Quando ero bambina, tra i cinque e i dieci anni, ho visto molti western insieme a mio nonno. Di solito stavamo in salotto, lui era un uomo di statura importante, io ero in braccio a lui e i nostri pomeriggi tipici erano: poltrona pistole cappelli e polvere e poi “la domenica sportiva”.
Non ricordo di essermi annoiata in quei pomeriggi. Era anche il modo di guardarli ad alleviarmi da un eventuale fastidio: a posteriori mi rendo conto che c’erano nei commenti di mio nonno, ironia e autoironia. Credo che ci fossero due uomini infatti a guardare quei film: in primo luogo certamente il vecchio europeo, che aveva sposato una traduttrice e una professoressa di lettere, che veniva dalla militanza del PCI e che considerava il genere l’apoteosi di una genuina americanitudo, naif nella sua dicotomica visione del mondo, puerile nel suo ricorso continuo alla sfida delle armi. Con una donna come mia nonna dietro le spalle, tutta la ritualistica del saloon, il pulirsi la bocca col dorso della mano, il tirarsi il cappello indietro sedendosi per poi scannare il primo distrattone con il calcio della pistola, non poteva che essere considerata con sarcasmo.
L’altro uomo che guardava i western era il ragazzino con la quinta elementare che lui era stato, che era andato a combattere imberbe in Africa, che poi era stato con le armi in mano dalla parte dei fascisti e infine, raggiunta la ragione, dalla parte opposta. Questo secondo spettatore riconosceva in certi entusiasmati trasporti contro gli indiani – la risposta di un se stesso diverso: non animale, e manco bambino e manco stupido – ma il maschile il combattente, quello che sa che cazzo si deve fare con i cattivi, e mio nonno ecco prendeva in giro anche questo spettatore – pur non abdicandovi mai, sapeva di essere stato prima di tutto quello. Un ragazzino che voleva diventare uno sceriffo, e per un certo periodo della vita lo era pure stato. Nel dopoguerra gli fu riconosciuto un certo prestigio sociale.
Forse perché femmina, forse perché più figlia di mia madre e di mia nonna, e dei libri dentro casa mi sono rimaste addosso a lungo le tracce del primo spettatore, e abbandonata la poltrona di mio nonno, ho considerato il western qualcosa di grossolano, banale, infantile, poco interessante saturo di stereotipie. Questi paesaggi ocra e mattone dove dominavano colori di polvere, gente che si scannava per ogni sciocchezza, pochissime donne certo un po’ più sboccate e sfidanti delle nostre ma alla fine sempre con la parannanza, tutto mi pareva una ridondante fenomenologia di balletti da gallo cedrone. Li ho trovati a lungo film dannatamente semplici, prevedibili, goffi. A tutt’oggi, avendo lasciato la spocchia eurocentrica battendo i sentieri intellettuali di altre Americhe, non posso dire di amare il cinema western, come in generale ho sempre un’attrazione modesta per la produzione di genere – la quale sui grandi numeri cade sempre nel problema di avere delle norme che ingessano la trama, la scrittura, la sintassi espressiva e ideologica.
Su questo retroterra e con queste aspettative ho letto Lonesome Dove di Larry McMurtry ( einaudi, trad. it Margherita Emo ) un libro che mi ha avvinto per una trama incalzante, e incantata per la grande quantità di passaggi bellissimi – ma che mi ha insegnato delle cose importanti, su cui non avevo a sufficienza riflettuto. Queste cose importanti vanno su due binari diversi al punto tale che quando ho deciso di scrivere un post su questo lavoro non sapevo se occuparmi di una pista o dell’altra. Cercherò di rappresentare entrambe le piste – le strade battute con cui riflettere sull’anatomia del romanzo.
La prima pista interpreta il romanzo come l’epos di una fondazione ideologica culturale dell’America come noi comunemente la conosciamo. In questo senso Lonsome Dove è il romanzo di una fondazione, qualcosa che somiglia più all’Eneide che a un duello di pistoleri. C’è un gruppo di uomini che vivono in una terra ostile e complicata, il Texas – molti serpenti e poca vegetazione, che vengono a sapere che al nord, nel Montana, ci sono pascoli, un clima più ospitale, e si può pensare di avviare un rench. Sono brave persone ma piuttosto scalcagnate, ex ranger, ex combattenti, con tentativi maldestri di famiglia sempre abortiti. Soggetti che non sono comunque riusciti a iscriversi nel nascente tessuto borghese. Le loro partner sono tuttalpiù prostitute e tutti dai più giovani ai più vecchi sono nella posizione di chi non ha molto da perdere. Decidono perciò di fare un lunghissimo viaggio, pieno di sfide e di pericoli – che leggeremo tutti con il fiato alla gola: i cattivissimi indiani, le tempeste di sabbia, gli attacchi dei serpenti – per arrivare al nord e cercare di costruire qualcosa di meglio. Ci saranno delle morti, molto dolorose, ma i protagonisti arriveranno a destinazione e l’America, inizierà.
Questo viaggio per me quindi è stata prima di tutto la storia di un’edilizia sociale. I protagonisti eroici ma disgraziati, senza nobili origini né soldi in banca, senza mogli ma solo puttane, sono una buona allegoria dell’origine degli Stati Uniti, i cui pionieri erano in primo luogo galeotti, la feccia d’Europa mandata lontano. Viaggiando verso nord si confrontano con una serie di sfide politiche e sfide morali e si dipana la strutturazione del pensiero condiviso dell’America odierna. Per fare un esempio, in un passaggio un uomo dice ad un altro, alludendo alla possibilità di ucciderlo – questo è un paese libero, dopo tutto. E’ una battuta, ma è anche la rappresentazione di quell’intersezione morale che produce la tigna con cui gli Stati Uniti ancora mantengono la libera circolazione di armi. L’arma cioè è una libertà del maschile, della difesa, del portare a termine un giudizio. Ugualmente, la risalita al nord fa ruotare l’esperienza con gli Indiani, come se fosse l’acquisizione di una prospettiva complessa: all’inizio sono temibili, cattivi, malvagi, e lo sono davvero e fanno davvero delle cose tremende, ma alla fine sono poveri, ne compaiono le famiglie, arriva la disperazione, e il più saggio della compagnia, ammonirà gli altri dicendo, ricordiamoci che non ci hanno invitato. Simili acquisizioni di senso arrivano anche rispetto ai nigger, con una riduzione del razzismo che procede nel viaggio, e che risulta apparentemente casuale, ma in realtà rientra in un progetto narrativo che è la costruzione di un pensiero politico condiviso. All’arrivo nel Montana, questa prima America stanca ma piena di energia, avrà una sua prima mitica vecchiaia, che potrà fondare un modo di pensare che ha delle tenerezze come delle maschie cicatrici, e tutte conducono a un’idea in primo luogo pragmatica, muscolare di certe necessità, dove i valori dominanti saranno, la capacità di lavorare, di saper risolvere problemi seduta stante, ma anche di accettare il dispiacere e il dolore e il senso delle cose. Si costruirà un mondo leale, onesto, con una sua nobiltà tragica – bellissimo l’episodio della necessaria impiccagione dell’amico, lo stesso che ha dato ispirazione al viaggio, ma che è colpevole di una grave ignavia, di una grave incoerenza, di una grave mancanza di protezione verso i deboli. Il vero nemico dell’ America futura non sarà il cattivo con una sua rintracciabile deontologia ed etica degli affetti, ma il vacuo, il futile, la banalità del male di chi non si occupa dell’altro, di chi non pensa sia importante schierarsi e scegliere, e tenere la barra dritta.
Non si edificherà una cultura davvero sana però, questo sembra dire il libro, perché c’è una parte del processo di individuazione che questo gruppo fondativo attraversa, e che sostanzialmente fallisce e riguarda l’integrazione del femminile psichico come reale. Qui veniamo alla seconda lettura del romanzo, la seconda pista, che riguarda le poche e magnifiche donne di Lonesome Dove. Diversamente dai western tradizionali anche dagli epigoni sofisticati della tradizione – pensiamo a Meridiano di sangue – i personaggi femminili e la relazione che con esse intrattengono i protagonisti, sono la chiave di volta della struttura narrativa il senso profondo di tutto il lavoro. Tutti questi caw boy sono alla fine brave persone bravi ragazzi – capaci di innamorarsi di una donna, di solito una puttana – il corrispettivo femminile del galeotto della fondazione – ma nessuno è capace di entrarci in relazione, mantenere la relazione, edificarci un progetto. Lorena, la meravigliosa ragazza testarda e sognatrice che segue la banda in un accampamento distaccato, è scopata, amata adorata e anche violentata e protetta, ma nessuno riesce a stare con lei davvero, e alla fine rimarrà a vivere con un’altra donna, senza che nessuno dei suoi innamorati riesca a prenderla per se (anche qui in storia delle idee, sembra una buona metafora della necessità del femminismo radicale) . I protagonisti della banda – e di molte delle storie parallele, dipanano i diversi modi del maschile di approcciare e amare il femminile anche molto meno battuti dai media e dalle rappresentazione culturale – perché molte delle donne di Londsome Dove, sono delle gerarche del sentimento, dell’emozione, dell’eros e della scommessa emotiva, sono titolari di una pienezza sentimentale e di una consapevolezza della vita e della morte, che ha qualcosa di radicale violento e misterico così forte e dominante da non riuscire a essere integrabile. Sono donne meravigliose anche volendo spietate e cattive e con l’autarchia tipica della estrema vitalità che non riesce a essere amabile. Le due grandi donne di questo romanzo alla fine Lorena e l’altra, Clara, notevolissima pioniera, finiranno a rimanere da sole e a costituire il parallelo dei due grandi maschi che non sono riusciti ad avere il femminile, Call e Augustus. Su questa scissione si costruirà l’America imperfetta, che in certi prodotti culturali più sciatti e disattenti, specie quando si trattava di caw boy avrebbe allontanato la me stessa ragazzina ( per poi avvicinarla invece con affetto, quando come in questo caso, avrebbe dimostrato di essersene resa conto).