Mi trovo spesso a ragionare sui concetti di simulazione, dissimulazione, verità di se. Mi ci trovo perché da una parte sono concetti che orientano e contengono l’esperienza emotiva quotidiana e di tutti, ma che da un altro punto di vista investono in modo particolare due contesti che abito molto frequentemente, e che sono due contesti della narrazione di se, eventualmente autentica. Uno è la rete, e la comunicazione dei social, l’altro è il mio contesto professionale, il mio lavoro, che è appunto, un lavoro sul raccontarsi.
Come mi è capitato già di constatare, è ricorrente imbattersi una psicologia della diffidenza riguardo l’autenticità dell’altro. Molte persone sono inclini cioè a mettere in discussione gli atti spontanei degli altri, specie quando questi altri ottengono dal loro modo di fare una certa visibilità, un qualche tipo di ritorno sociale, anche se piuttosto modesto. Di certuni per esempio si può sentir dire quello fa l’intellettuale, quello fa quello di sinistra, ma di altri, si arriva addirittura sentir dire fa quello eccentrico, quello che soffre: si è costruito questo personaggio. Non di rado, una cosa che ho trovato interessante, la teoria del personaggio arriva ad investire psicopatologie anche gravi, persone che fanno abuso di sostanze, e che fanno scelte autodistruttive.
Questo tipo di argomentazioni è interessante per due aspetti. Il primo riguarda la tipologia psichica di chi le porta avanti. I veri simulatori e dissimulatori, animali rarissimi con una problematica psicopatologica molto complicata, sanno quale consistente controllo sulle proprie attività sul proprio modo di essere implichi la costruzione di un altro da se, sanno di essere invece pochi, e quindi non si aspettano mai la simulazione da parte di altri, se mai al limite la riservatezza, ma non la menzogna. In generale anzi, tendono a proiettare sugli altri una sorta di pacifica ingenuità – che d’altra parte è balsamica, una conferma della loro scaltrezza. Coloro i quali invece parlano frequentemente di costruzione artificiale del comportamento e del modo di fare di qualcun altro, da un lato proiettano sull’altro un dominio del proprio mondo interno che trascende nell’onnipotenza (saper fare quel che non si è, che cosa magnifica – e ci cadono tutti!) dall’altra usano la teoria culturale della sanzione della menzogna per vendicarsi del carisma altrui – il personaggio è forse il grande conforto a fronte il talento e il carisma di qualcuno, la sua capacità attrattiva, la considerazione che è capace di attirare.
D’altra parte, fa anche buon gioco una sorta di retorica diffusa della totale onestà per cui pare che tutti siamo gli sposi di tutti, e tutti dobbiamo agli altri una completa narrazione della propria intimità. In questo anche la dissimulazione diviene sovente perseguita socialmente, e in questi tempi di raccontarsi continuo, di ovvietà per cui il privato è reiteratamente dispiegato – con le notizie della posta elettronica che ci avverte dei divorzi altrui, o degli inimmaginati orientamenti omosessuali, uno che si faccia più che altro i fatti suoi – passa per traditore della patria.
In ogni caso, questo tipo di temi, non riesce mai a impressionarmi più di tanto. Né per quel che concerne la mia vita privata, né per quel che concerne la mia vita professionale. Ma questo non perché io mi ritenga così scaltra o fortunata da non poter essere la destinataria di una menzogna riuscita, ma perché in un certo senso, provocatoriamente, considero il conetto di menzogna fuorviante: quando si parla di simulazione, e dissimulazione, si da per scontato che una certa narrazione, o un certo occultamento che produce una narrazione, sia una sorta di falso alieno, una toppa malamente calzante con la relazione e il contesto, ma assolutamente svincolata dal soggetto e per quanto riguarda la relazione cucita sopra in malo modo. Nella terribile ipotesi di un tradimento, da parte di una persona a me cara, io dovrei confrontarmi con la narrativa reale che la menzogna testimonierebbe e entro cui si iscriverebbe, e mi addolorerei per una rete di eventi emotivi che si sarebbero costruiti sotto i miei occhi, e io non volevo vederlo, la menzogna sarebbe la coerenza di quella trama, e dunque non problematica di per se. Problematico sarebbe il mondo che l’ha generata. Probabilmente dovrei arrivare a capire anche la funzione psicologica che ha assunto il mio cogliere soltanto una narrazione parziale. E’ in effetti un’esperienza dolorosa.
Ma il fatto è che quando parliamo di simulazione, dissimulazione, verità e menzogna: noi usiamo questi concetti come categorie che qualificano i comportamenti espliciti, e la natura sempre esplicita dei soggetti. Quando diciamo che una persona simula, noi cioè tendenzialmente pensiamo che egli nasconde un modo esplicito di essere, e ne mostra un altro falso. Un’operazione di cui si dirà che viene fatta con maggiore o minore successo, a seconda delle contraddizioni che i diversi comportamenti espliciti mostreranno. (Fa quello di sinistra ma ha la barca, fa l’intellettuale ma segue il calcio, fa quello problematico ma ogni sera frequenta un locale diverso, dice di amare la moglie ma è stato visto baciarsi un’altra).
Se però si inserisce nel campo un nucleo in più che è l’identità profonda del soggetto, il suo inconscio, e si considera tutto, ma proprio tutto quello che fa e che dice un sogno o una produzione di quell’inconscio e di quella identità psichica, la nozione di simulazione si sfalda, si liquefà tra le mani. Tutto ciò che è detto è l’emanazione di un fuoco identitario che sta al di sotto dei comportamenti espliciti, e che ne restituisce il senso, oppure, se non la restituisce richiede una sospensione del giudizio, e una domanda per cui: se vuoi capire l’altro, devi risolvere quelle che per te sono contraddizioni, arrivare a vedererle come i due tasselli dei comportamenti insieme incongrui ma che non lo sono più se se ne aggiungono altri, riesumando nel discorso complessivo discorsi, frasi assunti, che prima erano assenti.
Questa cosa, in terapia torna particolarmente utile. Non sono moltissime le persone che mentono al proprio terapeuta, specie quello che hanno deciso di consultare liberamente pagando in un regime di libera professione. Alcuni a volte però mettono dei panni che ruotano il proprio modo di stare in stanza: si comportano come un cattivissimo paziente o come un ottimo paziente, in ossequio di alcune questioni psicologiche del loro passato relazionale che ora rimettono in gioco con l’analista – per quella vecchia cosa che si chiama appunto dinamica di transfert. Alcuni allora faranno “i bravi pazienti” da una parte come strategia rodata per eludere l’esplorazioni di vicende scabrose, dall’altra quella stessa strategia rodata, lo zelante che arriva sempre puntualissimo, si ricorda tutto, parla sempre per benino di mamma e papà, è essa stessa un testo, un testo che dice una verità sulla struttura psichica del paziente, sulle sue strategie di quando era bambino: la compiacenza, o anche di contro una capacità di rendersi tremendamente irritante – prima che simulazioni sono allora, strategie difensive di un bambino che ha dovuto inventare delle strade comportamentali per raggiungere o eludere dei genitori deludenti.
A volte cioè mi viene da pensare, il linguaggio è come il movimento: non può costitutivamente, epistemologicamente mentire mai. In questo senso, il concetto winnicottiano di falso se – che tanto ha avuto successo anche al di fuori delle stanze di analisi – mi ha lasciato sempre interdetta, con un sapore di ingiusto dentro, e di inesausto. E’ proprio l’opposizione tra vero e falso, che trovo fuorviante. Sia perché appunto – ogni atto psichico è come l’azione del corpo, sempre vero – sia perché a insistere tanto sul concetto di falso se di maschera personologica cioè compiacente fatta per essere data in pasto a un mondo relazionale difficile da gestire, che proteggerebbe in vero se, nascosto e presumibilmente tutto diverso, non fa vedere aspetti reali e identirari importanti della personalità di chi si ha davanti, di come funziona, delle difese con cui si trova lui. Né mi piace moltissimo, trovo anzi ingenua, la polarità epistemica del mondo veteropsicoanalitico per cui, l‘inconscio, il sepolto il non visibile, è più vero più nobile, del prosaico, visibile e accessibile comportamento manifesto.
A questa coppia di concetti winnicottiani – comunque grandi per la loro capacità di descrivere un certo tipo di nevrosi – preferisco quello junghiano di persona, che è meno saturo di un giudizio di valore vagamente moraleggiante, e restuisce una titolarità al soggetto di veridicità di tutte le azioni che fa, e nella sua neutralità permette di far riconoscere al soggetto il perché delle sue scelte, e dei suoi bisogni, non solo il concetto di Persona (il vestito sociale che la nostra psiche mette a disposizione della nostra vita quotidiana, il nostro modo di essere con gli altri e di apparire) permette di capire altre verità dell’altro, e di approdare a coerenze più sofisticate.
Un’ultima cosa. Tutto questo complicato discorso –quando ipotizziamo, vuoi una simulazione vuoi una dissimulazione – riesce meglio se non ci limitiamo a considerare solo le informazioni che abbiamo ricevuto (o non ricevuto) e lo stile del linguaggio con cui sono espressi. I contenuti che non consideriamo elusi, coperti o traditi, possono infatti essere elusi coperti e traditi nell’ambito delle informazioni date ( odio quella persona, detesto questo lavoro, non sono eterosessuale) ma sono difficile da eludere coprire e tradire, nel loro pulviscolare investire comportamenti, forme lessicali, frasi. La coerenza di certi personaggi che sembrano poco credibili, quando magari lo meriterebbero arriva da come essa ritorni anche nei modi di dire di parlare e di fare. Molto meno controllabili da parte di chi, di mestiere, non fa l’attore, o lo scrittore (oppure abbia un franco disturbo antisociale)