Dedicato a un uomo che conosco e alla sua amante.

C’è un certo tipo di amore di un certo tipo di uomini per un certo tipo di donne che capita raramente di osservare, ma ancor più raramente di poter leggere. Addirittura mai può capitare di vederne diagnosticata la natura. Quando si incontrano insieme questi uomini e queste donne lo sguardo li fa sempre sposare per una traiettoria ovvia – che è quella della opportunismo, oppure quella dell’infantilismo. Lo sguardo collettivo cede all’apparenza del gioco delle parti. L’artista che è amato per via del genio, per il narcisismo creativo, il bisogno di dirsi dicendo cose meravigliose – e lei la donna che lo ama che lo cura lo protegge gli ammorbidisce una vita per cui non è pronto.
Lui è la trascendenza è lei è l’immanenza, lui è lo sguardo sulle stelle, i cicli della luna, i pianeti che disegnano ellissi, e le comete e le eclissi. Lei è la voce che risponde al telefono, la mano che controlla i documenti, lei è la capacità di comandare, di organizzare, di imporsi, di non intimidirsi. In effetti – lei è quasi sempre odiosa.
Quando questo certo tipo di amore, di un certo tipo di uomini per un certo tipo di donne, capita in letteratura quasi sempre si decide che lui è il talento e lei la sua assenza, che lui è il debole e lei la forte, che lui è il figlio e lei la madre, che lui potrebbe cercare molte amanti e lei nessuno.

Invece – accade che l’uomo con il talento dell’interpretazione, quando incontra una donna del genere, ne legga l’animo e indovini il contrario dell’apparenza. Egli vede nelle polarità di lei una struggente composizione dei suoi stessi opposti, indovina che quella sbalorditiva capacità di domare la realtà, quel disinvolto cinismo con cui schiva gli imbarazzi e i ripensamenti, quell’aggressività in eccesso che la fa rispettare e spesso detestare, sono le scorie di una infelicità mai assopita, la scia di una debolezza. Quello che per gli altri è disdicevole o insopportabile, a lui riesce in un certo modo tenero – in un altro afrodisiaco. Siccome quel certo tipo di uomo, vede dietro il pensiero e dentro la voce, ama proprio quel dentro, quel contrario, quell’oscura ansia che freme. Giacché lui ha una femminile calma interna che gli dona la calma esterna, lo eccita sapere il segreto della sua megera, lo trasforma in un padre affettuoso di una bambina difficile. E quando lei riesce a fare tutte quelle cose che a lui sono impossibile da concepire – quel dirigere la realtà come un orchestrale, quella freddezza con cui rimanda indietro tentativi di lusinga, di conquista – lui prova l’orgoglio che ha il genitore per il figlio che si sa difendere e perdona con indulgenza le unghie e il sudore, perché sa che la sua compagna è sempre all’inizio della lotta.

La maggior parte delle grandi alleanze, hanno sempre nei fondali da drenare il segreto di un incastro ben riuscito, un bacio di parti segrete. La bisbetica non ama sempre un domatore – ma più frequentemente cerca un recinto, da proteggere e da cui essere protetta, dove poter nitrire, scalciare, sbuffare, ruggire, graffiare, urlare – senza farsi del male. E se sulla staccionata ci sono stelle, e astri, e comete, e cieli di mondi sconosciuti e fantastici, è anche meglio, è anzi di più: quella staccionata è il ritratto di una fantasia che aveva desiderato ma che non si è mai potuta permettere. La ama e la venera perché ci sono tutte le parole che avrebbe voluto imparare, che non sperava di avere un giorno così vicine al suo corpo e al suo cuore, e che ora può credere che forse siano sue.

Note sull’interruzione estiva della psicoterapia

 

 

Sono una di quegli psicoterapeuti che impone ai pazienti una lunga pausa estiva – solitamente, due mesi. Non mi nascondo dietro a un dito, e so che questi due mesi sono scelti prima di tutto in risposta a mie esigenze personali, so anche che in generale per molti casi i due mesi di interruzione sono una prova difficile che può creare ansia e preoccupazione. Tuttavia penso anche che l’interruzione estiva sia un momento importante del lavoro per moltissimi motivi.

Il primo di questi motivi riguarda la connotazione specifica del percorso psicodinamico, che è lungo, dura anni, preferibilmente si svolge a una frequenza alta (io lavoro più volentieri con due sedute a settimana) perciò per sua natura incoraggia una dipendenza.   La pausa estiva offre una sorta di sperimentazione in vitro riguardo l’elasticità rispetto a quella relazione, e incoraggia, a modo suo, processi di individuazione del paziente che altrimenti vivrebbe una condizione di dipendenza costante. Penso sempre, nonostante mi affezioni ai pazienti e un pochino inesorabilmente mi dispiaccia, che vengono da me per imparare a stare lontano da me, non per essere bravissimi a stare nella mia stanza bravissimi a dire le cose per tutta la vita. Devono allontanarsi prima o poi.

Siccome dalla pausa estiva vi è comunque un ritorno in stanza, è anche un buon dispositivo di indagine per vedere come si vivono i processi di separazione nelle situazioni di attaccamento, e ragionarci insieme. Quando infatti la pausa estiva arriva su una relazione clinica ben avviata, spesso si ha avuto modo di constatare insieme come il modo del paziente di viversi l’analista ricordi i suoi modi di viversi relazioni importanti anche con i genitori, per quelle che in gergo vengono chiamate le dinamiche di transfert, e quelle stesse dinamiche di transfert potrebbero rivelarsi anche nel come è stato pensato il terapeuta che ha deciso di andare in vacanza. Allora può succedere che pazienti che hanno avuto un atteggiamento ostile e bellicoso verso la terapia per tutto l’anno vadano in ferie e percepiscano affetto o dipendenza, altri che con la relazione hanno una vicenda problematica possono accorgersi di sentirsi più rilassati e liberi, ma allo stesso tempo ripensare alla lunga relazione analitica come qualcosa di più tollerabile del previsto. La separazione estiva è comunque un importante momento per capire il proprio modo di essere con.

Il che bisogna dire vale anche per l’analista che verso i pazienti ha una specie di doppio controtransfert: uno più generico, che investe tutto il lavoro, una sorta di idea generale di paziente e di essere con i pazienti, e uno più specifico e che cambia da relazione a relazione. Questo secondo tipo di controtransfert è una fonte di informazione preziosa per le terapie in atto: l’analista si accorgerà di tendere a preoccuparsi, almeno inizialmente, più di un paziente che di un altro, non tanto per lo stato clinico in cui versa l’assistito, ma per come l’inconscio dell’assistito vuole che l’altro lo pensi. Per cui – per fare un esempio – ci saranno pazienti che inducono l’analista a essere molto tranquillo che tanto da solo se la caverà benissimo (e magari questo è un problema costante di questi pazienti che non riescono facilmente a mostrarsi vulnerabili – nel terrore di ingaggiare delle relazioni che potrebbero farli soffrire) e altri che invece faranno in modo di far sentire il terapeuta in stato di apprensione (uno stilema relazionale pericoloso quanto frequente nella relazione terapeutica, perché porta il clinico a sentirsi importante e indispensabile, e il paziente a sottovalutare le proprie risorse evolutive). Quindi il come si sentirà il terapeuta rispetto ai pazienti nella pausa estiva, darà contezza del modo di ingaggiare le reazioni di quel paziente di come fa sentire gli altri delle sue relazioni importanti.

Di tutte queste cose si parla molto al rientro. Ma nella separazione ci si troverà a combattere anche con altre questioni. La psicoterapia infatti, svolge due funzioni: la prima è quella di contenere emotivamente il paziente, la seconda è quella di dare una strumentazione di bordo al paziente. Le due operazioni sono spesso intrecciate, perciò si può dire che molto spesso il paziente formula una domanda emotivamente e ha una risposta altrettanto emotivamente carica, per cui nella via dei toni di voce e dei gesti passa la funzione accogliente e contenitiva, e nelle cose che ci si dice la risposta procedurale ai problemi psichici che la persona porta. All’interruzione però il paziente scopre che il contenitore è assente e potrebbe usare delle strategie personali per garantirsi il fatto di essere pensato e quindi contenuto anche se da lontano, ma constato che questa perdita di contenitore è spesso più angosciante per le separazioni dei primi due anni di terapia mentre per le successive in genere va scemando. Il contenitore esterno è finalmente sufficientemente introiettato e ci si può concentrare sulla seconda questione, ossia la strumentazione acquisita.

Questa penso è la parte più interessante dell’interruzione.
I pazienti che vengono in analisi, di solito portano un problema definito inerente la loro domanda di cura, che poi viene nel corso delle sedute riformulato e iscritto in un nuova rappresentazione di se. Il nuovo quadro, sempre in divenire, mette in luce altri problemi – magari anche più vasti – e una serie di risorse che non erano state mai considerate. Quindi accade che dopo la prima e piuttosto lunga riformulazione del modo di funzionare di una persona – emergano delle coazioni a ripetere, delle modalità di interazione con le persone che portano costantemente il paziente in una situazione diversa da quella che vorrebbe. Ma capitano anche sogni e fantasie, che rivelano al paziente informazioni del suo mondo interno e di come lui o lei reagiscono alla vita che prima non sospettava di avere. Quindi il paziente che avviasse una terapia psicodinamicamente orientata si ritroverebbe a considerare due novità della visione dei suoi problemi e risorse: una riguarderebbe una sorta di itinerario maligno dei suoi comportamenti che producono regolarmente effetti che non desidera, l’altra la sua vita inconscia cosa gli dicono i sogni delle necessità di questi itinerari.

Allora accade, specie nelle separazioni che cadono nel centro della terapia, o nella fase più vicina alla conclusione, che durante l’estate capitino situazioni che mettano alla prova le interpretazioni messe in cantiere durante l’anno e possano rappresentare per il paziente delle vere e proprie sfide. La psicoterapia anche analitica non è mai solo un lavoro dell’inconscio o della relazione diadica, ma spesso e volentieri, al di la delle retoriche che spesso entrano in scena, vuole uno sforzo dell’io per evitare di cadere in vecchi copioni. Allora può succedere che d’estate un paziente riesca a trattenersi per esempio dal chiamare una persona cara un numero troppo frequente di volte per sentirsi tranquillizzato e riesca a tranquillizzarsi da se, perché ha capito che cosa mette reiteratamente addosso a quella persona che angoscia ossessivamente, oppure che riesca al contrario a cercare qualcuno perché riesce finalmente a sintonizzarsi con un suo desiderio e a capire che sono le sue proiezioni di sventura a impedirgli di contattarlo. Siccome non c’è il terapeuta in carne ed ossa in questi frangenti, non ci sarà possibilità di parlarne il giorno dopo, quando queste sfide del reale vengono affontate anche con parziale successo, il soggetto ha una percezione di efficacia di forza, di crescita personale che nell’itinere della relazione analitica potrebbe essere meno evidente. Tutto quello che accade è sul suo e sull’uso che fa di quello che è accaduto in stanza nell’anno.

Questo vale anche per la produzione onirica. Io sono una terapeuta di orientamento psicodinamico e tendo a incoraggiare un uso empirico dei sogni, a mischiarli nella gestione del quotidiana perché nella mia esperienza professionale sono una risorsa e nella mia esperienza di paziente l’uso dei sogni per capire come sto al di la dell’apparenza è stato il più grande regalo che ho ricevuto da chi si è preso cura di me, ed è rimasto a terapia conclusa. In questo senso mi trovo particolarmente bene con la decodifica junghiana del sogno, e cerco di fare in modo che i pazienti se ne approprino in modo da saper utilizzare i sogni nel loro stare quotidiano anche senza analisi. Certi pazienti d’estate sognano di più, e hanno una grande occasione di usare la vita onirica da soli, cercando di capire cosa sta succedendo e se ci sono delle reazioni emotive in atto a una qualche esperienza del reale che stanno sottovalutando o ostinatamente escludendo dal loro campo visivo. Il sogno non dice cosa accadrà nel fuori da noi, ma siccome dice cosa accade ora dentro di noi, è un buon punto di partenza per fare delle considerazioni importanti.

Tutte queste cose poi verranno discusse al rientro. Di solito le psicoterapie – anche se purtroppo non sempre, molto spesso anzi non accade – dopo l’interruzione estiva, fanno come un balzo in avanti. Si ha la sensazione che d’estate il dialogo terapeutico, sia continuato e si siano aggiunti tasselli importanti. Non di rado, quando la terapia riprende, assume un registro un pochino diverso da quello che era l’anno precedente.

Su Lonesome Dove

 

Quando ero bambina, tra i cinque e i dieci anni, ho visto molti western insieme a mio nonno. Di solito stavamo in salotto, lui era un uomo di statura importante, io ero in braccio a lui e i nostri pomeriggi tipici erano: poltrona pistole cappelli e polvere e poi “la domenica sportiva”.
Non ricordo di essermi annoiata in quei pomeriggi. Era anche il modo di guardarli ad alleviarmi da un eventuale fastidio: a posteriori mi rendo conto che c’erano nei commenti di mio nonno, ironia e autoironia. Credo che ci fossero due uomini infatti a guardare quei film: in primo luogo certamente il vecchio europeo, che aveva sposato una traduttrice e una professoressa di lettere, che veniva dalla militanza del PCI e che considerava il genere l’apoteosi di una genuina americanitudo, naif nella sua dicotomica visione del mondo, puerile nel suo ricorso continuo alla sfida delle armi. Con una donna come mia nonna dietro le spalle, tutta la ritualistica del saloon, il pulirsi la bocca col dorso della mano, il tirarsi il cappello indietro sedendosi per poi scannare il primo distrattone con il calcio della pistola, non poteva che essere considerata con sarcasmo.
L’altro uomo che guardava i western era il ragazzino con la quinta elementare che lui era stato, che era andato a combattere imberbe in Africa, che poi era stato con le armi in mano dalla parte dei fascisti e infine, raggiunta la ragione, dalla parte opposta. Questo secondo spettatore riconosceva in certi entusiasmati trasporti contro gli indiani – la risposta di un se stesso diverso: non animale, e manco bambino e manco stupido – ma il maschile il combattente, quello che sa che cazzo si deve fare con i cattivi, e mio nonno ecco prendeva in giro anche questo spettatore – pur non abdicandovi mai, sapeva di essere stato prima di tutto quello. Un ragazzino che voleva diventare uno sceriffo, e per un certo periodo della vita lo era pure stato. Nel dopoguerra gli fu riconosciuto un certo prestigio sociale.

Forse perché femmina, forse perché più figlia di mia madre e di mia nonna, e dei libri dentro casa mi sono rimaste addosso a lungo le tracce del primo spettatore, e abbandonata la poltrona di mio nonno, ho considerato il western qualcosa di grossolano, banale, infantile, poco interessante saturo di stereotipie. Questi paesaggi ocra e mattone dove dominavano colori di polvere, gente che si scannava per ogni sciocchezza, pochissime donne certo un po’ più sboccate e sfidanti delle nostre ma alla fine sempre con la parannanza, tutto mi pareva una ridondante fenomenologia di balletti da gallo cedrone. Li ho trovati a lungo film dannatamente semplici, prevedibili, goffi. A tutt’oggi, avendo lasciato la spocchia eurocentrica battendo i sentieri intellettuali di altre Americhe, non posso dire di amare il cinema western, come in generale ho sempre un’attrazione modesta per la produzione di genere – la quale sui grandi numeri cade sempre nel problema di avere delle norme che ingessano la trama, la scrittura, la sintassi espressiva e ideologica.

Su questo retroterra e con queste aspettative ho letto Lonesome Dove di Larry McMurtry ( einaudi, trad. it Margherita Emo ) un libro che mi ha avvinto per una trama incalzante, e incantata per la grande quantità di passaggi  bellissimi – ma che mi ha insegnato delle cose importanti, su cui non avevo a sufficienza riflettuto. Queste cose importanti vanno su due binari diversi al punto tale che quando ho deciso di scrivere un post su questo lavoro non sapevo se occuparmi di una pista o dell’altra. Cercherò di rappresentare entrambe le piste – le strade battute con cui riflettere sull’anatomia del romanzo.

La prima pista interpreta il romanzo come l’epos di una fondazione ideologica culturale dell’America come noi comunemente la conosciamo. In questo senso Lonsome Dove è il romanzo di una fondazione, qualcosa che somiglia più all’Eneide che a un duello di pistoleri. C’è un gruppo di uomini che vivono in una terra ostile e complicata, il Texas – molti serpenti e poca vegetazione, che vengono a sapere che al nord, nel Montana, ci sono pascoli, un clima più ospitale, e si può pensare di avviare un rench. Sono brave persone ma piuttosto scalcagnate, ex ranger, ex combattenti, con tentativi maldestri di famiglia sempre abortiti. Soggetti che non sono comunque riusciti a iscriversi nel nascente tessuto borghese. Le loro partner sono tuttalpiù prostitute e tutti dai più giovani ai più vecchi sono nella posizione di chi non ha molto da perdere. Decidono perciò di fare un lunghissimo viaggio, pieno di sfide e di pericoli – che leggeremo tutti con il fiato alla gola: i cattivissimi indiani, le tempeste di sabbia, gli attacchi dei serpenti – per arrivare al nord e cercare di costruire qualcosa di meglio. Ci saranno delle morti, molto dolorose, ma i protagonisti arriveranno a destinazione e l’America, inizierà.

Questo viaggio per me quindi è stata prima di tutto la storia di un’edilizia sociale. I protagonisti eroici ma disgraziati, senza nobili origini né soldi in banca, senza mogli ma solo puttane, sono una buona allegoria dell’origine degli Stati Uniti, i cui pionieri erano in primo luogo galeotti, la feccia d’Europa mandata lontano. Viaggiando verso nord si confrontano con una serie di sfide politiche e sfide morali e si dipana la strutturazione del pensiero condiviso dell’America odierna. Per fare un esempio, in un passaggio un uomo dice ad un altro, alludendo alla possibilità di ucciderlo – questo è un paese libero, dopo tutto. E’ una battuta, ma è anche la rappresentazione di quell’intersezione morale che produce la tigna con cui gli Stati Uniti ancora mantengono la libera circolazione di armi. L’arma cioè è una libertà del maschile, della difesa, del portare a termine un giudizio. Ugualmente, la risalita al nord fa ruotare l’esperienza con gli Indiani, come se fosse l’acquisizione di una prospettiva complessa: all’inizio sono temibili, cattivi, malvagi, e lo sono davvero e fanno davvero delle cose tremende, ma alla fine sono poveri, ne compaiono le famiglie, arriva la disperazione, e il più saggio della compagnia, ammonirà gli altri dicendo, ricordiamoci che non ci hanno invitato. Simili acquisizioni di senso arrivano anche rispetto ai nigger, con una riduzione del razzismo che procede nel viaggio, e che risulta apparentemente casuale, ma in realtà rientra in un progetto narrativo che è la costruzione di un pensiero politico condiviso. All’arrivo nel Montana, questa prima America stanca ma piena di energia, avrà una sua prima mitica vecchiaia, che potrà fondare un modo di pensare che ha delle tenerezze come delle maschie cicatrici, e tutte conducono a un’idea in primo luogo pragmatica, muscolare di certe necessità, dove i valori dominanti saranno, la capacità di lavorare, di saper risolvere problemi seduta stante, ma anche di accettare il dispiacere e il dolore e il senso delle cose. Si costruirà un mondo leale, onesto, con una sua nobiltà tragica – bellissimo l’episodio della necessaria impiccagione dell’amico, lo stesso che ha dato ispirazione al viaggio, ma che è colpevole di una grave ignavia, di una grave incoerenza, di una grave mancanza di protezione verso i deboli.   Il vero nemico dell’ America futura non sarà il cattivo con una sua rintracciabile deontologia ed etica degli affetti, ma il vacuo, il futile, la banalità del male di chi non si occupa dell’altro, di chi non pensa sia importante schierarsi e scegliere, e tenere la barra dritta.

Non si edificherà una cultura davvero sana però, questo sembra dire il libro, perché c’è una parte del processo di individuazione che questo gruppo fondativo attraversa, e che sostanzialmente fallisce e riguarda l’integrazione del femminile psichico come reale. Qui veniamo alla seconda lettura del romanzo, la seconda pista, che riguarda le poche e magnifiche donne di Lonesome Dove. Diversamente dai western tradizionali anche dagli epigoni sofisticati della tradizione – pensiamo a Meridiano di sangue – i personaggi femminili e la relazione che con esse intrattengono i protagonisti, sono la chiave di volta della struttura narrativa il senso profondo di tutto il lavoro. Tutti questi caw boy sono alla fine brave persone bravi ragazzi – capaci di innamorarsi di una donna, di solito una puttana – il corrispettivo femminile del galeotto della fondazione – ma nessuno è capace di entrarci in relazione, mantenere la relazione, edificarci un progetto. Lorena, la meravigliosa ragazza testarda e sognatrice che segue la banda in un accampamento distaccato, è scopata, amata adorata e anche violentata e protetta, ma nessuno riesce a stare con lei davvero, e alla fine rimarrà a vivere con un’altra donna, senza che nessuno dei suoi innamorati riesca a prenderla per se (anche qui in storia delle idee, sembra una buona metafora della necessità del femminismo radicale) . I protagonisti della banda – e di molte delle storie parallele,   dipanano i diversi modi del maschile di approcciare e amare il femminile anche molto meno battuti dai media e dalle rappresentazione culturale – perché molte delle donne di Londsome Dove, sono delle gerarche del sentimento, dell’emozione, dell’eros e della scommessa emotiva, sono titolari di una pienezza sentimentale e di una consapevolezza della vita e della morte, che ha qualcosa di radicale violento e misterico  così forte e dominante da non riuscire a essere integrabile. Sono donne meravigliose anche volendo spietate e cattive e con l’autarchia tipica della estrema vitalità che non riesce a essere amabile. Le due grandi donne di questo romanzo alla fine Lorena e l’altra, Clara, notevolissima pioniera, finiranno a rimanere da sole e a costituire il parallelo dei due grandi maschi che non sono riusciti ad avere il femminile, Call e Augustus. Su questa scissione si costruirà l’America imperfetta, che in certi prodotti culturali più sciatti e disattenti, specie quando si trattava di caw boy avrebbe allontanato la me stessa ragazzina ( per poi avvicinarla invece con affetto, quando come in questo caso, avrebbe dimostrato di essersene resa conto).