Fuori scuola

 

L’attore famoso misura il suo successo nella necessità di occultarsi il volto, il cappello messo bene sulla testa, il bavero alzato sulle sue espressioni possibili, e anche sugli occhi che, su un binario separato dalle sue prove attoriali, stregano le donne.
Non è molto alto, né vanesio. Quando porta la figlia a scuola le bacia la testa, si scalda le mani, prova a scappare via veloce, mentre una madre, avamposto di una vita che si dichiara mancante, gli chiede un autografo.
Ciao amore, ci vediamo alle quattro, dice in quel momento l’attore famoso alla bambina.

L’attore famoso a quel punto alza il viso si stropiccia le mani, coglie il volto della donna e il pezzo di carta, anche lei ha salutato una bambina, lui firma il foglietto e dice, eh si certo, nell’intimo diviso tra diversi stati d’animo, tutti diversamente crepuscolari.
Il primo pensiero – che palle – manco vede la luce, arriva invece il secondo, che suona: tutto sommato non sono davvero nessuno per dire di no, l’attore famoso ha una sua eticità, dietro ce ne è un terzo che sussurra – madonna come sono invecchiato al prossimo giro l’autografo me lo chiede una nonna, il quarto è il prezzo della fama ossia la voce dell’amico che ha perduto, e l’ultimo è un sottile scollamento.
Prego signora
Grazie davvero grazie! Io la seguo tantissimo.

La signora brilla di una gioia infantile, ma anche di una femminilità subalterna e dolorosa suo malgrado. Accanto a lei altre madri più narcise – e con forse un fondotinta migliore – osservano la scena con imbarazzo, sarò pure regina dell’impiegati ma pur sempre regina, pensa una, io non trovo opportuno fare questa cosa pensa un’altra, poveruomo davvero, e subito rimettendo lo sguardo all’uscita della scuola come a definire un contegno clericale e necessario. Una terza, per deformazione professionale e tipologia psicologica attiva la funzione materna sull’attore famoso – e pensa a questo problema dell’onoreficenza alla maschera – che però è quella sbagliata (pensa a un sorriso, anche l’ultima signora intercetta gli occhi dell’attore famoso, ma nonostante ciò l’ingoia con fermezza).

Di poi la scena si scioglie, l’attore famoso va con passo fermo fuori del cancello, intorno le madri e i padri si industriano a un’urbana indifferenza, un plateale non aver notato l’attore famoso essendo che viene a scuola tutte le mattine eh bravo però eh, bisogna dire, non se la tira affatto, l’attore famoso in cuor suo pensa, che anche questa della mattina è una prova attoriale, sale in macchina – una macchina opaca perché è un attore famoso che fa film seri e quindi ci ha pure la macchina seria, modesta, sotto le righe, impolverata. Mentre la madre scintilla si ricorda di quel suo amico e collega che era andato in terapia, perché diceva, non smetto mai di recitare, non so mai che parti di me piacciono agli altri, so sempre che non sono quelle in cui io mi ritrovo.

nota sciatta su social e politica

Quando si ha a che fare con una forza politica e ideologica che ha già sedimentato una sua dominanza, e che usa questa base consolidata come piattaforma per colonizzare altri spazi mentali, quindi politici e materiali, non ha proprio senso illudersi che non commentandola si eviterà di darle risonanza. E’ una cosa un po’ ingenua su cui dovremmo riflettere – anche considerando le ricadute sul dibattito pubblico che da tempo hanno le reazioni social e anche considerando la configurazione che ha la comunicazione social e che tutti abbiamo ben presente.
Vorrei che tenessimo conto di alcune cose.

  1. Ognuno di noi tende ad avere bolle di simili.
  2.  Ognuno d noi sa che quando una certa reazione è emersa in parallelo nelle bacheche questa somma di reazioni è arrivata alla stampa e in qualche caso ha procurato delle conseguenze (volendo discutibili ma)
  3. Ognuno d noi sa che quelle forze ideologiche e politiche opposte si gonfiano con i nostri stessi meccanismi di uso anche della bolla social assumendo valori percentuali importanti.

 

Quindi. Se non reagiamo a qualcosa che politicamente ci disturba, il fenomeno politico che vogliamo contrastare – andrà serenamente avanti per conto suo, a prescindere dal nostro silenzio. Anzi se c’è una terra di nessuno e di desolazione culturale o economica o di mera incertezza e assenza di identità quella zona sarà mercé non del nostro silenzio ma di quella campagna politica che sta urlando e che beneficia degli urli dal basso – ossia anche dei singoli di quelle bolle social a noi estranee che fanno da cassa di risonanza elogiativa. Di contro, secondo me almeno, se si manifesta un serio scandalo, una preoccupazione per qualcosa che è già molto potente e non si condivide e se lo fanno in tanti singoli dal basso – può succedere non tanto che si contagino immediatamente delle bacheche vulnerabili alla destra che sono – per motivi più psicologici che razionali – immunizzate ai nostri singoli pareri, quanto che arrivi un oggetto terzo – la reazione social – nel dibattito pubblico e quell’oggetto terzo sia un oggetto tridimensionale e politico di cui si dovrà tener conto.

Non credo cioè che si abbia un obbligo a una gestione politica delle bacheche social. Io me ne sottraggo spesso, per motivi professionali, ma trovo sacrosanto anche diciamo un rifiuto estetico dell’argomento politico, oppure rispettabile il fatto che proprio a qualcuno non interessino certi ambiti e temi. Però trovo che da un punto di vista tecnico, logico, l’argomento per cui una certa cosa non va commentata quando la fa uno che potrebbe prendersi almeno il 30 per cento dei voti, sia insostenibile. E talmente platealmente insostenibile, che ci vedo più un attacco velato a comportamenti dominanti e centrali, una specie di allergia alle aggregazioni della rete, ragione di più se intorno a idee che si condividono eticamente, che un lucido calcolo. Più una voglia di essere riconosciuti come non gregari, e capaci di essere distaccati dalle emozioni, che un calcolo razionale.
(Insomma – una contraddizione in termini)

la velina di Schroedinger. Sessismo, capitale e democrazia.

In questi giorni il dibattito pubblico si è infervorato nuovamente – era un po’ che non accadeva – per questioni di sessismo – La rete si è incendiata – per due episodi.
Il primo episodio ha riguardato la campagna pubblicitaria per la lotta all’alcolismo che è uscita in Sicilia ed è durata un giorno. Vi si vedeva una donna disegnata molto graziosa, il cui seno abbondante combaciava con due calici di vino. Per dei motivi arcani si doveva intuire che il vino che combacia con il seno piacevole di una donna, e che è considerato piacevole bere doveva procurare degli effetti sgradevoli, impossibili bisogna dire da evincere dalla campagna pubblicitaria essendo che un bel seno piace agli uomini da toccare, e alle donne da avere. La campagna poi è stata subito ritirata, subissata dalle critiche. Il pressappochismo della committenza era caduto nella trappola del sessismo: nei confusi desiderata del progetto bisognava far capire che bere alcolici allattando fa passare la tossicità dell’alcool al latte per i bambini, ma all’idea del seno, la prospettiva sessista – quella per cui una donna è solo ed esclusivamente oggetto erotico – si era cannibalizzata il progetto pubblicitario. La graziosa ragazza del disegno, non è una consumatrice a rischio che perde la salute, non è una madre di cui si veda un figlio in pericolo, non è un soggetto acquirente di alcolici, è invece una ragazza felicemente disponibile sessualmente. Il che come dire, va nella direzione ostinata e contraria ai presunti intenti della campagna pubblicitaria.

Qualche giorno dopo, Amedeus in conferenza stampa comunica la ratio della scelta delle donne che saranno insieme a lui sul palco di San Remo, e precisa continuamente che le ha scelte perché sono molto belle. Di una di loro dice che invece l’ha scelta, oltre per il fatto che è molto bella, perché sa stare un passo indietro rispetto al suo fidanzato, Valentino Rossi, che è un grande uomo. Non credo che Amedeus si fosse preparato molto alla conferenza stampa, non credo che lo ritenesse importante, e ha detto con semplicità la prima cosa che gli è venuta in mente – e che io ho personalmente decodificato con, io vorrei essere io il fico che sta sul palco, e non voglio rotture di coglioni, per questo mi sono preso sta mandria di femmine che mi decorano, ma delle cui competenze non me ne può fregare di meno e manco a loro . Anche Amedeus è stato subissato di critiche, ha cercato di ritrattare nei limiti ideologici e intellettuali che lo connotano – non abbiamo memoria di dichiarazioni particolarmente intelligenti di Amedeus, men che mai di conduzioni particolarmente brillanti e insomma se era sessista in conferenza stampa e piuttosto rozzo in conduzione, non si capisce come possa fare a smettere il giorno dopo – ma di fatto il problema è lo stesso della campagna pubblicitaria per l’alcolismo: il sessismo cannibalizza la professionalità del prodotto. In questo caso arrivando a affermazioni paradossali: Metto sulla scena donne, che dunque devono sapersi far ammirare da tutti e ma non tenere la scena, donne che apprezzo perché stanno un passo indietro e non si prendono la scena, nonostante debbano andare in scena.
Abbiamo insomma la velina di Schroedinger.

Se il sessismo cioè è quella cosa per cui una donna non deve essere soggetto erotico solo nella sua identità privata e relazionale – cosa necessaria buona e giusta – ma in tutti gli altri campi dello scibile – cioè quando è madre quando beve alcolici quando lavora e quando è soggetto pubblico, il sessismo è quella cosa che mette a repentaglio i campi in cui si applica, perché la dove si deve parlare di prevenzione parla di sesso, dove deve parlare di competenza parla di sesso, dove deve parlare di convenienza parla di sesso.
Se le presentatrici con Amedeus devono cioè solo essere belle e tenere un passo indietro, quindi no techne, no curriculum, no competenze ma chi ci avremo?
A dirvela franca io con questi criteri, ho paura che all’Ariston quest’anno ci siano tutte mezze seghe.

Qualche anno fa Houellebecq aveva fatto un romanzo che aveva suscitato più scalpore per la trama onirica che per la prosa brillante. In Sottomissione, lo stancante regime del capitalismo avanzato e prestazionale,  collassava in un dominio islamico dove in occidente le donne finalmente stavano a casa e basta correre, e basta andare di qua e di la, basta plastiche e seduzione coatte, i maschi si prendevano il pubblico e tutti parevano un molto più depressi falliti, ma riposati. Houellebecq viene spesso descritto come sessista e io trovo che invece sia largamente frainteso –è capace di individuare alcuni vettori psicologici importanti perché l’aspetto prestazionale del capitalismo avanzato esiste e per le donne assume vette parossistiche – il passo indietro infatti con figli lavoro lontano da casa genitori anziani a volte è una chimera seducente. Sottomissione era il sogno di una collettività in difficoltà più che una distopia credibile, perché anzi questo ribaltamento non è in scena affatto e non è probabile che si materializzi. Per quanto noi si abiti un paese profondamente maschilista la partecipazione delle donne alla cittadinanza attiva e alla strutturazione del capitale è una questione assodata, e da cui credo si può moderatamente tornare indietro – se lo si fa, ciò ha dei gravi costi economici e politici. Per il nostro capitalismo infatti, le donne sono un soggetto a cui non si può rinunciare: perché lavorando lo sostengono, perché comprando merce lo sostengono, perché oggi in una coppia una moglie casalinga è un lusso che spesso non ci si può permettere, basta un mutuo o un affitto che nella coppia uno paga la casa e l’altro la pagnotta.

Una mia informazione aggiuntiva. Gli indici Istat dell’occupazione in Italia, attestano l’occupazione femminile intorno al 50 per cento della popolazione globale (dati del 2018). Ho fatto personalmente in passato le ricerche per Istat per questo tipo di indagine e ho avuto la netta impressione che per la sua struttura – Istat si presenta come un organo giuridico alle famiglie, per cui se non rispondono incorrono in una sanzione, non potesse rilevare il lavoro nero. Quello che voglio dire, è che in una economia sessista con una larga evasione fiscale, è probabile che le donne che lavorino in modo non contrattualizzato siano molte e che se quel lavoro nero entrasse negli indici la distribuzione statistica sarebbe diversa)

Ora capitalismo e democrazie avanzate sono macrostrutture che si reggono in piedi grazie a un sottoinsieme di azioni complesse, visioni del mondo articolate, saperi strutturati, prospettive multidisciplinari. Tradotto: noi siamo quello che siamo, abbiamo quello che abbiamo – sanità inps, film, libri, pubblicità di enciclopedie come pubblicità di mutande, stadi piedi e stadi vuoti, e in ultima analisi soldi che girano, stipendi, appalti, come assegni di invalidità grazie a questo enorme baraccone delle azioni complesse e dei saperi strutturati. Questi saperi strutturati hanno anche colonizzato – capitalizzandoli ma anche rendendoli appannaggio di un supporto statale atti, azioni, competenze, e responsabilità che nelle economie preindustriali – e in assetti culturali lontani dalle prospettive occidentali erano appannaggio delle donne. La medicina, la psicologia, l’assistenza agli anziani, l’economia domestica, l’ostetricia, la cura della prole, l’educazione e l’istruzione non sono più faccende della casa, faccende del privato, affidate all’intuito e all’estro delle femmine del branco, ma sono diventate una classe di temi e azioni che sono correlati a dei saperi e sono iscritti in un discorso pubblico e nel pubblico modo di usare il capitale. E’ una cosa che si chiama progresso – perché da questo passaggio dipendono molte libertà nostre, molte maggiori possibilità, e una protezione che arriva da più fonti, e che ci offre molte più garanzie. Questo è successo anche per una maggiore disponibilità di risorse, ma ha a sua volta creato economia e denaro. E’ un salto che ha creato l’industria, e il foraggio che all’industria è stato offerto dal colonialismo, ma che poi ha procurato altri soldi, un meccanismo che si autoalimenta generando un voltaggio diverso dell’economia. Quindi quello che possiamo dire adesso, del nostro mondo, è che donne e uomini sono transitati in un’organizzazione diversa dei ruoli di genere, perché è anche cambiata l’economia in cui sono iscritti, e le possibilità in termini di qualità di vita che essi hanno. L’abbandono della vecchia staticità dei ruoli di genere è funzionale a questo voltaggio diverso. Abbiamo bisogno di tante persone che fanno tante cose, tante persone che sanno tante cose, tante persone che offrono sul mercato tante cose, tante persone che acquistano sul mercato tante cose, e banalmente oggi, solo i maschi a fare tutto ciò non ci bastano più. Non ce lo possiamo permettere manco volendo.

Idealmente – si tratta di una polarizzazione concettuale che serve per capirsi – l’organizzazione maschilista dei ruoli di genere – quella per cui la donna è principalmente solo un oggetto sessuale, e tuttalpiù limitatamente responsabile degli aspetti domestici della vita, è di contro funzionale a contesti economici dove le risorse in ballo sono molto di meno, il voltaggio dell’economia ha circuiti più modesti, le cose da poter fare e da poter avere sono molto poche: c’è la fame, la mortalità infantile, e le risorse ridotte possono essere amministrate dalla metà della popolazione attiva, mentre capitalizzare e disciplinare facendoli diventare monete pubbliche le agenzie del privato è un costo che a bassissime risorse non sempre si riesce a sostenere – è in sostanza una economia diversa da avviare ed è temerario, spesso anche impossibile, inventare capitali da investire.

In questi termini il comportamento sessista è una specie di ponte radio con un passato dell’economia e dello stile di vita che non ci appartiene, e anche un dispositivo che in qualche modo cerca di riportarci ad esso – perché ogni volta in cui si applica comporta una cannibalizzazione del sapere e una perdita economica, in qualche modo erode il funzionamento della macchina, perché produce uno scarto un disavanzo che dissipa qualcosa, che a volte è immediatamente visibile altre meno.La regione Sicilia fa una campagna di prevenzione per la quale stanzia del denaro, se non altro per la sua diffusione, ma deve ritirarla per quanto è inadeguata – denaro perso. Anche se non l’avesse ritirata sarebbe stata ugualmente inadeguata, quindi inefficace, quindi denaro perso. Ritirata o non ritirata il sessismo ha cannibalizzato per un verso competenze (non c’è traccia di saperi di comunicazione sociale, psicologia del lavoro, marketing, si è scoperto che l’immagine della donna era anche stata trafugata) ma si cannibalizza anche l’utenza, alla quale il messaggio così congegnato non arriva (la pubblicità contro l’alcolismo è stata fraintesa da molte e molti come una pubblicità in favore del vino).

La questione di fondo, è che il sessismo costa – non è al passo con il capitalismo avanzato, il quale per macinare introiti, e benthamianamente far girare soldi per più persone possibili, deve avere come soggetti e come destinatari tutti i suoi commilitoni, senza target troppo ristretti. mentre il sessismo è quella cosa che per esempio spesso e volentieri toglie le donne dall’essere target e le fa diventare complemento di argomento per cui alla fine, banalmente, il target si restringe. Ad esempio se uno che vuole vendere caldaie, ne fotografa una e ci mette una signorina col culo sopra e con sotto scritto senti quanto è calda, si rivolge all’uomo che potrebbe comprarsi la caldaia perchè nella sua sfera onirica ci include la signorina nel pacchetto, ma dimentica il fatto che i cordoni della borsa in tema di caldaie ce l’hanno anche le signore di cinquant’anni con tre figli, che potrebbero sentirsi urtate tanto quanto i signori che sperano di portarsi a letto la caldaia con la signorina sopra – una campagna diversa avrebbe allargato il target della comunicazione pubblicitaria. Il sessismo è quella cosa per cui, se tu assumi una solo perché è simile alla signorina della caldaia, tu avrai un’incompetente che pagherai tu, per il lavoro che non fa. Ma è anche quella cosa per cui, siccome per te una donna è interessante solo perché somiglia alla signorina della caldaia, quando ce l’hai in ufficio non le fai fare le cose, la metti alla macchinetta del caffè, le cose le fai fare a un altro, tu ci hai un problema di risorse economiche perché hai del lavoro produttivo che stai sprecando. Se pure prendiamo sul serio gli indici istat sull’occupazione femminile, che per forza eludono il lavoro nero, dobbiamo comunque tenere conto del fatto che il 50 per cento delle donne italiane lavora, e quindi, il fatto che come soggetto democratico e come oggetto di democrazia, come soggetto economico o come acquirente, queste donne sono qualcosa di altro rispetto alle zinne con il vino rosso, e ogni volta che trascuri tutte le competenze che si interfacciano a loro come soggetti diversi dal paio di tette col vino dentro, tutte quelle che le prendono sul serio, tu hai una perdita economica.

Ora non è che la relazione di proporzionalità diretta tra avanzamento di una economia e lo stato in cui versa la sua popolazione femminile sia un concetto nuovo. Ma a me pare che in Italia si crei una discrasia, perché grazie alla notevole quantità di risorse di cui dispone per il momento è ancora annoverabile nel gotha delle economie avanzate e delle democrazie del primo mondo, ma tratta le sue donne sempre peggio, con modalità vicine a Stati del terzo, e lo fa oggi più di ieri, oggi molto di più che vent’anni fa, il che s è la prova di una caduta rovinosa, di una retrocessione sociale e finanziaria, che si fa incalzante. E’ come se a ogni Amedeus, a ogni pubblicità sessista, a ogni comunicazione sessista a ogni organizzazione sessista, noi assistessimo a questa cosa paradossale della velina di Schredinger per cui alle donne si chiede di stare dentro al capitale alla maniera dell’oggi e delle società moderne, ma si faccia in modo materialmente che stiano un passo dietro ricordando la società degli antichi.
Non arriveremo agli antichi. Arriveremo invece a una arrancante, modesta, asimmetrica mediocrità. La scivolata fuori del primo mondo.

ma veramente io

Il paziente guarito non può più scrivere le lettere d’amore che confezionava un tempo, anche se ne conserva la tentazione, perché è pur sempre una delle cose più belle che si possano ricamare, una lettera d’amore ben scritta, s’approfitta di una certa confusione.
Per chi è quella cura delle parole, per chi la riceve o per chi la scrive? Quale amore conta di più alla resa dei conti, quello celebrato nelle righe, lo strazio disaminato, o l’esito di ammirazione a lettura ultimata? La commozione da precisione metaforica? E se colasse del compiacimento al terzo capoverso? E se nell’industria della precisione, il destinatario si rivelasse più lo scrivente che il ricevente? E’ lecito, si chiede, far capire all’altro che lo si usa anche per capire un po’ qualcosa? Penserà che mi amo troppo?
Ma se l’analista m’ha detto che è na finta, che mi amo troppo poco. 

Il paziente che si scopre innamorato, si mette allora li a lavorare sul suo strazio, e studia il cosa dire, e il cosa fare, cancellando le ridondanze, asciugando le teatralità, gli hanno spiegato che quello che conta alla fine è la genuinità del sentimento, pare che quello basti, che alle persone degli aggettivi non importi proprio niente, madonna che palle, ma che davero, ma che gliene dovrà fregare dell’amore mio così spoglio? Che dovrei fare io, secondo costoro, scrivere una frase sola, soggetto verbo complemento oggetto, a esagerare un avverbio, moltissimo, per dire, una parafrasi modesta, senza di te sono morto, e quella la che lo legge, pensa il paziente guarito, ma forse a metà, ma vedrai che muore invece lei, ma di noia, senza orpelli, senza specchietti, senza neanche un mazzo di fiori.
Come fanno a sentirsi amati questi che ricevono biglietti da un rigo solo.
Tutto quel silenzio intorno.

S’atterra mesto. Guarito ma solo un po’. Ha lasciato tutti gli scudi e tutte le spade. Non è più plateale, non è più brillante, non è più niente di niente. C’è stato un momento in cui ha creduto che quel che rimaneva potesse essere meritevole di una qualche attenzione, ma boh rimane quel senso di truffa di un tempo, quel sapore di impostura, anzi è caduto in una impostura svelata, mentre l’oggetto del suo amore, gli pare di una perfezione languida e inaccessibile, e se anche sa, perché lo sa, che c’è una porta aperta che lo aspetta, una porta dolcissima e paziente, non riesce a raggiungerla.

E’ guarito troppo poco, si gira, sospira, accende una sigaretta. Rimanda.

 

(qui)

Sulla moda per le donne

Se c’è un’area che in occidente per le donne, e in questo momento storico più che in altri, rappresenta un incrocio di espressione di se interessante, di codifiche della personalità e dei modi di essere, ma anche di gravi contraddizioni e di questioni sia negative che positive, è l’area dell’estetica, del vestirsi, delle scarpe che si portano. E’ un tema secondo me, particolarmente incisivo in Italia, perché l’Italia è stata una regione dove un certo artigianato della moda ha portato a risultati così importanti, così apprezzati sul mercato estero per cui credo, che una certa affezione al concetto di eleganza, anche se poi si traduce in mille rivoli, è qualcosa che ha a che fare con il carattere nazionale, qualcosa che ha a che vedere anche con una percezione dell’identità. Anzi, la cura nel vestire dell’italiano, era oggetto di umorismo per non dire sarcasmo nell’America della prima metà del novecento, dove veniva indicata spesso come una caratteristica tipica dell’Italia – e irrisa come segno di vacuità e vanità. In altri termini invece era una peculiarità considerata tipica del Vecchio Mondo, come sintomo della sua passione per la dimostrazione del potere e delle gerarchie di classe, che la cultura nordamericana ha spesso desiderato occultare.

I vestiti e le scarpe delle donne, dove naturalmente si usano e si possono usare, sono a tutte le latitudini comunque, il foglio bianco dove si esprime una visione del mondo, una collocazione di se, un ruolo di classe, un’ambizione politica, sociale, emotiva. Gli uomini si sono spesso vestiti con codici molto più semplificati, dal momento che nel sistema sesso genere, liberati dalla livella che metteva le donne a casa a guardare alla prole hanno spesso potuto fare cose, che definissero al posto loro le logiche di status e di rappresentazione di se. L’uomo è sempre stato prima di tutto  quello che fa, e quello fa, è diverso da un uomo a un altro. Il suo abitare il mondo è sempre stato definito dal suo habitus professionale. La donna invece è sempre stata livellata nella democraticissima gestione del privato, che da un certo punto di vista potrebbe  pure essere sempre uguale per tutte: il focolare, i bambini, la cena. Poi basta. Di scrivere non se ne parla. Di lavorare no. Di votare manco. L’unico terreno su cui poter dire le cose era la stoffa degli abiti e la foggia delle scarpe. Dichiarare un’appartenenza, un umore, un potere. Ma anche un modo di interpretare il proprio modo di essere donna  – perciò uno  dei pochi linguaggi accessibili anche per dire delle cose ad altre donne, anche per stabilire delle gerarchie tra femmine di branco era rappresentato proprio dall’abbigliarsi. . L’abito è stato il primo atto politico possibile delle donne.
Questo linguaggio , con la rivoluzione industriale, l’energia economica garantita dal colonialismo, per un verso, ma anche il sessantotto per un altro, e la liberazione sessuale, fino al lavoro e alla compartecipazione nella sfera pubblica – votare, lavorare, scrivere, esserci è andata pontenziandosi anziché riducendosi, e oggi raggiunge in occidente livelli altissimi, perché in questo momento storico della moda, si è aperta una stagione di citazionismi che vengono utilizzati come tanti armadi possibili di tante modalità di essere diverse. Fino a qualche anno fa – forse un decennio? Forse fino a tutta la fine del novecento? Non saprei dire – c’erano delle mode dominanti che interpretavano l’idea dominante del femminile secondo un certo momento storico con poche aree alternative o eccentriche. Il vitino di vespa della gentile signorina che negli anni 50 metteva la gonna a ruota, oppure i pantaloni a zampa di elefante della ragazza scanzonata degli anni settanta, fino alle giacche con le grandi spalline degli anni 80’ dove si cominciava a proporre un femminile competitivo e nerboruto che si radicava nel mondo del lavoro. Tanti vestiti per tanti ruoli sociali percorribili. Oggi, in realtà si possono pescare tutte queste cose simultaneamente, perché le donne si vanno diversificando, e trovi tutto: i vestitini con la ruota, i tailleur anni 40, la scarpa stondata degli anni trenta, una vastissima congerie di visioni del mondo, ruoli sociali, modi di vivere l’identità e la relazione, e che combinino insieme modo di percepirsi, cose da dire agli altri, cose da dire di se. Si cita spessissimo perchè ci sono mode, icone, simboli che si portano appresso qualcosa di nostro. Ognuna ha il suo piccolo pantheon di riferimento.

E certamente incidono nell’uso di questo linguaggio, le cose da dire agli uomini.
L’idea dell’estetica delle donne come un effetto del patriarcato, è stata un dirompente, e per un certo momento storico indubbiamente salutare, portato del femminismo. Ma anche della critica della moda e del costume. Molti vestiti in molte culture hanno costretto le donne a grandi sacrifici, i bustini strettissimi per esempio, le pesantissime crinoline, in generale le lunghe gonne che impedivano i movimenti, certe scarpette deliziose con cui riuscire a muovere pochi passi, vestiti che plasmavano il corpo delle donne, per portarlo all’ideale estetico di un momento culturale –cosa tra le cose nelle mani del maschile. Le donne come mezzo del piacere dell’uomo. Secondo quello sguardo critico, tutto l’essere delle donne quando si vestiva, si identificava con l’essere il mezzo di piacere, e si sforzava di saturare l’ideale erotico di una parte maschile. Il vestirsi in modo eroticamente provocante, il mettere delle scarpe con un gran tacco, erano modi per farsi parlare dagli uomini, a discapito della propria comodità e individualità.
Questa critica, andava pronunciata e messa sul tavolo, e per un certo verso penso che abbia fatto del bene. Va a cadere però in una zona complessa, in un intreccio complicato e fascinoso, dove l’uso dell’abito come semantica do potere, di identità, e di personalità, è parte del gioco benché importante, ma dove c’è anche un complicato groviglio di vettori per cui: ci sono donne a cui piace piacere agli uomini, donne a cui piace piacersi, donne che identificano le due cose insieme, donne che si sentono soggetto nel sedurre. Questo modo di stare nel mondo delle relazioni non riguarda tutte le donne, ci sono quelle che non vogliono piacere affatto, poi ci sono quelle che per esempio vogliono piacere ad altre donne, e insomma quando c’è democrazia c’è anche democrazia esistenziale, ma di fatto cal centro di tutto abbiamo la zona incandescente dell’erotismo, e del desiderio desiderio dello stare in relazione, e di essere apprezzate, e persino eroticamente apprezzate,  da quei maschi che di quel desiderio e del proprio hanno fatto un atto di subordinazione politica.  Qui sta la questione – siccome c’è stato e latenetemente rimane, una gerarchizzazione del potere sociale, che è passata dal vincolo della relazione sessuale, che bisogna fare qualora piaccia comunque la relazione sessuale?

Non credo che la soluzione percorribile sia la negazione del piacere seduttivo, così radicato in tante persone, e così sano, vitale, libertario, men che mai nella negazione di un linguaggio parlato da tante, le scarpe alte basse strette o larghe, le gonne corte o lunghe. Penso che invece giovi il diritto politico alla soggettività sessuale nella democrazia, e il diritto a essere come si vuole come identità scorporabile dal ruolo pubblico. Questo è il privilegio che molte – purtroppo non tutte forse manco la metà di noi, ma insomma molte hanno rispetto alle nostre madri. Possiamo parlare ancora un linguaggio che è anche relazionale e privato, il femminile vanesio che è un po’ come la margherita che chiama l’ape, senza che questo intacchi i nuovi linguaggi conquistati e che definiscono altri aspetti dell’identità. La margherita deve poter andare a lavorare, e parlare di lavoro, a prescindere dal suo essere margherita. Fuori dal suo contesto professionale, e in virtù del suo consenso, qualcuno potrà anche invitarla a cena proprio per quei petali e per come li ha scelti, per le cose che dicono di lei come margherita.