Alla biennale di quest’anno, sono esposti i quadri di Njideka Akunyili Crosby, artista nigeriana trasferitasi poi in USA, che fa dei bellissimi pannelli di interni domestici, interni della sua casa, della sua famiglia. A una certa distanza, appaiono come interni borghesi, e almeno a me riportano le stimmate tipiche della borghesia nera, almeno in certa letteratura e in certo cinema nordamericani. La berger. I figli tutti sul divano. I ritratti ovali nelle cornici ricamate.
A guardare più da vicino, oggetti e cose, soprattutto, la pelle delle persone, sono intessuti di disegni più piccoli, fitti di icone e di simboli, stralci di riviste e pagine internet, nel tentativo di rappresentare un tessuto transculturale, a vederla positivamente, ma anche di colonizzazione simbolica e psichica, a essere più foschi, che alla fine come dire, cambia la pelle delle cose –e forse anche il pensiero, l’identità l’essere nel mondo. Siccome sono i quadri di una donna, che riprende la sua famiglia, e la sua cucina, e quindi il suo sguardo abitato da altri simboli sulle cose, le sue personali rappresentazioni, mi ha fatto pensare a me, che scrivo questo post che parla di femminile e di materno, me che guardo il mio essere madre, o anche professionista che si occupa di altre madri e figli di altre madri. Me che dico, quando guardiamo l’atto di avere una casa e una famiglia, l’atto di pensarla e codificarla con un aggettivo possessivo, la mia casa, la mia famiglia, i miei figli. Quanti simboli mettiamo sulla pelle di quel noi, quanti oggetti che cambiano il colore della pelle delle nostre cose. Quanto dei sapidi consigli degli esperti, e dei discorsi collettivi sul mio ritenere ciò che è mio, quante esortazioni filosofiche sul mio, quante tutte queste cose, sono davvero il mio. Come forse l’artista Akunyili Crosby io pure sono una che va a caccia di altri ritratti, altri oggetti altre logiche discorsive da mettere sulla pelle delle cose. Forse io come lei sono colei che fa l’immagine ultima del mio, mia cucina, mia famiglia, mia vita, mia composizione del reale insieme agli oggetti che ne riconfigurano la pelle.
Scrivo questo post riflettendo sulla lettura appena terminata di Luisa Muraro, l’ordine simbolico della madre. Potrei al momento stampare questo libro, sulla braccia di qualche mio familiare, di mia madre per esempio o dei miei figli, qualora facessi un ritratto privato simile a quelli compiuto da Akunyili Crosby. Inserire quel libro da solo, sulla rappresentazione interna della mia linea familiare, politicizzerebbe il mio modo di abitarla, per esempio mettendo mia madre al centro, centro di trasmissione della creazione e dell’identità che ha preso il suo centro dalla sua, e lo passa a me, che lo trasmetto ai miei figli. E’ un bellissimo concetto in effetti, quello dell’ordine simbolico della madre, trovo che meriti ammirazione e rispetto e necessità. Perché chiede di disseppellire il femminile dall’ombra dell’assenza di significato a cui è stata sempre assoggettato- per venire alla luce come eterno generatore di esistente e di significato, quanto meno comprimario rispetto al potere nomotetico del padre. Si salda anche l’ordine simbolico della madre, con le prospettive della mia identità professionale, con le cose che mi ha trasmesso, perché la psicologia dinamica sa e insiste sull’importanza della madre nella costruzione dell’identità futura, sa che il materno nei primi anni incide sul modo di stare al mondo a venire. E dunque è comprensibile che quel potere sia celebrato. C’è una asimmetria relazionale, nel rapporto con i genitori all’inizio della vita, ecco, quell’asimmetria dovuta al ventre come casa, e al seno come fonte di cibo, che rende ragione alla magnifica tesi di Muraro.
C’è anche da dire però che questo ordine simbolico della madre, penso anche, è per esempio associabile al culto mariano, e tutte le immagini della madonna prima, da gravida a madre che allatta, giù fino a Maria con Gesù tra le braccia un po’ più grande, fino a Maria che piange Gesù crocifisso sono state l’iconografia che ha intessuto l’ordine simbolico del materno, nel mondo cattolico quanto meno, complementare al potere trascendente del maschile. Maria è piena di grazia, Maria Benedetta tra le donne, e di Maria è il grembo benedetto che metta al mondo Gesù, il figlio dei figli, il figlio di tutti figli. E siccome il femminile è creatore, non è per niente detto suggerisce anarchico il femminismo della differenza, che Dio non possa essere donna. In ogni caso, Maria Giuseppe e il bambino, sono – anche a detta di un importante analista junghiano, Maffei, l’archetipo della famiglia e la trascendenza a cui si deve il miracolo della nascita, per me la spiegazione più efficace di ogni biologia del miracolo della vita.
L’associazione del culto mariano, all’ordine simbolico della madre, anche con la conseguenza temeraria ma logicamente ineccepibile che Dio possa pure essere donna, o pensato o pensata come tale, mi dimostra che in ogni caso nella pelle della mia percezione del privato, del presepe, del mio presepe, di quello dei miei pazienti, Muraro e tutto il femminismo della differenza, non possano essere nient’altro che uno dei contenuti che insistono sulla pelle del quadro ma non il contenuto dominante. Farne il contenuto dominante diventa infatti per me prescrittivo e pericolosissimo, e le scivolate nella visione cattolica del femminile mi angosciano da dietro l’angolo, così come analoghe scivolate vedo all’orizzonte benchè di marca laica. Tutto il femminismo della differenza ha avuto un ruolo imprescindibile, e sempre credo che lo abbia in un certo momento nevralgico della storia di ogni gruppo culturale. Emerge, potentemente in modi diversi –a rivalorizzare eticamente ed esteticamente il ruolo misconosciuto, e quindi il valore di una metà del cielo, e l’importanza dei compiti che sono storicamente stati assegnati a quella metà del cielo. Passano per il loro femminismo della differenza con nomi che non conosciamo ma che esistono, le donne arabe, le donne africane, le donne sudamericane. Sono femminismo della differenza molte produzioni culturali che magari non decodificheremmo come tali, ho pensato ai ritratti di Frida Kahlo, o alle orchidee di Georgia o’ Keefe. E’ femminismo della differenza tutto quello che riconfigura come oggetto pubblico e socialmente meritevole di riconoscimento l’insieme di assetti identitari che erano solo parzialmente riconosciuti se non affatto riconosciuti e comunque gerarchizzati come inferiori. L’insieme di queste cose sono costellate intorno alla cura della generazione: riguardano la cura delle relazioni, la capacità di donare affetti, ma anche di arredare dei mondi interni, ma anche di costruire un’estetica di quei mondi interni. Le case, i merletti, gli amori, i dipinti. Il femminismo della differenza ha riconsegnato una giusta e necessaria nobiltà a un certo modo di stare al mondo e ha sottolineato l’esistenza di un saper pensare, saper creare, saper esistere nel mondo di logiche estranee ai saper fare saper pensare saper creare del mondo maschile. E naturalmente, proprio che nobilita ciò che è svalutato ma al contempo grandemente diffuso, è destinato a essere uno strumento vincente nei paesi moderatamente sviluppati, per tutto quello che concerne le politiche di genere. L’Italia, che ha raggiunto il boom economico molto rapidamente, e altrettanto rapidamente lo sta perdendo di vista, ha un gender gap ancora molto importante. Molte donne non lavorano, non hanno servizi pubblici, Luisa Muraro e tutte le sue, ancora possono fare da padrone: sono funzionali al nostro contesto economico e politico, alla nostra attuale divisione dei ruoli. Alla fine, la derivata pratica della teoresi della differenza, implica una valorizzazione di ciò che culturalmente si associa alla differenza, l’appaiamento tra sesso e ruolo di genere.
Non è una cosa da poco, non è una cosa politicamente stupida. Trovo classisti, il perché lo dico dopo, ed elitaristi i toni di chi liquida queste cose come roba da niente.
Se però io dovessi fare per esempio, un ritratto della famiglia da cui discendo, un quadro in cui in un salotto simile a quello ritratto dall’artista nigeriana ci siano mia madre, e mia nonna e la mia bisnonna, un ritratto con le mie amiche, o quelle di mia madre, o con me e mia sorella, insomma un ritratto del mio mondo, io come un certo numero di donne italiane, e come un numero ancora più nutrito di donne di altri paesi, europei o nordamericani, dovrei pensare ad altro, che al femminismo della differenza, dal momento che mia madre ha lavorato come dirigente, mia nonna pure, la bisnonna idem, e così tutte le femmine in lungo e in largo l’asse materno. Hanno fatto lavori poco muliebri e anzi, hanno nutrito un malcelato disprezzo per tutto quello che era casalingo. Sono state donne di decisioni, di calcoli, di ordine, di ordini, di posti pubblici – sono state donne cioè che hanno macinato con soggettività processi mentali categorizzati fino a poco fa come maschili, e delle quali non si può dire, forse proprio in virtù della loro matrilinearità che scimmiottassero degli uomini.
Quando si hanno intorno esempi di donne che lavorano, di donne che fanno quadrare i conti, che si assumono responsabilità sul luogo di lavoro, dalla custode alla preside, dall’infermiera alla chirurga, quando c’è questo tipo di mondo intorno, per cui chi arriva prima fa la cena, chi può fa la spesa, la decodifica pratica di cosa produce la differenza anatomica dei sessi, diventa un tema scivoloso. A una Irigaray che ci aveva attorno tutte signore a cui spiegare le cose mentre ricamavano, figlia di una mamma e di una nonna che ricamavano pure loro, può sembrare ovvio che un certo tipo di eloquio e di razio sia di matrice ontologicamente maschile, e quello che fanno le donne uno scimmiottare, ma quando si sta comode in altri contesti è diverso, questa ontologia diventa prescrittiva. Sarà una banalità, ma see una ha una mamma professoressa di matematica alle medie, la matematica potrebbe essere per lei qualcosa di matrilineare. Per chi fa poi il mio mestiere la prospettiva possiede segrete questioni tossiche – è molto pericolosa. In primo luogo perché quando andiamo a vedere le differenze dei cervelli femminili e maschili, le troviamo ma con una consistente fatica, in secondo luogo perché si finisce con il cedere a delle prescrizioni sociali che si appoggino a delle normative culturali, e questo è deontologicamente scorretto. In questo senso, Irigaray e Lacan, Irigaray e il freudismo di prima generazione potevano anche evitare di divorziarsi, sono stati gli intelligenti alfieri di due modi sorpassabili di stare al mondo, assolutamente complementari, ma nella pratica clinica di oggi il lavoro sulla differenza di genere deve essere molto più personalizzato, sofisticato, individualizzato. Ne va del destino delle persone. La clinica ossia ha delle responsabilità che la filosofia forse può ignorare.
Nel mio quadro dunque, per quanto di donna italiana, il femminismo della differenza ha un posto ma sempre più piccolo. Credo in una grande differenza culturale, che è costituita dal corpo, e tendo a pensare il corpo non come prima identità, ma come prima casa, una casa che sta dentro a una città di altre case, e che determinerà grandemente il nostro modo di pensare e fare e saper fare. Ma rimane una casa. Non penso che i due cervelli ossia siano uguali, ma le differenze al momento mi interessano poco, sono trascurabili rispetto al potere della casa; nel caso specifico una casa che sa tenere nella pancia dei bambini, e sa allattarli. Ed è interessante vedere come le diverse identità mentali reagiscono a questa prima casa. Il corpo cioè è cultura. La nostra prima cultura, ma pur sempre cultura. La prima identità è l’identità del pensare, la genetica celebrale, la storia di quel mio decodificare tutte le case con cui ho a che fare, certo la più importante è il corpo, ma non l’unica. E non da sola. Con questo corpo posso creare altre cose, oltre che dei bambini, lo posso tatuare per dire delle cose, posso renderlo codice. Come in una immagine di Orlan o di Cindy Sherman.
Ma soprattutto l’identità che lo abita ha le competenze sufficienti che sono tipiche non già del suo sesso, ma della sua specie, e potrei usare io, come altre, queste competenze per operare scelte decisioni, modi di stare al mondo. La mia casa corpo mi addestra maggiormente a certe cose piuttosto che ad altre, la mia casa corpo in un certo senso mi attrae verso quelle, ma non è detto che il mio benessere, il compimento della mia identità esistenziale, sia percorrere quell’itinerario. Qui le storie soggettive possono diventare molto diverse l’una dall’altra, e volendo, possiamo interpretare la clinica in una prospettiva di genere, seguendo due binari: un primo binario potrebbe essere quello che riguarda l’identità di chi abita la casa, e i suoi rapporti non solo con la casa corpo, ma con molti altri oggetti. Di poi nello specifico ci sono i rapporti con la casa corpo. Rapporti che possono essere molto complessi, e che si rimandano a una differenza reale. Le case dei due generi hanno strutture diverse.
Qui per me però si pone un nuovo problema.
La valorizzazione dei compiti svalutati storicamente e associati al ruolo di genere femminile, non è in realtà riuscita. In alcuni ambiti sociali questi compiti sono stati solo apparentemente scollegati dal femminile, per far ricadere però la questione sotto la scure delle dinamiche di classe, nella maggior parte dei casi, nelle maglie del capitalismo organizzato in un altro ampio campione di comportamenti, e anche nell’estinzione tout court di quei comportamenti. Tradotto in maniera plateale: ciò che hanno sempre fatto le donne non conta per nessuno, non è bello, non è attraente, non è un valore, anche se è il vero garante della specie. Ma in soldoni certe cose: o continuano a farle le donne, o le fanno istituti vicari, o le fanno altre donne più povere, oppure non si fanno affatto. Solo in una fetta della popolazione molto modesta c’è una reale divisione dei compiti, ma nella maggior parte dei casi, la divisione dei compiti riuscita, riesce perché una parte fondante è appaltata a una donna più povera. La donna più povera pulisce, bada a dei bambini piccoli, bada a degli anziani o delle persone disabili. Nel migliore dei casi è contrattualizzata. E anche la donna di servizio contrattualizzata non risolve la scarsa propensione che hanno le donne e gli uomini a per esempio oggi a tirare su dei figli. Anche il tirare su i figli, viene fatto a rilento anche perché nessuno dei due genitori spesso ha voglia di assumersi l’onere che implicava il vecchio ruolo di genere che era devoluto alla madre: i bambini rimangono nei passeggini troppo a lungo perché è molto noioso stare piegati a insegnargli a camminare, e diventano narcisisti e disobbedienti, perché quel ruolo di contenimento superegoico che a torto viene attribuito al padre, no è sempre stato della madre, ma ora nessuno ha più voglia di svolgere quel ruolo ingrato.
Se si è fatto un passo avanti, per me è stato un passo avanti, liberando gli uomini dalle briglie dell’estetica di genere e dell’etica di genere, per cui ora una serie di arti tipicamente femminili e di estetiche che erano solo ed esclusivamente femminili ora arrivano agli uomini (di quanti colori ora sono i loro pantaloni, quanti occhiali bellissimi hanno, diversi l’uno dall’altro) manca ancora un compimento, un passaggio sulla gestione della cura, della relazione, dell’essere con. Questa cosa deve ancora riguardare molto le donne ma non solo, deve riguardare anche gli uomini, e le cose che tutti dobbiamo sapere fare, con le nostre case, e nelle nostre case. (Avrei ancora moltissimo da dire, ma mi fermo qui).