La bambina e il serpente (un post junghiano)

C’è un bel racconto di Marguerite Duras, in Giornate intere tra gli alberi, in cui una ragazzina, alle soglie dell’adolescenza, passa i suoi momenti migliori ad andare al giardino zoologico, a guardare il pasto del boa. E’ un testo notevolmente vitalistico e potente, e contro ogni retorica, descrive l’emergere di un desiderio sessuale, ma anche, di un desiderio di forza, e di trasformazione, come di incorporazione – quel passaggio epocale della psicologia femminile quando diviene adulta per cui comincia ad accedere al desiderio, ma anche alla forza interna e al potere. Ben per questo, il serpente, che sia quello piumato di Lawrence, che sia l’oggetto simbolico di cui parla Jung per esempio in Simboli della trasformazione, è un immagine interna del femminile importante. I serpenti, che arrivano minacciosi, o che seducono acciambellati, o che cingono o che parlano, sono un’ immagine archetipica frequente nel mondo immaginario dei bambini e soprattutto delle bambine. Li sognano, oppure li trovano nei libri e perfino nei programmi televisivi a loro dedicati. Se per esempio nella versione originale de il Piccolo Principe il Serpente ha un ruolo ambivalente, nel cartone animato a lui ispirato diventa colui che minaccia la rosa – simbolo della femminilità nascente.

E’ un po’ di tempo che volevo scrivere un post sulle bambine, e su cosa è meglio perché crescano più forti e serene e ho pensato che poteva essere interessante cominciare dal loro incontro con il serpente. L’idea della donna che porta all’interno un’immagine fortemente maschile, mi rimanda a un modo molto junghiano di considerare la combinazione sesso genere: per cui il femminile ha degli aspetti interni che corrispondono al maschile, e il maschile viceversa. Ognuno dei due sessi porta addosso una coppia di opposti semanticamente legata alle due identità sessuali, in combinazioni che possono essere molto diverse da persona a persona, e nelle prospettive junghiane più evolute, senza che questo poi sia violentemente prescrittivo e universalizzante su come debba articolarsi questa combinazione.   Qui parleremo della combinazione che è relativamente più diffusa, con il favore della nostra lettura culturale dei ruoli di genere. Il caso cioè di bambine che si comportano in modo femminile in una media osservanza dei codici culturali, e che a un certo punto fanno il loro incontro psichico con il maschile, con l’eros, con insomma il serpente. Bambine che hanno a disposizione una figura materna e una figura paterna, e che nella loro costruzione dell’identità passano per una certa serie di acquisizioni e identificazioni. Le bambine che nelle loro mille variazioni di gonne lilla e rosa, di bambole e mattoni, di trecce e smalti e parolacce, vediamo fuori dalle scuole materne ed elementari. Tutte queste bambine, sono nei paraggi dell’incontro con il serpente.

Facciamo un passo indietro.
Quando le bambine vengono al mondo, hanno un compito evolutivo molto complicato, almeno per come stanno le cose, allo stato attuale dell’arte. Nonostante alcuni equilibri si siano spostati, i loro primi anni di vita sono a contatto con la madre, che le allatta e le fa crescere. Sono nate dal corpo della madre, e con la loro madre condividono la possibilità di generare. Il loro primo oggetto d’amore è per loro qualcosa che per un certo verso ha dell’identico, un’identità di funzionamento e di funzione, ma che deve diventare diverso come marca identitaria, e cioè altro. La bambina che arriva al mondo dunque ha da una parte il prestigio di raccogliere l’eredità matrilineare – una questione per me culturalmente non abbastanza valorizzata fatto salvo il contributo del femminismo della differenza– dall’altra il compito complicato di rintracciare l’antitesi, e scoprire la differenza. Donde, un’adolescenza e un rapporto con la madre molto più complicato che per i suoi fratelli maschi, che nascono ontologicamente altri rispetto al loro primo oggetto d’amore, e che quindi per questo si disidentificheranno e ameranno la madre con maggiore fluidità.

Nel quadro analitico tradizionale, l’idea era che la bambina non riusciva mai a uscire del tutto dalla triade edipica, e rimaneva più a lungo invischiata nella sudditanza complicata verso la madre e nell’amore al padre. Questo, pensava la psicoanalisi dei primordi – per esempio nella lettura di Helene Deutsch, anche qualora parzialmente si fosse sposata e avesse avuto dei figli suoi. Oggettivamente, all’epoca la psicoanalisi aveva ragione, perché non essendoci mondo del lavoro, la giovane figlia era condannata a un eterno spazio intimo, e la sua prospettiva di evoluzione non andava oltre lo spazio intimo. Più tardi, psicoanaliste femministe molto acute, come Nancy Chodorow prima o Jessica Benjamin dopo, avrebbero insistito su come, le forme culturali del sistema sesso genere incidono sulle storie analitiche dei soggetti. E se il padre è quello che ha il compito analitico di spezzare la simbiosi con la madre, portando la prole con se fuori, si constatava come, il padre con le bambine lo facesse un po’ meno spesso.
Con il figlio maschio si va allo stadio. Ma con la femmina?

In assenza di un padre, o in deficit di occasioni dal mondo che portino fuori dalla relazione con la madre, che aprano un varco, la bambina è in tutto esposta sia alla qualità della sua relazione con il materno, sia alla difficoltà emotiva che implica la sua emancipazione in solitaria. Se ci sono poi delle sorelle, o dei fratelli, la lotta diventa fortissima, sia per la gara ad avere il cuore della madre, che la gara ad uscire dal cerchio con la madre.

A questo punto, certo molto semplificando – e tenendo per esempio da parte gli elementi della personalità di una bimba, il suo corredo genetico che ha un suo peso importante, e quelle dell’ambiente sociale in cui cresce altro peso importante – noi possiamo però individuare delle variabili ognuna delle quali agisce come una sorta di manopola sulle capacità adattive o sulle possibilità di sviluppare comportamenti nevrotici da quel momento in poi, e quindi possiamo dire anche, su come andrà l’incontro con il serpente, se diventerà amico o se sarà un incubo ricorrente, un’esperienza psichica indigesta, oppure – il caso che ha suggerito in fondo questo post, ci sarà con esso una identificazione eccessiva, uno strapotere del serpente. In altri termini: se si integrerà armonicamente il rapporto con la sessualità per un verso, ma anche allargando il cono di luce nella configurazione psichica, se potranno entrare con agio altre figure di animus, per cui la bambina saprà volere, desiderare, ambire, combattere per ciò che ama, fare progetti, diventare un’adulta completa. (Qui avvertiamo lo scarto tra le vecchie teorie analitiche, che sono a mio avviso sorpassate, e quelle che secondo me sono ancora efficaci ad aiutare le persone: per le vecchie teorie analitiche, per il freudismo della prima ora devo dire oramai praticato da pochi, il femminile ha il suo senso in una mancanza, che è il maschile a compenetrare e la maternità a riscattare. Le prospettive psicodinamiche successive, eludono questo rigido bipolarismo, e per esempio la prospettiva junghiana, immagina i soggetti come enti che devono maturare globalmente. Perciò il femminile che si mette in accordo con le proprie immagini maschili interne, è un femminile che cresce verso la generazione e la maternità, e simultaneamente deve svilupparsi nella direzione della trascendenza e della identità globale).

Le manopole che individuiamo sono allora: in primo luogo naturalmente, il rapporto con la madre. E quindi anche lo stato di salute emotivo della madre, e il suo come dire, stare comoda nella vita che si è scelta, nella successione di scelte che ha messo in atto, nell’ordine di valori che ha riconosciuto come suoi. La prima manopola per la bambina ne contiene in effetti molte altre, perché da una parte c’è il fatto di essere amata e riconosciuta come erede, in un modo che sia giusto per lei, dall’altra c’è il passaggio di un testimone che è molto importante. Tutto quello che riguarderà il sentirsi amate e scelte aiuterà la bambina ad essere generosa in maniera autentica con gli altri, e – se mettiamo in campo la teoria dell’attaccamento – una bambina che ha un attaccamento sicuro, che cioè è sicura dello sguardo verso di lei, e sa che non verrà mai meno, potrà avventurarsi lontano anche metaforicamente dalla madre, potrà esplorare, studiare, avere ambizioni, pensare a una carriera e certo cercare una nuova famiglia. Sarà anche più probabile che da adulta divenga a a sua volta madre capace di far sentire sicuri e autonomi i propri figli.

Se invece quella sicurezza verrà a mancare la bambina, potranno succedere molte cose. Per esempio, la bambina starà con lo sguardo fisso sul genitore che si teme costantemente di perdere. Introietterà questo assetto relazionale, e sarà lo schema in base a cui muoverà le sue strategie adattive e le sue scelte difensive nel rapporto con gli altri. Frequentemente, bambine bloccate nella loro emancipazione, rimarranno prossime alla coppia genitoriale in una maniera riottosa e litigiosa, con una specie di serie di falsi tentativi di allontanamento e di mezze misure di differenziazione, useranno l’aggressività per dimostrare una falsa autonomia. In questo senso, è molto importante il pacchetto di competenze relazionali che la madre possiede, e che sono anche il pacchetto che ha ottenuto con la relazione con i suoi genitori, e durante la sua infanzia. Madri che hanno avuto genitori piuttosto freddi, poco sintonizzati sull’infanzia, o anche madri che sono state sorelle maggiori di fratelli avvertiti come privilegiati o persino inaccessibili, o magari madri precocemente adultizzate, potranno fare fatica con le loro bambine, la bambina interna che sono state e che forse per mantenere la relazione e l’amore ha ingoiato molti rospi potrebbe far percepire la figlia come una rivale di cui essere invidiosa, e verso cui la severità o una certa ostilità possono diventare il mezzo di una rivalsa inconscia. Quando questo succede le figlie per un verso si sentiranno poco sicure, per un altro potrebbero con vare strategie cominciare a mettere in scena delle difese, e quando l’integrazione con le immagini del serpente saranno compiute, e arriverà l’adolescenza – quando cioè una bambina diventa una che fa le stesse cose della madre, insomma l’adolescenza potrebbe essere molto faticosa e il suo già consistente pacchetto di conflitti prendere forme ancora più accese.

La seconda manopola molto rilevante è il rapporto con il padre. Tanto più in famiglia, lo schema dei ruoli di genere è stato tradizionale, paradossalmente maggiore è la necessità che a un certo punto il padre intervenga, con la bimba come ha da fare con il figlio maschio, a riprendersi il suo posto accanto alla madre e a portare via i bambini e quindi le bambine dalla relazione con la madre, a diciamo rompere quello che gli analisti di vecchia scuola chiamavano “anello simbiotico”. Devono fare delle cose insieme, divertirsi insieme, giocare insieme, avere degli spazi ritualistici protetti. Il papà ha un ruolo delicatissimo e di questi tempi e nel nostro contesto culturale ancora più impervio e complicato, perché da una parte ha il vecchio ruolo di riconoscere la nascente sessualità della bambina, il suo potenziale seduttivo e di premiarlo il giusto – sei la principessa di papà, sei la più bella – dall’altra ha il dovere di farle sapere, diversamente da quanto accadeva a suo padre e suo nonno e al suo bisnonno (con una serie di ricadute sulle sue progenitrici di cui ancora non abbiamo contezza e non ci vogliamo occupare) che riconosce il suo animus, che può trovare nel serpente interno della sua bambina qualcuno a cui passare un testimone: per esempio del modo con cui pensare la politica, la morale, le cose, i rapporti di lavoro, l’essere razionale nel mondo, e il potere di appropriarsi delle cose come il boa del racconto di Duras. Questo doppio binario è un compito tremendamente complicato: perché i padri possono scivolare da una parte o dall’altra – la scivolata nella prima parte è nell’area dell’incestuale, per cui la figlietta che ha un rapporto molto erotizzato con il padre farà fatica ad avere una relazione futura e a non squalificare tutti i partner a venire, mentre la bambina che è solamente riconosciuta come identità razionale, trascendente, intellettuale, correrà rischi molto complicati nel suo rapporto con il corpo, con la madre, e potrebbe elaborare sintomatologie importanti (per fare un esempio: adolescenti con disturbi alimentari hanno spesso questo tipo di relazione con il padre).

La terza manopola del contesto familiare riguarda le complicatissime dinamiche della fratria, rispetto alla coppia genitoriale, e della coppia genitoriale nei confronti dei fratelli. Qui lo spettro delle possibilità è veramente molto variegato, e fare un discorso generale è particolarmente arduo. Una quota di competizione e di ostilità è qualcosa di fisiologico tra fratelli e sorelle, e quando non ve ne è mai segnale è più saggio ipotizzare una rimozione, o una compiacenza piuttosto che un reale e idilliaco accordo. Ma la naturalezza di una quota di competizione, probabilmente più accesa quando i figli sono solo due, e se sono di pari sesso, non deve far cadere nel tranello di prendere sottogamba dichiarazioni di odio esplicito, competizioni che fanno diventare livide di rabbia, perché quello per me è invece un allarme. Genitori percepiti come inaccessibili producono competizioni troppo efferate, ma le grandi gare tra sorelle sono anche esiti di triangolazioni segrete, mezzi di conflitti genitoriali, sintomi di un senso inadeguatezza che travalica e per cui si ritiene a ragione o a torto che la sorella, visto che qui parliamo di bambine raccolga un’eredità che la bambina gelosa non si sente in grado di incarnare.

Sullo sfondo, c’è il discorso degli ambienti culturali in cui le bambine vivono. Questa quarta manopola ha un grande potere, ma questo potere può essere enormememente depotenziato se non addirittura annullato dai codici familiari. Per questo io in generale sono sempre molto tiepida sulle questioni tipo la passione per il rosa, o i giochi come le bambole o la cucinina o cartoni animati molto connotati per genere. Mi pare che facciano da collante con i pari, e che specie se pensiamo all’età in cui entrano in scena, l’età di quando il serpente non ha ancora fatto la sua comparsa, rafforzino il nucleo identitario nascente. Ma il primo codice veramente importante del modello politico della bambina di viversi come femmina le verrà dalla famiglia, e se la famiglia è una famiglia dove vige un rapporto paritario, e magari una madre che lavora, la bambina potrà giocare co le bambole vestirsi di rosa e vedere le fate alla tv, niente di tutto questo scalfirà il potere di una madre che lavora e che glielo racconta. Tuttalpiù invece se l’organizzazione dei ruoli a casa è tradizionale la bambina la vedrà riconfermata nei prodotti per l’infanzia. Ma non è una cosa per me, psicologicamente allarmante.

Ora possiamo tornare dal Serpente.
Il Serpente più famoso di tutti i tempi è quello che a Eva propone il frutto della conoscenza. La narrazione biblica prima di tutte perciò mette insieme scoperta del sesso, del piacere, della mortalità, del pudore, del male ma anche de sapere. Il serpente veterotestamentario è la più grande metafora dell’adolescenza, della cacciata dall’eden infantile, della consapevolezza di se e di una forza che può essere maligna. Nel suo aspetto di animale antico, invertebrato, di comportamenti moderatamente riconoscibili, il serpente è anche un’immagine interiore origiaria, poco sviluppata, come dire: grezza. Le bambine crescendo, specie in salute, sogneranno il loro maschile interno in forme sempre più sfaccettate, articolate, individualizzate, meno monolitiche e tribali, ma molto più sofisticate. Tutte le dimensioni interne di cui il serpente è come dire prodromico prenderanno altre forme. A seconda della loro personalità. E certamente a seconda di come hanno girato le manopole relazionali di cui abbiamo parlato sopra.

 

C’è un caso specifico però di cui voglio parlare per concludere perché sono le bambine che hanno ispirato il desiderio di questo post, che poi invece è andato altrove. Un rapporto sano con il maschile interno che si presenta, nell’intreccio di sesso conoscenza e potere, vuol dire che questo insieme di fattori è una risorsa importante, dell’arsenale interno della ragazza che l’aiuterà in molti momenti importanti della vita. Per esempio riconoscere l’attrazione sessuale, desiderare conoscere un uomo, combattere per averlo, ma anche combattere perché un proprio potere sia affermato, una conoscenza e un’identità. Meno di quel che psicoanalisti vecchi e maschi credano – questo ha a che fare con il diventare madre. Perché il diventare madre non ha niente a che vedere con il fallo, se non in forma nevrotica e compensatoria, ma con una sana identificazione e una buona esperienza con il proprio materno e con il mondo del femminile e quello che di enorme sa fare. No un buon rapporto con il serpente, riguarda altro.

 

Ci sono bambine che ne sono molto spaventate, e hanno paura di venire in contatto con questa forza interna, e rimangono perciò trincerate anche oltre un tempo lecito in un infantilismo protratto, in una piccineria forzata, che in qualche caso tranquillizza ed è compiacente anche verso i genitori, che potrebbero essere non proprio contenti di vedere la loro figlia crescere, e cioè entrare nel regno della vita in cui ha potere, un potere analogo al loro. Ci sono invece bambine, che per diversi motivi, si identificano precocemente con il serpente nella sua forma più arcaica e indifferenziata e si comportano in un costante e sostanziale abuso di potere, che vizia le loro relazioni. Queste sono le bambine di cui capita di dire che sono cattive, o precocemente seduttive in modo da essere guardate con sospetto. Sono bambine per esempio molto carismatiche, ma che con le amiche possono avere un comportamento svalutante, o dominante, o sadico, ch e indugiano in provocazioni che possono essere fuori luogo, e che sostanzialmente come corda ricorrente manifestano un urgenza di potere. Non hanno amiche, hanno suddite, con gli adulti hanno spesso rapporti sfidanti e contrastati. Questo vuol dire che hanno motivo di svalutare anche se non consapevolmente altre loro risorse interne, ma anche che hanno dovuto elaborare precocemente un’urgenza di potere e anche che hanno un rapporto con il femminile interno, e con il materno tarato su una diffidenza, un bisogno di controllo, persino una revanche. Una zona irrisolta e complicata viene dominata con un controllo parossistico sull’altro, e un terrore delle proprie parti debili e fragili annichilito ed esorcizzato dal maltrattamento di altre persone. Il nascente contatto con il maschile – ancora grezzo indifferenziato poco individualizzato, diventa il braccio armato di una nevrosi tra le più sgradevoli, che poi porterà a quello che nel lessico analitico della prima ora era comunemente considerata la donna fallica. Alla fine, non quella che lavora, ha successo e sta anche femminilmente contenta nella sua vita con le sue forme di giusto potere, ma quella che è solo potere, un esclusivo potere sessuale e relazionale, che in certe forme più gravi ed estreme, si porta molto lontano dalla creatività capace di fare mondi, ma si ritaglia un posticino in una coquotterie osssessiva, in una seduzione sempre pronta a dominare, ma mai adatta a fare spazio alla relazione e alla maternità. Ma siccome tipico del potere è mostrarsi soddisfatto di se stesso, questo tipo di bambine prima e di donne dopo, farà molta fatica a sentirsi in difficoltà a capire il proprio disagio.

Racconto sdolcinato del buongiorno

 

Aveva cominciato con un buco oscuro, tre metri per due, strizzato tra una merceria e un macellaio, un cunicolo si può dire, per il quale il bancone fu pensato con una certa esilità, se no manco i clienti sarebbero potuti entrare, le cose da mangiare organizzate una sull’altra, cornetti come acrobati di circo che fanno una piramide, cameriere magre non per discriminazione ma per forza di cose.
E quando aveva questo bar piccolo, nel centro della città a cui approdava nel bagnasciuga del mattino da periferie lontane e ancora notturne, era giovane, tarchiato, ineluttabilmente meridionale, e inderogabilmente caparbio.

Il buco oscuro dava su una pizza piena di verde e di case gentili, e quando se lo prese per farci il bar, la moglie aveva fatto una bambina, la bambina più bella della città pensava lui senza indugio di fronte alla concorrenza di una capitale intera – piena di bambine bellissime certo, ma non quanto la sua, e ecco, quando prese il buco del bar sulla piazzetta aveva pensato che in una di quelle case gentili, che devono avere dei bei salotti con mobili luccicanti e nuovi e cucine senza dubbio spaziose dove eventualmente fare pure gli gnocchi, li avrebbe voluto far stare la sua bambina più bella di tutta la città, se fosse diventata grande.

Perciò s’era messo a fare il bar bellissimo e attraente, s’era incaponito con mille strategie di fatica e seduzione, colazioni speciali per i dipendenti dell’ufficio brevetti al civico dopo, parole gentili per la signora sempre triste dello stabile, tavolini di ferro battuto sullo spicchio di marciapiede eroso con i denti, nel numero di tre – perché di più all’inizio non ci entravano. Poi la signora della merceria era andata in pensione e suo padre era morto. E dunque si potè pensare a una pasticceria (e sette tavolini).

Al tempo della pasticceria la bambina più bella della città aveva nove anni, e continuava a essere naturalmente non solo la più bella, ma certo la più intelligente e giudiziosa – e lui aveva inventato una torta di cioccolato e caffè – ma c’era sicuramente un altro ingrediente segreto di cui non rivelava il nome. La torta si chiamava come la figlia, e  dunque torta Sabrina, e al sabato sui tavolini di ghisa  si poteva mangiare la torta col caffè e il parco in mezzo alla piazza, la moglie alla cassa e la figlia intorno. E certamente lui era felice.
E certamente la felicità aiuta il mercato.

(La moglie se l’era scelto con evidente lungimiranza. Ma per un altro motivo, o meglio per un altro motivo unito a questi di cui sopra. Il motivo per cui l’aveva sposato era il terzo tavolo a sinistra, a volte anche il quinto e che era regolarmente occupato dagli ospiti più estremi della vicina casa famiglia, ancorché pazienti dell’adiacente centro di salute mentale, e quindi in ultima analisi clienti non proprio agilissimi del bar, e nel complesso moderatamente paganti.
Questi clienti complicati, spesso riottosi, altrettanto spesso indecifrabili, erano anche, secondo la signora, di una franca bruttezza, di una costitutiva malagrazia, erano come le cose che porta il mare sulla spiaggia libera, e nessuno toglie, cose che non sanno andare da nessuno. E che suo marito nutriva al terzo tavolino di ghisa.

Nello specifico, il momento di massima tenerezza che provava la signora, una tenerezza che le aveva insegnato qualcosa visto che di suo all’inizio manco una seggiola di plastica avrebbe concesso, era quando il marito si accorgeva che i clienti particolari – che  a dire il vero non si capiva mai bene se erano assistiti del centro adiacente o senza tetto di tipo semplice – si avvedeva che l’odore dell’aria cambiava, perché parte della sintomatologia ricadeva sul sapone. Di conseguenza, il povero marito suo si trovava in un conflitto tra due ordini mentali – uno afferente alla distinta signora dello stabile ingioiellata e in lacrime al tavolo due, l’altro al parterre dei pazienti psichiatrici del tavolo tre, e quindi provando – da una parte il desiderio fortissimo di sedurre rendendo clienti permanenti anche le amiche con cui la signora dello stabile aveva appuntamento alle undici e si sarebbe confidata consumando, dall’altra una sorta di desiderio indistinto e gentile perché lui no, non aveva cuore di cacciare i puzzolenti cazzo, e diciamolo diobono puzzolenti e irriducibili, clienti del tavolo cinque, che non mi fate dir parolacce manco pagano, pensava.
E allora la moglie gli vedeva tirar fuori una bomboletta spry al mughetto, che cospargeva per l’aria aperta di fronte al locale, nel tentativo di conciliare gli opposti, opposti per il resto del mondo inconciliabili, e  che pure suo marito considerava con modesta speranza di riuscita.  Sotto un certo profilo vi era anche qualcosa di ridicolo, questo maschio tarchiato e perplesso con la boccia violetta profumata- ma la signora, si era innamorata proprio di quello, come se l’avesse indovinato di già il primo pomeriggio in cui l’aveva conosciuto.

Psicologia del medico

 

Non di rado quando incontro un medico, in particolare un medico ospedaliero, o che lavora in una struttura – specie pubblica – provo un misto di sentimenti diversi, che variano di volta in volta – a seconda che di me prevalga in quel momento l’organizzazione mentale della paziente, o quella dell’analista. I medici naturalmente sono tutti diversi, come lo siamo tutti noi gli uni rispetto agli altri nei nostri abiti di personae, soggetti pubblici nel nostro ruolo sociale: ci sono maestre introverse e maestre estroverse, estetiste materne ed estetiste severe, avvocati loquaci e avvocati scontrosi, e ci sono certo medici di tutti i tipi. Tuttavia, come ognuna di queste professioni ha una identità professionale che in parte è luogo comune in parte è struttura difensiva dietro cui ci si mette al riparo, e dentro cui si trova un canovaccio a cui ispirarsi in certe sfide complicate, anche il medico ha una persona, costrutto junghiano che prende ispirazione dalla maschera del teatro latino, ossia un’organizzazione di personalità che protegge l’intimità e che è nata per mostrarsi al pubblico: la personalità pubblica della sua professione. Lo stereotipo di riferimento a cui buona parte dei medici allora si ispira – e bisogna dire anche un nutrito numero di psicoterapeuti, soprattutto uomini – mette insieme: autorevolezza, maschile senso di responsabilità, distacco oggettivo che risente di una assunzione etica, a volte una stanchezza cronica accordata dal pubblico per una vita che è comunemente riconosciuta come piena di sacrifici. Alcuni ci aggiungono una materna accoglienza, altri un cinico umorismo, molti una supponenza indigesta. Alcune caratteristiche di personalità invece, stridono profondamente con la figura pubblica del medico, gli sono perdonate molto meno volentieri che ad altre professioni – e i dottori imparano presto a occultarle. Il medico raramente può essere umile anche se sarebbe portato, non gli è concessa timidezza, incertezza, titubanza. Non può scendere al di sotto di una certa quota standard di introversione.

Allora succede che se in me prevale la paziente che sono, anche piuttosto codarda, e ipocondriaca, io di fronte al medico, possa scivolare nella regressione tipica dei pazienti, che vedono nel medico una figura ammirevole e nei confronti del quale sono sempre ben disposti e filiali, e solo una buona educazione borghese mi trattiene dall’essere troppo richiedente. In questa posizione psicologica, una posizione che io sento come tipicamente di paziente, o almeno tipica della famiglia di personalità a cui io appartengo, scatta anche una specie di materna comprensione dei tratti caratteriali del dottore con cui mi vado a mettere in relazione – una sorta di spontanea comaresca amplificazione. Bisogna capirlo, dice cioè la paziente comare che è dentro di me, questo povero dottore che risponde frettoloso, ha molto da fare è molto stressato. E lo scopo della mia psicologia, credo, in quel frangente – è proteggere la relazione con un soggetto che io percepisco come potente e su cui io ho, mio malgrado, posto delle proiezioni genitoriali. La relazione con il medico è una relazione infatti con un dispositivo regressivo sempre acceso.

Se invece prevale l’analista, mi vengono in mente molte altre considerazioni che mi hanno fatto pensare in questi giorni, a questo post. Provo infatti una clinica preoccupazione per questi professionisti, che fanno un mestiere bellissimo, faticosissimo, molto dispendioso emotivamente e psicologicamente, direi pericoloso quasi in termini di equilibrio psichico, ma che – grosso modo come un’altra categoria professionale sovraesposta ai grandi rischi, come i dipendenti delle forze dell’ordine – molto raramente riconoscono la natura di questi costi, e il bisogno che avrebbero di essere tutelati psicologicamente. Per fare un esempio: qualche giorno fa parlavo con una mia collega in forze in un grande ospedale romano, dove ha molti delicati compiti, ivi compreso quello di assistere il personale medico nella gestione di comunicazioni molto dolorose – per esempio: far sapere a una coppia di genitori che un bambino è morto dopo due anni di ricovero, ma anche far sapere a una coppia di genitori che un bambino ha fatto un piccolo progresso, ma è più probabile che non ce la farà – e mi diceva: alle sedute di gruppo che organizzo settimanalmente vengono tutti gli infermieri, vengono le ostetriche, vengono tutti, ma i medici non si fanno vedere. Poi se c’è da dire una comunicazione a un genitore  -scappano.

Il difficile accesso all’idea della cura di se, ha diversi appoggi razionali. Il primo e glorioso, è che il medico spesso si convince di lavorare su una materia oggettiva, che è il corpo malato, mentre tutto quello che è correlato a questo corpo, l’emotivo che viene da lui stesso o dal paziente, gli aspetti della loro relazione, sono luminescenze del privato, cascami non trattenuti di quello che c’è sotto il camice e non è dirimente, di quello che impone il paziente che purtroppo non ha il camice. A dire il vero, questo modo di intendere la questione è tipico dei medici più sofferenti, con problematiche psichiche interne più irrisolte, per cui si tratta di una organizzazione difensiva che avrebbe una funzione protettiva. Altri riconoscono la natura dello scambio emotivo, e i costi che arrivano da un lavoro tanto coinvolgente e dispendioso ma ritengono che un monitoraggio psicologico sarebbe bello ma impossibile da praticare, il tempo manca, non vi è spazio per fare anche questo, forse avrebbero un desiderio di terapia ma ne hanno paura. Non di rado sono anche medici anche bravi da un punto di vista relazionale, tengono botta, magari pagano con una serie di patologie psicosomatiche – gastriti psoriasi più potenti di altre. A questo secondo gruppo però, appartiene anche un gruppo di operatori che cade anche in un rischio opposto a quelli del primo, si fanno molto coinvolgere, sono molto solerti, non riescono a porre dei confini, sono sempre e comunque molto disponibili, e molto amati dai pazienti, riconoscono la necessità di una comprensione psicologica degli scambi che intercorrono con i pazienti, ma hanno una idea distorta della psicologia – credo la stessa che hanno le matricole della facoltà di scienze psicologiche, per cui sono tutti tarati sulla comprensione dell’altro, sui bisogni dell’altro, sono molto accoglienti, materni. La verità è che, per quanto siano bravissime persone, per loro la psicologia è un mezzo di dominio sull’altro, una cosa che serve a circoscrivere l’altro, ma non arriva la necessità di farsi domande su di se.

Dunque, tirando le somme, in pochissimi di loro accederanno a una psicoterapia, se non sospinti da uno scacco matto personale, da una crisi profonda che arriva dal mondo interno, privato e familiare. Raramente, a detta almeno dei colleghi che ci si trovano, quando hanno la possibilità di incontri di gruppo gestiti da un collega vi accederanno, o vi sosteranno partecipando attivamente. Un gruppo intraospedaliero, a cui partecipasse la metà del personale medico, beh è per esempio un gran successo.

Invece io penso che poche professioni abbisognino di un sostegno psicologico di default come il medico, forse – come alludevo sopra – gli unici a meritare altrettanta cura sono i dipendenti delle forze dell’ordine. Molte figure professionali beneficerebbero – sia chiaro – di una assistenza psicologica – gli assistenti sociali, i maestri e i docenti ma recentemente ho speso un pensiero pietoso anche per gli amministratori di condominio – perché hanno a che fare con persone, con le emotività degli altri, con i loro destini, insomma non è facile per tanti lavorare con la vita. Ma i medici hanno una serie di questioni davvero onerose e accessorie che rendono il loro lavoro molto più complicato di altri – al di la delle complicazioni tecniche che però in tutta onestà possono anche essere altrettanto potenti di quelle che incontra un ricercatore in fisica o il quadro di un ufficio pubblico. Ma proprio nel loro lavoro, c’è una quantita di oggetti attaccati ai corpi che curano e alle loro mani che li curano, una quantità enorme di cose invisibili e ugualmente potenti, che possono rovinare le loro carriere, e le loro vite private.

Il primo di questi oggetti, è nella natura della loro vocazione. Nel perché hanno scelto il loro mestiere. Questo oggetto invisibile gli psicoanalisti lo riconoscono subito, perché spesso lo condividono, e altrettanto spesso se lo sono però andati a vedere con un collega più esperto. La scelta di curare infatti, da un certo punto di vista, è piuttosto bizzarra. Cara, mi disse una volta la madre di una mia amica, ma perché vuoi proprio passare il tuo tempo con gente imbruttita dal malessere che si lamenta in continuazione? Le risposte in generale vanno su due binari. Il primo è il desiderio salvifico, il secondo è quello di prestigio sociale e di guadagno. Entrambi sono desideri importanti, realistici, ma che coprono questioni interne, che possono avere a che fare con bisogni molto più urgenti, incandescenti e radicali. Due esempi possono essere: desiderio di dominio dell’altro, di posizione asimmetrica per non farsi coinvolgere in un piano di parità, o in una misura analitica più profonda e individualizzata, desiderio di curare qualcuno, come si aveva il desiderio da bambini di curare un proprio genitore. (Anche qui, analogia: non si contano  gli psicologi figli di genitori con psicopatologie importanti, forse anche io appartengo alla categoria).
Se si rivela la natura endopsichica della vocazione medica, e il senso che la propria personalità da a quella scelta, si possono sorvegliare meglio alcune dinamiche stranamente complicate con certi pazienti i quali, per loro motivi potrebbero senza saperlo aver intaccato il mitologema legato alla pratica professionale del loro dottore. Pazienti che diventano insolitamente importanti come una madre e che non si riescono a curare, per esempio perché hanno una patologia cronica, o pazienti che invece non seguono le terapie che il medico prescrive e che mettono sotto scacco il suo desiderio di dominio, oppure pazienti che nel loro modo di porsi, magari anche per una questione psicologica loro attaccano quella centralità narcisistica a cui la scelta professionale era funzionale. Non di rado, il medico è anche un figlio che è medico per compiacere un’idea di affermazione sociale, che è di fatto il narcisismo in differita delle loro figure genitoriali da compiacere, e ci sono anche diversi medici, che lavorano rinchiusi in una gabbia comportamentale che mette insieme magnanimità prestigio, severità contegno, disciplina e tutto quello che può servire per compiacere una coppia genitoriale molto richiedente sul piano dei risultati professionali e intellettuali, e poco generosa sul piano della comunicazione degli affetti. Molti medici brillanti e stimati, sono stati bambini molto dotati.

In ogni caso, più si disconoscono i mitologemi psicologici, collegati alle prassi di cura, più si verificano successioni di guai di ordinaria o straordinaria amministrazione nei rapporti con i pazienti. Spesso, va detto che vale per i medici quello che vale per tutti noi, l’esperienza aiuta, l’esperienza fa digerire passi, non solo quella professionale ma anche quella esistenziale. Si reggono meglio le delusioni, si reggono meglio gli errori propri e quelli altrui, si impara a esercitare la tolleranza. In fondo è quello che ci diciamo quando invecchiamo, i commenti che facciamo di noi stessi quando affrontiamo degli scacchi difficili sul lavoro, e impariamo a non reagire aggressivamente, o a non addolorarci troppo. Ma se ci sono dei nodi psichici importanti, questa professione non li perdona, e difficilmente li aiuta a scioglierli. (In questo senso, gli psicologi, sono molto più fortunati: hanno dei racconti di privati altrui, che li costringono a ripensare al proprio. )

Il problema è che la relazione con il paziente, è comunque carica di difficoltà anche per il più risolto dei soggetti, per questo diviene un banco di prova importante per le nevrosi di diverso lignaggio. Il contratto tra medico e paziente attiene la cura del corpo, e il corpo è per tutti, qualcosa che è insieme identità, unica chance, mezzo per ottenere oggetti primari importanti. Anche quando in campo ci sono problemi del corpo di modesta entità, la domanda emotiva sul medico è decisamente potente. In secondo luogo, il fatto che di mezzo ci sia il corpo, e una persona che lo curi, rievoca invariabilmente nell’assistito – anche qualora non ne sia cosciente – una esperienza regressiva: c’è stata infatti una sola altra importante occasione in cui lui era il corpo e c’era un adulto che se ne occupava, ossia quando era bambino con sua madre. Il medico si sente perciò genitorializzato, e lo schema relazionale che mette in campo il paziente gli farà tornare in mente il suo, quello di cui è stato oggetto. Ci sono perciò molti medici che reggono brillantemente la situazione, e altri che invece si arrabbiano, diventano insofferenti, particolarmente rifiutanti, assumono una postura inaccessibile. Ci sono medici che diventano invidiosi della centralità che riescono a imporre i loro pazienti, e che vi reagiscono in maniera sadica, mettendo in campo una freddezza che ha una segreta ragione punitiva. Come ti permetti di saper attirare la mia attenzione. Queste cose, sono particolarmente tossiche quando si tratta di comunicare delle diagnosi.

C’è anche un oggettivo problema di confine che hanno i medici un problema posto dalla loro deontologia. Il medico, non può permettersi, il confine che si permettono la stragrande maggioranza delle professioni. L’essere contattati fuori dall’orario di lavoro, ha connotazioni che non riguardano solo la prassi medica sulla carta, ma la sua stessa ratio – la sua ispirazione. E questo può essere un problema enorme, che secondo me necessiterebbe di un pensiero esplicito e strutturato. Se questo pensiero strutturato, un po’ sulla propria natura emotiva e storia personale, un po’ sulle connotazioni della propria specializzazione, e della relazioni con i pazienti, non viene fatto possono esserci strane derive, alcune con i pazienti diverse fuori dal lavoro. Il medico che non capisse come la sua accoglienza totalizzante rispetto alle richieste degli assistiti è anche frutto del suo mitologema psichico intorno alla professione, ancorchè della sua difficoltà a reggere le domande emotive e regressive dei pazienti, potrebbe essere lo stesso che non è in grado di riconoscere il bisogno di limite di altri professionisti a cui si rivolge, o anzi, rinfacciare loro – ve lo devo dire, è piuttosto frequente – il lavoro titanico che lui fa, imponendo comportamenti squalificanti e inappropriati. Medici che chiamano avvocati a orari improbabili, medici che chiedono a liberi professionisti di venire a casa loro anziché recarsi al loro studio, medici che si arrabbiano se non incontrano la disponibilità acquiescente e nevrotica che connota il loro modo di lavorare. La cultura della generosità e del suo abuso, deriva inelluttabile dell’organizzazione capitalistica, rinforza con il narcisismo questo tipo di medico dispotico, che si sente, in quanto buonissimo sacrificato e disponibile, un eroe del nostro tempo legittimato ad angariare il prossimo, senza che però si accorga di quanto invece fa torto a se stesso. Bisognerebbe allora, aiutare queste persone a lavorare sul concetto di limite, per trovare soluzioni comportamentali utili a farlo rispettare qualche volta, e a ragionare insieme su come ci si sente quando è eluso.

Ci sarebbe poi un discorso da fare, sul carico emotivo enorme che ha la gestione della cronicità e della morte, della fine vita e della vecchiaia, ma il post sta venendo molto lungo, ma prima di chiudere voglio fare un’ultima diversa osservazione. Ho la sensazione che ci sia un’incidenza importante nella differenza di genere rispetto alle difficoltà nell’esercizio del ruolo. Nella mia carriera di paziente, e di familiare di pazienti anche gravi, ho notato come le dottoresse donne fossero statisticamente più agevolate nella gestione del ruolo, dei dottori uomini.   Ho raccolto da parte di donne in diverse occasioni comportamenti sintomatici di una difficoltà nell’esercizio della professione, ma in misura inferiore dell’esperienza con i medici uomini. Sono da parte di entrambi, poche esperienze, perché la fuori c’è anche tanta gente brava e che si sforza, però mi è sembrato di cogliere una maggiore difficoltà per i maschi, difficoltà che ha diverse ragioni, endopsichiche e socioculturali. Avverto come, l’esercizio di un mestiere che per essere ben esercitato, al meglio diciamo, implica competenze solitamente di appannaggio delle donne, la cura dei corpi, è uno dei quei luoghi culturali dove si gioca la trasformazione di ruolo del maschile, e la difficoltà di cambiamento che attualmente attraversa. Ma c’è anche il fatto che, banalmente, il passaggio dalla maternità per molte dottoresse, ma anche l’esperienza di essere figlie, aiutano più dei loro colleghi a recuperare un’identificazione con la madre che si può spendere in diverse occasioni. In compenso, le dottoresse donne, possono avere una certa difficoltà a vedere riconosciuta il loro desiderio di identificarsi con il loro padre interno tradizionalmente inteso, o con la loro madre interna se è stata una lavoratrice felice di esserlo, e quindi vedersi meno riconosciute nell’esercizio della professione.
E’ un mondo insomma, dove ci sarebbe parecchio da fare.

Huppert in piscina

 

Per via del fatto che la piscina era già alla sua nascita il tempio di una grandezza sognata, di finestre alte, marmi lucidi, petti gonfi e menti prominenti, con la luce obliqua del pomeriggio mantiene un suo eburneo splendore, che certo con tutto quello starnazzare di bambini e tuffi e schiamazzi, ciao mamma ciao papo, perde l’allure neoclassica, ma mantiene una rete di salvataggio dalla caduta nazional popolare.
Sebbene.

E’ il giorno del brevetto, e la donna che osservo è in prima fila davanti alla balaustra, mentre in basso bambini gracili si buttano prima nell’acqua, poi alzano gli occhi a cercare ognuno i loro, qualcuno muove una mano, qualcuno invece non ci prova neanche. Istruttori di nuoto sudano sull’orlo della vasca si sbracciano, fischiano, e lei in questo frangente legge un libro, sta proprio in prima fila e legge un libro. Il naso e gli occhi e il corpo esile, la fanno somigliare a un’attrice di Haneke, o anche, essendo in effetti la medesima interprete, a una di quelle nevrotiche francesi che con precisione restituiscono il parossistico riferimento al loro malessere.

Mi pare molto arrabbiata, perché questa coercizione ai riti del materno, le impedisce la giusta concentrazione, tutto intorno a lei è pieno di uomini e donne che fanno solo le madri e i padri, bestiole rumorose le sembrano, ma anche sciocchi che esagerano l’importanza di modeste questioni, topi che stanno dietro al flauto magico dell’industria culturale crede lei. Isabelle dovrei chiamarla io penso, chi sa se suona pure un pianoforte, con quello stesso amaro e severo talento.

(Come non servono i libri. Magari, a pagina 50, circa cioè 15 pagine prima di quella che ora è aperta – mentre una bambina sta diligentemente spingendo una tavoletta, qualche scrittore ha raccontato proprio questa scena, di una mamma che al saggio della figlia legge un libro anziché guardarla, lo scrittore che tutto sa racconta di quel che le dispiace, di lei che cerca lo sguardo della madre e non lo trova, del fatto che si dice cose come che è normale leggere un libro al saggio, del fatto che si dispiace lo stesso, che però minimizzerà perché sua madre è così dice lo scrittore onnisciente che legge nel cuore della protagonista.)

(E lei non si sarà commossa, forse avrà letto la scena come una interessante metafora di qualcos’altro, o forse sentendo di cosa parla, identificandosi li per li, probabilmente non a torto, con la bambina che si esibisce, sarà stata infastidita dalla caduta emotiva, avrà vagliato l’opportunità estetica di scrivere di piscine, una cosa poco letteraria a suo giudizio. Perciò, avrà letto molto velocemente.
Forse c’è solo da augurarsi che, come dovette raccontare la vera bravissima Isabelle, si tagli una mano, per vedere il suo sangue.)

 

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