Non so se qualcuno ricorderà il bellissimo film di Spielberg – prova a prendermi. L’ho rivisto ieri, con lo stesso piacere della prima volta, e ho pensato che volevo scriverne – perché fa parte di quel ristretto gruppo di produzioni cinematografiche, che ben rappresenta certe declinazioni della psicologia maschile andando a percorrere territori meno battuti, e meno ovvi. Prova a prendermi è un bildungsroman certamente, ma non passa per esempio da grandi riti di iniziazione, non implica il coronamento dell’amore con la morte dell’amata, o il suo pericolo, men che mai è l’edificazione della virilità per il tramite delle sfide muscolari. Non ci sono vecchi che hanno la fine vicina, e non ci sono saggezze da incorporare. Non si indugia neanche in un altro immortale clichet narrativo, la nascita cattiva che prelude a un destino difficile e che viene ribaltata dalla caparbia tigna dell’eroe. E’ un film davvero sulla costruzione dell’identità maschile, sull’essere figli, essere padri, essere amici, ma percorre altri binari.
In questi altri binari, il femminile è desiderato, ma periferico, di scarso aiuto, inafferrabile. Frank è il figlio di un piccolo truffatore e di una donna piacevole quanto delusa, e in effetti anche poco capace di intercettare i desideri e gli affetti dei suoi. In seguito a delle frodi fiscali il marito cade in disgrazia e per questo lei lo lascia per un altro – più ricco, con una migliore posizione sociale. Ma quando viene chiesto a Frank che ha sedici anni con chi stare, Frank che vorrebbe comunque i suoi genitori insieme , non si sente di scegliere e si da alla fuga.
Si avvia allora una serie di picaresche avventure, in cui si incrociano intelligenza, e saturazione di sogni infantili: Il sedicenne Frank comincia nella scuola pubblica a spacciarsi per il supplente che non è, poi diventa il pilota di una grande compagnia aerea, poi diventa medico e infine avvocato, ancorchè promesso sposo di una giovane ragazza perbene che però dovrà piantare, il giorno del fidanzamento ufficiale perché sta arrivando la polizia. Nel frattempo, accumula soldi in grande quantità, producendo e firmando assegni falsi. Passando per le diverse città degli Stati Uniti e fermandosi il tempo in cui le banche centrali non si accorgono della sua truffa.
La sua fuga senza fine – mi chiedo se sia una coincidenza il fatto che Frank si chiami come Franz Tunda, l’eroe del romanzo di Joseph Roth che ricorda per una serie di analogie e contrasti – verrà conclusa dalla caparbietà di Carl, antagonista perfetto. Carl è un poliziotto dell’FBI che si occupa di frodi bancarie, ma anche qualcuno che somiglia un po’ al padre di Frank e a Frank medesimo: è solo separato e con una figlia che non vede mai. Lo insegue per diversi anni fino ad acciuffarlo e portarlo in carcere. Dopo quattro anni di reclusione però, riuscirà a far uscire Frank e a farlo collaborare a servizio dell’FBI. Diventeranno amici e questo è un meraviglioso film a lieto fine – che parla di due uomini in difficoltà non solo con il loro femminile interno ma anche con il loro padre interno, con il loro padre reale, e con il loro essere possibilmente padri. Si trovano, e svolgono una funzione importante l’uno per l’altro.
Di solito, nei film sulla carriera psichica del maschile, le cose si diceva, vanno diversamente. Ci sono discepoli che poi superano i maestri – che è un modo efficace di trasformare cinematograficamente la rivalità edipica, ci sono guerrieri che incontrano dame sagge e meravigliose, che poi però moriranno – con il che solitamente le favole illustrano la maturazione psicologica del maschile che prende contatto con tutti gli aspetti interni che si identificano con il femminile, per poi sacrificarli e rischiare di perderli nella metafora della crescita personale. I maschi di questi itinerari psichici di solito hanno madri amorevoli e in buona parte dei casi padri rispettabili. Spielberg mette invece in scena una madre fortemente narcisista, fatua, non esattamente cattiva, e anche tenera tutto sommato nella sua ricerca di benessere, ma emotivamente inavvicinabile, poco calda. Una madre che uno non può portarsi dentro a lungo, che si percepisce come idealizzata desiderabile, amata – ma che non riama. Il Padre di Frank rappresenta un oggetto emotivamente più caldo, più vicino al figlio, ma con un’immaturità cronica, un’incapacità di assumersi le sue responsabilità, una sorta di fratello fanfarone e scanzonato, che però finisce in rovina. Frank gli vuole molto bene, e durante la sua fuga, rimane sempre in contatto con lui, lo chiama, si sforza di incontrarlo. E questi incontri sono una parte del film particolarmente sagace, struggente e riuscita, con una notevole recitazione dei due attori, perché davvero è come se il povero Frank provasse in tutti modi di trasformare il papà in un padre, gli porta i soldi per riconquistare la madre, gli da dei consigli, gli chiede anche di essere orgoglioso di lui – ma quello non è capace. E quando a un certo punto diviene chiaro, che la polizia sta cercando Frank, Frank chiede al padre di fermarlo. Gli dice proprio così – papà, se pensi che sono in un guaio ti prego dimmi di fermarmi.Ma il padre non lo ferma: perché – banalmente non è un buon padre – e perché idealizza nel figlio il truffatore che lui non è stato.
Questo è un punto importante nella psicologia del personaggio, perché qui lui decide di continuare a stare sulla giostra, nella speranza di trovare un padre che lo fermi. Lo trova, anche nel poliziotto Carl ma il piacere che gli da la rincorsa di Carl, l’essere visto da quest’altro padre senza figli, giacchè la sua unica sta con la ex moglie – è un piacere emotivo. Frank chiama il poliziotto Carl tutti i natali, e la telefonata è un altro piccolo capolavoro- c’è la distanza, ci sono il gatto e il topo, ma anche una cosa che è un po’ di certi maschi grandi con altri giovani – lo zio, la premura, il contenimento – il contatto.
E’ un gran film, naturalmente per tante cose che non riguardano le letture analitiche – un ottimo montaggio, una ottima sceneggiatura, una notevole direzione degli attori, per non dir niente di una notevole consapevolezza estetica, a partire dal gioiello dei titoli di apertura – (guardateli qui) ma qui mi interessa parlarne perché la storia di Frank, illustra bene delle cose, se per esempio mettiamo in relazione questi due genitori emotivamente poco carichi, poco presenti, poco sintonizzati con la la scelta del protagonista di diventare truffatore con gli assegni finti, e le identità finte dopo. A un livello più superficiale Frank simula identità diverse per emulare il padre, mette in atto un’eredità paterna, che è la piccola furbizia coniugata al sogno americano, la scaltrezza di chi può così magicamente diventare ricco. Su un piano più profondo, è come se la cura tiepida di cui è stato oggetto (c’è un passaggio terribile all’inizio del film che fa capire questa cura tiepida, quando il ragazzo scopre la madre con l’amante e futuro secondo marito, e lei non si cura affatto di lui, visibilmente addolorato e confuso, si preoccupa solo per se. Gli offre dei soldi nella speranza che taccia) non fosse niente di affidabile, non fosse niente a cui rivolgersi, non fosse la stampella di un costrutto identitario per un verso, né la possibilità di sentirsi amato senza persone fisiche per un altro. A quel punto truffa, furto, e simulazione – diventano modi per procurarsi per un verso una piccola rivalsa, verso un mondo adulto e idealizzato, bello come il ragazzo deve aver sempre pensato sua madre, dall’altra un modo per prendersi degli oggetti buoni da questo mondo idealizzato, con cui nutrirsi, il furto come un surrogato tardivo dell’allattamento, infine una continua provocazione – uno sforzo costante teso a trasformare in un organo genitoriale, il mondo con cui si interfaccia. Quando l’alfiere di questo mondo, il poliziotto Carl, mostrerà in tutto di accettare il ruolo, fermandolo come avrebbe dovuto fare suo padre, salvandolo dandogli una possibilità, Frank potrà permettersi di riconoscerlo come tale. E si fermerà.
Mi sembra che sia qualcosa che possa far riflettere.