi di orientamento psicodinamico, per la precisione parlano spesso di meccanismi di difesa -cioè di strutture psichiche che noi utilizziamo per comprendere e difenderci dal reale. Queste difese nella teoria psicodinamica sono gerarchizzate: in alto ci sono quelle più adattive e correlate a funzionamenti psicologici più sofisticati, in basso ci sono quelle più rigide collegate a funzionamenti più arcaici e rigidi. Le prime sono nevrotiche le seconde sono borderline o psicotiche. Fornire elucubrate disamine della realtà è una difesa superiore nevrotica per esempio (intellettualizzazione) stabilire a priori che una certa persona ha tutti i difetti mentre un’altra tutti i pregi è una difesa più border line (scissione). Quindi il razzismo è quella parola condivisa che porta le persone a funzionare in un certo modo e a costruirci sopra una serie di scelte conseguenziali. Qualche volta quella parola è la parola adatta a una psicopatologia franca a monte (va detto: sempre più spesso di quanto si pensi) a volte invece è una parola che porta verso un comportamento psicopatologico.
Il fatto è che, questo oggi può succedere cento volte più di ieri. Tutto con la rete è ancora più culturalizzabile di un tempo, tutto può diventare gerarchia di valori condivisa anche in lemmi che stanno con un piede nella psichiatria. Questa cosa a noi è nota soprattutto in forma di propaganda, che è in genere un sistema studiato a tavolino per portare le persone a funzionare in un modo diverso dal consueto. Ma esiste, da sempre, e oggi di più una culturalizzazione dei sintomi che viene dal basso, che viene dall’incontro tra pari, di cui poi l’alto in caso può approfittare in un secondo tempo.
Per far capire di cosa parlo posso fare un esempio riferendomi a una cosa di cui mi sono occupata anni fa, l’anoressia e i blog pro ana nel web. Ossia: esistono giovani donne con una psicopatologia alimentare grave e avanzata, ragazze che hanno dei ricoveri in clinica, delle storie di intubazione e di rischio di morte, che tengono dei blog che parlano della loro situazione. Questi blog parlano dell’anoressia come di una religione e delle traversie a cui sottopone il disturbo come delle prove necessarie, hanno dei codici culturali condivisi: una dea – ana – e dei comandamenti. Hanno anche dei temi e delle cifre stilistiche ricorrenti: foto di ragazze magrissime, e post in genere molto ricorsivi sul tema della fame e del cibo, o anche del dolore e dei ricoveri, e certo delle persone estranee che non capiscono. Le giovani ragazze che li tengono hanno quasi sempre problemi molto gravi e importanti ma scrivendone fanno rete tra di loro e come dire creano un microcontesto culturale, dove si associeranno altri fattori che si mischiano con il disturbo alimentare. Icone: la danza, la moda. Valori la forza e la segretezza via discorrendo. Credo che possano avere una forza estremamente repulsiva, possono suonare sinistri, ma anche molto seducenti per esempio per esempio per chi ha problemi di marca diversa, ma che hanno a che fare con quella che un vecchio analista – Tedeschi – chiamava coloritura dell’io. L’altisonante dichiarazione di soggettività è terribilmente attraente per chi se ne sente in difetto, e credo che in questo risieda la forza del contagio psichico di molte patologie che scivolano nell’atto criminale. E’ una cosa, questa della culturalizzazione della patologia che diventa oggetto carismatico che per me ha a che fare anche con la seduzione esercitata da altri e vari comportamenti aggressivi. La violenza di genere, il bullismo, le varie forme di criminalità nelle periferie urbane.
Io credo che tenere a mente questa cosa, potrebbe fornire degli strumenti per combattere il razzismo nel dibattito pubblico. Per quanto, anche per non difficili da individuare, questioni personali , io per prima di fronte a una persona razzista posso avere la tentazione di diventare forcaiola e aggressiva – io credo che si debba lavorare a un diverso livello dello scandalo e dell’insulto. Per un verso è giusto reclamare un dovere costituzionale a incarnare il superio di un gruppo culturale per cui è giusto che il razzismo sia sanzionato su base istituzionale, ma per un altro verso bisognerebbe cominciare a giocare di furbizia, lavorando soprattutto su quelle debolezze che rendono la tentazione psicopatologica più allettante. (Questo naturalmente non vuol dire sostituire questa prospettiva ad altre per esempio di ordine etico e giuridico, è un errore che la psicologia stessa non sostiene per prima, e che riguarda le ricorrenti proiezioni di materno che le si cuciono addosso, ma è qualcosa di diverso che può essere messo in campo in questo momento. )