In questi mesi di pandemia, tutti abbiamo capito che saremmo andati incontro a una serie di modificazioni importanti del nostro stile di vita, e del nostro comportamento, ma esattamente che cosa sarebbe cambiato, non lo sapevamo ancora e ancora non lo sappiamo adesso. Navighiamo nell’incertezza – perché non possiamo prevedere con precisione, cosa farà il Covid: l’estate lo fermerà? Questo inverno tornerà? Né abbiamo una idea definitiva e univoca per tutti della risposta medica al virus. L’unica cosa che sappiamo con certezza, dalle alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno, è che la migliore forma di protezione è il distanziamento sociale – e questa consapevolezza, sta producendo come risultato che molte, moltissime aziende, abbiano attivato forme di smart working, telelavoro, alcune come decisione provvisoria e d’emergenza, altre, soddisfatte dal risultato come decisione che si protrae oltre i confini dell’epidemia -con una proposta che per diversi dipendenti sta diventando duratura
Per moltissimi, datori di lavoro e lavoratori, il telelavoro presenta consistenti vantaggi materiali. Il lavoratore risparmia in primo luogo il tempo del viaggio per arrivare in ufficio che può essere anche molto lungo, e potendo fare per esempio una pausa pranzo a casa, percepirà una minore stanchezza. Lavorare a casa, solo tenendo conto di questo comporta: risparmio di tempo, di denaro, di energia. Per le lavoratrici madri – specie di bimbi molto piccoli – la rivoluzione è copernicana. Al di la delle circostanze attuali – i bambini piccoli spesso sono a casa, vuoi perché si ammalano con frequenza vuoi perché spesso non c’è la maestra, c’è lo sciopero delle bidelle, c’è il ponte deciso dalla scuola – e trovare una soluzione di cura per loro è complicato. Hai voglia a dire, che dovrebbero pensarci i padri, che è una sacrosanta verità, ma un maxi sistema culturale cambia con tempi molto lenti, e dunque il problema rimane. Anche considerando che pure i padri, comunque avrebbero il problema del lavoro. Dunque lo smart working è di fatto un aiuto alle famiglie.
In aggiunta, quando l’organizzazione aziendale lo consente, le persone sentono di avere un pacchetto di cose da fare, che possono fare negli orari che più si adattano al loro stile di vita e al loro funzionamento mentale. Possono occuparsi di genitori malati se c’è una certa visita a metà giornata, possono lavorare la sera se è la fascia oraria in cui sono più produttivi.
Per conto suo l’azienda annovera per se alcuni consistenti vantaggi, il primo dei quali riguarda un importante risparmio economico: un dipendente a casa non vuole riscaldamento, non vuole luce accesa, non utilizza carta e mezzi informatici dell’azienda, non va al bagno, non mangia, produrrà sporco, insomma non consumerà. Inoltre – la posizione di potere del datore di lavoro sarà indubbiamente potenziata. Nello smart working, l’azienda fa qualcosa per il dipendente lasciandolo a casa e iscrivendolo in una posizione di gratitudine, e inoltre fa qualcosa a qualcuno che diviene più manipolabile e dominabile.
Questa nuova circostanza però implica un cambiamento di assetto relazionale che ha diverse caratteristiche nuove.
Il primo punto nodale è nella perdita di contatti obbligati di persona con i colleghi di lavoro. Le persone a casa non vanno in ufficio non condividono stanze. Stanno dunque nel loro campo relazionale extralavorativo. Questo rende felici alcuni mentre mette in difficoltà altri, perché la valutazione degli scambi con i colleghi cambia a seconda delle personalità e delle valutazioni. Un ufficio può avere un’atmosfera molto piacevole, possono esserci colleghi con cui si ha un intimità gradevole, o una qualche forma di complicità. Dunque per qualcuno rinunciarvi potrebbe essere triste. Altri, che fuori dal lavoro hanno relazioni modeste, conducono una vita solitaria o noiosa e frustrante potrebbero sentirsi gravemente deprivati. Un conto per esempio è lavorare da casa con un bimbo piccolo, che è ancora immerso in una grande dipendenza e in un amore sterminato per il genitore, un conto è lavorare da casa con un figlio diciassettenne, che può essere faticosamente riottoso, e gentilmente autarchico. Un conto è lavorare da casa con un partner in una relazione funzionante, un conto con un matrimonio in crisi dove si litiga tutto il tempo. E ancora un conto è stare a casa da guardinghi introversi e diffidenti, per cui si è ben contenti di non dover ingaggiare delle complicate relazioni, un conto da estroversi e narcisisti per cui, rimanere a casa senza pubblico a cui raccontare delle barzellette può essere faticoso. Lo smart working si adatta a certe vite e a certi caratteri, mentre mette in difficoltà altre vite e altri caratteri.
Girando le cose in un altro modo, possiamo anche dire: lo smart working aiuta a migliorare certe situazioni psicologiche problematiche – le personalità ipomaniacali che fanno troppe cose e conducono una vita stressante possono imparare a decomprimere il tempo e a essere più calmi – ma può anche dare un senso di benessere maligno perché collude con delle parti nevrotiche – persone che tendono al ritiro sociale, e che esitano a ingaggiare relazioni, si ritireranno ancora di più ed eviteranno ancora di più di mettersi in gioco.
Il secondo aspetto per cui lo smart working genera cambiamento, riguarda la quasi totale scomparsa dell’incontro casuale sostituito quasi sempre, dall’azione intenzionale. Non ci si vede più casualmente in un corridoio, andando in altre stanze, non si chiederà più come stai, solo per il fatto che in quel momento viene in mente, ma per le relazioni occorreranno sempre gesti intenzionali. Telefonare. Mandare una mail, videochiamare, per quanto possano esserci situazioni virtuali collettive – un gruppo watzapp una riunione su bsmrt o zoom, la levità della casualità è preclusa. E questo ha moltissime conseguenze, in primo luogo psicologiche: le persone sicure di se, estroverse reggeranno con facilità il costante essere soggetto e oggetto di atti relazionali – decideranno con agio di telefonare, di invitare e reggeranno con altrettanto agio inviti, ordini, sollecitazioni. Psicologie più introverse, che tendono a sovrainvestire l’atto comunicativo, che già nella spontaneità provavano più di una segreta difficoltà, potranno sentirsi a disagio nel dover fare queste cose, e si potrebbero sentire in grande difficoltà nel reagire a degli ordini imposti.
Queste grandi differenze per me, producono una serie di effetti, psicologici per un verso, ma politici in senso lato, per un altro. Se i pregi dello smart working saltano agli occhi, i difetti soprattutto per i lavoratori, mi sembrano meno facilmente intercettati. Indubbiamente, in una società fortemente competitiva, una forma di lavoro che riduca il tempo da dedicare al lavoro, sottraendo quello degli spostamenti mi sembra sempre un grande passo avanti, e siccome noi psicologi troviamo che uno dei grandi motori della psicopatologia dalla rivoluzione industriale in poi è la scarsità del tempo dedicato al privato, è difficile che almeno io non consideri questo come un vantaggio oggettivo. Tuttavia, di contro, ci vedo un inaridimento delle relazioni, una confisca nel privato, che inchioda il soggetto alla sedia della sua casa, e solo della sua casa, e che implica un rischio e un impoverimento – perché il posto di lavoro è un posto di occasioni, di risorse, di confronti, e anche di occasioni per andare proprio dove il carattere non ci porterebbe, è una piattaforma di cambiamento con cui il privato raramente può competere. Se siamo aggressivi dobbiamo imparare a non esserlo, se siamo troppo introversi ci dobbiamo sforzare di fare qualcosa che non faremmo. Lavorare sempre a casa ci abbandona alle nostre nevrosi. Per questo io penso che lo smart working sia una cosa buona al 100 per cento per certe situazioni di vita (figli piccoli per esempio ma forse anche per quelle persone che vivono a grandissima distanza dalla sede dell’azienda) ma in generale trovo che l’ideale sia una forma mista: per esempio tre giorni di smartworking e due giorni di lavoro in presenza.
In secondo luogo i penso che le conseguenze per i diritti dei lavoratori siano ancora più gravi. Dalle impressioni che ho raccolto in questi due mesi, ho capito che infatti: l’impoverimento del campo relazionale, e la perdita di occasioni spontanee di relazione, lascino il lavoratore più solo e più manipolabile dall’azienda. Soltanto i forti di spirito riescono a contenere richieste di prestazione illimitate, telefonate fuori orario di lavoro, ingaggi straordinari e la tendenza non di rado è quella di abusare del tempo dell’altro e della sua esitazione. In secondo luogo, l’intenzionalità formale – che passa spesso per forme scritte, che possono essere in certi ambiti pure problematiche – disincentiva gli accordi tra lavoratori, li rende non impossibili, ma sempre molto seri, sempre molto importanti, sempre ipso facto carichi di conseguenze. Quel brusio di fondo, i mormorii di insoddisfazione, che preludono a un’azione di sciopero dovranno essere sempre tradotti in azioni concrete e delimitate, e quindi non è che non si fa niente, ma tutto è un po’ disincentivato. Anche l’azione estetica, creativa dal basso, progettuale, ha una marcia in meno. Tutti si è insomma più soli sotto a quelli che hanno il potere in una forma di lavoro che ha delle vaste aree di cui ancora temo che il sindacato non si sia spesso occupato.
Quindi, un altro buon motivo, per non cedere alla sirena dello smart working full time, è l’esattezza di quel vecchio adagio che riguarda il potere: Dividi ed Impera.
Se c il lavoratore è più solo, in primo luogo è più solo davanti alla gerarchia.