Note disordinate sullo smart working

In questi mesi di pandemia, tutti abbiamo capito che saremmo andati incontro a una serie di modificazioni importanti del nostro stile di vita, e del nostro comportamento, ma esattamente che cosa sarebbe cambiato, non lo sapevamo ancora e ancora non lo sappiamo adesso. Navighiamo nell’incertezza – perché non possiamo prevedere con precisione, cosa farà il Covid: l’estate lo fermerà? Questo inverno tornerà? Né abbiamo una idea definitiva e univoca per tutti della risposta medica al virus. L’unica cosa che sappiamo con certezza, dalle alpi alle piramidi, dal Manzanarre al Reno, è che la migliore forma di protezione è il distanziamento sociale – e questa consapevolezza, sta producendo come risultato che molte, moltissime aziende, abbiano attivato forme di smart working, telelavoro, alcune come decisione provvisoria e d’emergenza, altre, soddisfatte dal risultato come decisione che si protrae oltre i confini dell’epidemia -con una proposta che per diversi dipendenti sta diventando duratura

Per moltissimi, datori di lavoro e lavoratori, il telelavoro presenta consistenti vantaggi materiali. Il lavoratore risparmia in primo luogo il tempo del viaggio per arrivare in ufficio che può essere anche molto lungo, e potendo fare per esempio una pausa pranzo a casa,  percepirà una minore stanchezza. Lavorare a casa, solo tenendo conto di questo comporta: risparmio di tempo, di denaro, di energia. Per le lavoratrici madri – specie di bimbi molto piccoli – la rivoluzione è copernicana. Al di la delle circostanze attuali – i bambini piccoli spesso sono a casa, vuoi perché si ammalano con frequenza vuoi perché spesso non c’è la maestra, c’è lo sciopero delle bidelle, c’è il ponte deciso dalla scuola – e trovare una soluzione di cura per loro è complicato. Hai voglia a dire, che dovrebbero pensarci i padri, che è una sacrosanta verità, ma un maxi sistema culturale cambia con tempi molto lenti, e dunque il problema rimane. Anche considerando che pure i padri, comunque avrebbero il problema del lavoro. Dunque lo smart working è di fatto un aiuto alle famiglie.
In aggiunta, quando l’organizzazione aziendale lo consente, le persone sentono di avere un pacchetto di cose da fare, che possono fare negli orari che più si adattano al loro stile di vita e al loro funzionamento mentale. Possono occuparsi di genitori malati se c’è una certa visita a metà giornata, possono lavorare la sera se è la fascia oraria in cui sono più produttivi.

Per conto suo l’azienda annovera per se alcuni consistenti vantaggi, il primo dei quali riguarda un importante risparmio economico: un dipendente a casa non vuole riscaldamento, non vuole luce accesa, non utilizza carta e mezzi informatici dell’azienda, non va al bagno, non mangia, produrrà sporco, insomma non consumerà. Inoltre – la posizione di potere del datore di lavoro sarà indubbiamente potenziata. Nello smart working, l’azienda fa qualcosa per il dipendente lasciandolo a casa e iscrivendolo in una posizione di gratitudine, e inoltre fa qualcosa a qualcuno che diviene più manipolabile e dominabile.
Questa nuova circostanza però implica un cambiamento di assetto relazionale che ha diverse caratteristiche nuove.

Il primo punto nodale è nella perdita di contatti obbligati di persona con i colleghi di lavoro. Le persone a casa non vanno in ufficio non condividono stanze. Stanno dunque nel loro campo relazionale extralavorativo. Questo rende felici alcuni mentre mette in difficoltà altri, perché la valutazione degli scambi con i colleghi cambia a seconda delle personalità e delle valutazioni. Un ufficio può avere un’atmosfera molto piacevole, possono esserci colleghi con cui si ha un intimità gradevole, o una qualche forma di complicità.   Dunque per qualcuno rinunciarvi potrebbe essere triste. Altri, che fuori dal lavoro hanno relazioni modeste, conducono una vita solitaria o noiosa e frustrante potrebbero sentirsi gravemente deprivati. Un conto per esempio è lavorare da casa con un bimbo piccolo, che è ancora immerso in una grande dipendenza e in un amore sterminato per il genitore, un conto è lavorare da casa con un figlio diciassettenne, che può essere faticosamente riottoso, e gentilmente autarchico. Un conto è lavorare da casa con un partner in una relazione funzionante, un conto con un matrimonio in crisi dove si litiga tutto il tempo. E ancora un conto è stare a casa da guardinghi introversi e diffidenti, per cui si è ben contenti di non dover ingaggiare delle complicate relazioni, un conto da estroversi e narcisisti per cui, rimanere a casa senza pubblico a cui raccontare delle barzellette può essere faticoso. Lo smart working si adatta a certe vite e a certi caratteri, mentre  mette in difficoltà altre vite e altri caratteri.
Girando le cose in un altro modo, possiamo anche dire: lo smart working aiuta a migliorare certe situazioni psicologiche problematiche – le personalità ipomaniacali che fanno troppe cose e conducono una vita stressante possono imparare a decomprimere il tempo e a essere più calmi – ma può anche dare un senso di benessere maligno perché collude con delle parti nevrotiche – persone che tendono al ritiro sociale, e che esitano a ingaggiare relazioni, si ritireranno ancora di più ed eviteranno ancora di più di mettersi in gioco.

Il secondo aspetto per cui lo smart working genera cambiamento, riguarda la quasi totale scomparsa dell’incontro casuale sostituito quasi sempre, dall’azione intenzionale. Non ci si vede più casualmente in un corridoio, andando in altre stanze, non si chiederà più come stai, solo per il fatto che in quel momento viene in mente, ma per le relazioni occorreranno sempre gesti intenzionali. Telefonare. Mandare una mail, videochiamare, per quanto possano esserci situazioni virtuali collettive – un gruppo watzapp una riunione su bsmrt o zoom, la levità della casualità è preclusa. E questo ha moltissime conseguenze, in primo luogo psicologiche: le persone sicure di se, estroverse reggeranno con facilità il costante essere soggetto e oggetto di atti relazionali – decideranno con agio di telefonare, di invitare e reggeranno con altrettanto agio inviti, ordini, sollecitazioni. Psicologie più introverse, che tendono a sovrainvestire l’atto comunicativo, che già nella spontaneità provavano più di una segreta difficoltà, potranno sentirsi a disagio nel dover fare queste cose, e si potrebbero sentire in grande difficoltà nel reagire a degli ordini imposti.

Queste grandi differenze per me, producono una serie di effetti, psicologici per un verso, ma  politici in senso lato, per un altro. Se i pregi dello smart working saltano agli occhi, i difetti soprattutto per i lavoratori, mi sembrano meno facilmente intercettati. Indubbiamente, in una società fortemente competitiva, una forma di lavoro che riduca il tempo da dedicare al lavoro, sottraendo quello degli spostamenti mi sembra sempre un grande passo avanti, e siccome noi psicologi troviamo che uno dei grandi motori della psicopatologia dalla rivoluzione industriale in poi è la scarsità del tempo dedicato al privato, è difficile che almeno io non consideri questo come un vantaggio oggettivo. Tuttavia, di contro, ci vedo un inaridimento delle relazioni, una confisca nel privato, che inchioda il soggetto alla sedia della sua casa, e solo della sua casa, e che implica un rischio e un impoverimento – perché il posto di lavoro è un posto di occasioni, di risorse, di confronti, e anche di occasioni per andare proprio dove il carattere non ci porterebbe, è una piattaforma di cambiamento con cui il privato raramente può competere. Se siamo aggressivi dobbiamo imparare a non esserlo, se siamo troppo introversi ci dobbiamo sforzare di fare qualcosa che non faremmo. Lavorare sempre a casa ci abbandona alle nostre nevrosi. Per questo io penso che lo smart working sia una cosa buona al 100 per cento per certe situazioni di vita (figli piccoli per esempio ma forse anche per quelle persone che vivono a grandissima distanza dalla sede dell’azienda) ma in generale trovo che l’ideale sia una forma mista: per esempio tre giorni di smartworking e due giorni di lavoro in presenza.

In secondo luogo i penso che le conseguenze per i diritti dei lavoratori siano ancora più gravi. Dalle impressioni che ho raccolto in questi due mesi, ho capito che infatti: l’impoverimento del campo relazionale, e la perdita di occasioni spontanee di relazione, lascino il lavoratore più solo e più manipolabile dall’azienda. Soltanto i forti di spirito  riescono a contenere richieste di prestazione illimitate, telefonate fuori orario di lavoro, ingaggi straordinari e la tendenza non di rado è quella di abusare del tempo dell’altro e della sua esitazione. In secondo luogo, l’intenzionalità formale   – che passa spesso per forme scritte, che possono essere in certi ambiti pure problematiche – disincentiva gli accordi tra lavoratori, li rende non impossibili, ma sempre molto seri, sempre molto importanti, sempre ipso facto carichi di conseguenze. Quel brusio di fondo, i mormorii di insoddisfazione, che preludono a un’azione di sciopero dovranno essere sempre tradotti in azioni concrete e delimitate, e quindi non è che non si fa niente, ma tutto è un po’ disincentivato. Anche l’azione estetica, creativa dal basso, progettuale, ha una marcia in meno. Tutti si è insomma più soli sotto a quelli che hanno il potere in una forma di lavoro che ha delle vaste aree di cui ancora  temo che il sindacato non si sia spesso occupato.
Quindi, un altro buon motivo, per non cedere alla sirena dello smart working full time, è l’esattezza di quel vecchio adagio che riguarda il potere: Dividi ed Impera.
Se c il lavoratore è più solo, in primo luogo è più solo davanti alla gerarchia.

Dentro al ring

C’è questa cosa su cui mi trovo a riflettere a diverse altezze, le altezza del privato nel mio lavoro, e quelle del pubblico nella riflessione politica, e riguarda l’intreccio tra affetto e potere, altruismo e assunzione di responsabilità, per cui alla fine voler bene al prossimo spesso sconfina in un abuso, occuparsi del prossimo in una tendenza a cercarlo di capire, in una comprensione dai sapori materni. Se pensiamo a un ring immaginario, abbiamo allora un lato corto che è costituito da ben volere e usurpazione, e all’opposto l’ altro lato corto i cui angoli sono il rispetto per la libertà dell’altro, e il disimpegno ossia – una certa pacifica tolleranza che sfuma in un non vedere l’altro, un dare per scontato le sue organizzazioni mentali, i suoi desideri le sue difficoltà, come simili ai propri quando potrebbero essere molto diversi. In altri termini potremmo dire, per fare un po’ di folclore, che in questo ring c’è un lato dei comunisti invasori, e all’ opposto quello dei liberali emotivamente mediocri.

Dunque si può dire che un obbittivo della vita, sia quello di riuscire a muoversi nel mezzo di ring, a cercare il meglio dei due lati corti giocando su quelli lunghi. Ma questo intermezzo magico si abita bene nel profluvio di risorse materiali ed emotive, senza che ci siano grandi cataclismi e minacce e senza grandi mancanze pregresse. Non è un caso che le democrazie fioriscano nella cintura geografica dei climi più favorevoli e delle ricchezze territoriali più generose, perché per fare quella spola, quella tessitura tra bene pubblico e rispetto delle soggettività occorrono molte risorse. Questa cosa delle risorse io la vedo bene anche guardando le famiglie che sono intorno ai pazienti. Le risorse in psicologia sono altre cose, sono soluzioni creative, capacità visionarie, patrimoni del sapere e del saper stare in relazione. Sono il saper fare delle favole diverse rispetto a quelle che verrebbero tramandate dalle colpe dei padri, e anche bizzarre scelte relazionali che aprono il campo, mettono cose nuove. Le famiglie che riescono a costellare intorno a se ponti affettivi, con altri soggetti che sanno allestire diverse metafore non saranno quelle prive di patologie, che non esistono, ma saranno quelle in cui le patologie saranno trattenute in una rete, sopra la soglia di un abisso. Famiglie cioè allegramente nevrotiche.

Scrivo queste cose, perché penso che l’emergenza Covid, e la sua immanenza nel tessuto sociale, è una situazione emergenziale che ci sta mettendo alla prova, nel nostro ring politico in mezzo a cui tra mille difficoltà ce la siamo sempre giostrata in maniera nevrotica ma comunque ben più sopportabile di quel che possono vivere i cittadini di luoghi come l’Iran, la Siria, o il Congo. E anzi la nostra situazione di relativo privilegio -siamo il paese più sgangherato tra quelli seduti sul cocuzzolo del mondo – ci ha impedito di vedere i bordi del ring. Per questo succede ora per esempio che l’intelligente epidemiologo Vespignani nell’intervista di Telese, non veda neanche lui bene i bordi del ring. Vespignani infatti spiega la sua oggettivamente intelligente strategia di lotta all’epidemia teorizzando serenamente che bisognerebbe ficcare tutte le persone contagiate e che sono venute in contatto con un contagiato in un bell’albergo, dicendo: Va la, siamo riusciti a farlo in Congo, vuoi che non ci riesca in Italia? Alludendo alla disparità delle risorse economiche, ma eludendo completamente il problema di una democrazia matura, ricca, con una solida tradizione liberale, dove di poteri costituiti e consorterie ce ne sono a mazzi, m anche cittadini borghesi e misurati che non accettano di essere coartati a delle azioni per quanto per il bene comune.
Così come anche l’idea di una app che controlli e tracci l’iter dei cittadini, scotomizza un problema di natura politica, che in democrazie meno mature, o dove la cittadinanza è talmente ricattata dall’assenza di denaro e di beni di prima necessità è certamente meno pressante, ma che in Italia potrebbe suscitare preoccupazione e opposizione. Su questo per esempio ha ben argomentato Andrea Iannuzzi, in un suo intervento su La Repubblica: un conto è l’affidamento delle nostre informazioni a società private, un conto è affidarle direttamente allo Stato senza cautele giuridiche rigorose,quind darle a leadership politiche che in astratto potrebbero pure  in un secondo momento rivelare  ambizioni totalitarie, anche se  magari l’attuale governo onestamente non le dimostra. Servono dunque garanzie – Iannuzzi faceva l’esempio dell’autorizzazione a procedere dei magistrati nelle indagini di polizia – ma quelle stesse garanzie giuridiche, aggiungiamo noi, rendono il dispositivo probabilmente meno efficace sotto il profilo epidemiologico.

In altri termini, per quanto una pandemia metta in campo l’urgenza di competenze scientifiche prestate alla collettività, per quanto ci servano virologi, epidemiologi, ed esperti di medicina sociale, il ring tutto politico dell’amministrazione pubblica rimane tale, i lati corti che determinano le proposte nell’amministrazione collettiva rimangono di colore politico, il sapere scientifico che viene chiamato a dire la sua, è comunque un mezzo dell’azione politica, e mezzo del colore politico. E questo in particolare diventa tanto più vero in una fase in cui le scienze sono ancora in fase di costruzione di risposte, una fase che deve – per il nostro bene – durare molto: perché i vaccini non si fanno in un giorno, i protocolli di cura non si stabiliscono in poche ore, e la ricerca scientifica è quella cosa che da risultati affidabili e poco rischiosi per noi quando sono rispettati e tempi tecnici dell’iter sperimentale, della replica di un certo esperimento in condizioni diverse. Per esempio ci si dovrà chiedere:  quel certo farmaco va bene su un paziente iperteso, e ipoteso? Quanto influiscono delle variabili di età e di sesso nell’efficacia di una terapia o nel numero e tipo di effetti collaterali?
La scienza per aiutarci  ha insomma ancora bisogno di errori, di scambi, di pareri e di aggiustamento del tiro. Dunque al momento  ha ancora meno possibilità di dirci cosa fare, e di essere usata politicamente. Per ora ci ha detto una sola cosa veramente importante: ed è la massima cautela: dobbiamo essere distanziati l’un l’altro, dobbiamo portare le mascherine e disinfettare le superfici, e sopra ogni cosa, dobbiamo lavarci le mani molto molto spesso.

Piuttosto,  queste cose che ci dice la scienza purtroppo ci tolgono molte delle risorse che da sempre ci hanno tenuto in mezzo al ring, e ce le toglierà in futuro, sia che le obbedisca lo Stato che le obbediscano i cittadini spontaneamente. Perché la protezione da coronavirus è necessaria quanto nemica dell’economia. Dimezza gli introiti, rallenta le filiere produttive, scoraggia i consumi. In mezzo al ring con tutte queste cose rallentate è molto più difficile stare perché si può dire, più ci si sente poveri minacciati e insicuri, più tenderemo a buttarci nel lato lungo formato dagli angoli più cattivi, la parte disfattista del liberalismo, la sfumatura dittatoriale dello stato etico. E questo è tanto più pericoloso, perché quel lato del ring sconfina in un burrone. Finisce male per tutti.

Se manteniamo però la consapevolezza di dover proteggere quanto più possibile del nostro funzionamento e del nostro benessere psicologico e civile, forse la metafora ci aiuta, a proteggerci come cittadini in questo momento e ad attivare delle risorse creative – proprio come  quelle delle famiglie che salvano dal collasso psicotico. Nella grande fatica che si profila all’orizzonte, stretti tra una crisi economica di cui non abbiamo memoria, e una minaccia sanitaria di cui non abbiamo esperienza, una cosa che ci può aiutare è recuperare un po’ di pensiero progettuale e politico, per tutelarci un po’ tutti, riconoscendo il gradiente totalitario o disfattista delle proposte che ci vengono fatte, disvelando sempre la misura politica, ma cercando anche di mantenere attivi i due angoli buoni del nostro ring, quello della protezione di altri che non siamo noi, del rispetto per le sue peculiarità, e quello dell’assunzione di responsabilità nei suoi confronti, nei confronti del suo benessere e della sua salute. In fondo l’azione politica è un po’ quel terreno in cui tutti ci candidiamo simultaneamente a essere i figli adolescenti di qualcuno  e che chiedono di essere rispettati, e i genitori illuminati di qualcun altro che ha bisogno di essere protetto .

Ogni promessa è debito

 

L’ultima volta in cui si erano incontrati, la donna aveva abbracciato l’uomo con un trasporto fuori programma, una sbavatura del contenimento formale, su cui poi entrambi avevano ragionato in modi diversi, separati i corpi, lontani dal luogo un po’ borioso – dove si erano trovati. Un presunto pranzo di lavoro.
Lui si era sentito percorrere da qualcosa dentro, la mano sul collo, dovrebbero avvertire prima quando vogliono salutarti toccandoti il collo – ed era un maschio dopo tutto, la cravatta la camicia, il completo, ma pur sempre un maschio che una donna sta stringendo a se prendendolo per la testa.

(Lei ci aveva pensato, non sono cose da farsi, eppure bisognerà far sapere che si sta in attesa di qualcosa, mi è capitato così per caso, che fortunata sono stata, la promessa di un bacio in un contratto di collaborazione, ci sarà un modo di sbottonare il cappotto e la giacca, come si può fare, non è cosa di parole, mi offri un caffè per favore? E poi come si continua.
Che cosa complicata il desiderio)

Lui ci aveva pensato precisamente il mattino dopo mettendosi la cravatta, era uno di questi che si mettono la cravatta, uno che vive un film del secolo scorso, e mettendo la cravatta si era trovato più gradevole del solito, pure facendosi la barba, ma questo anche perché la donna del ristorante, la candidata collega bisognerebbe dire, aveva detto – metà mondana metà melanconica sono contenta di rivederti, così aveva detto – rivederti! E l’uomo che avrebbe messo la cravatta si scoprì lusingato, non credeva di poter essere mai ricordato.
Lei aveva una camicia scollata.

(Alla stessa ora, lei contemplava la sottoveste, lei per la verità il secolo scorso lo cercava con dedizione, e coartazione. La sottoveste faceva parte di un programma di riti e assicurazioni contro la consolazione dei farmaci. Alla cura del contorno occhi, devolveva un valore apotropaico, al rossetto una funzione messianica. Nella sintassi della costruzione di un bacio, la donna organizzava una resistenza.
Lui aveva a un certo punto spiegato qualcosa di molto noioso, toccandole un braccio)

(qui)

 

 

Psicologia spicciola nella pandemia

A. INTRO: pandemia versus economia

Dunque da lunedì andiamo incontro verso un tentativo di graduale riapertura in cui si procede con molta incertezza e difficoltà. A questo senso di incertezza reagiamo ognuno con le proprie difese e risorse. Ci sono persone che si sentono maggiormente spaventate, persone che invece si sentono maggiormente irritate, persone che approfondiscono le loro competenze, persone che indugiano nel disfattismo. Poi ci sono le reazioni alle variabili materiali. In molti vedono la propria attività lavorativa messa in crisi, in una posizione cioè in cui il margine di profitto diventa nullo, o sparisce del tutto, e questo oggettivamente preoccupa molto o pone davanti a problemi materiali. In altri ancora interviene per me, un uso opportunistico delle preoccupazioni altrui – non sono pochi quelli, in queste ore, che stanno continuando a lavorare mettendo i dipendenti in cassa integrazione chiedendo di cioè di produrre come sempre, traendo i profitti di sempre, ma mettendo i dipendenti in condizioni peggiori. Non sarà il coronavirus – e questa è una delle mie preoccupazioni – a cambiare certe patologie nazionali. Altri – come è capitato di vedere nelle fasi acute della recessione economica – non vedono la sopravvivenza immediatamente minacciata, ma assistono a una consistente riduzione del proprio potere d’acquisto.

Insomma stiamo tutti insieme, ancora chiusi in casa, a scambiarci tra noi le nostre congetture, e a cercare di anticipare gli eventi, per vedere come cavarsela al meglio. Ci sentiamo un po’ stretti tra due minacce – da una parte quella del coronavirus, dall’altra quella del crollo economico – il quale poi, ha due versanti un timore sul proprio lavoro, sulle proprie possibilità di sostentamento, e l’altro che riguarda la tenuta collettiva, i comparti sociali. Personalmente, il che è particolarmente cupo, trovo che questa sia una falsa antinomia – determinata dalla tendenza a concentrarsi sui primi effetti immediati di entrambi i fuochi del problema: se ci sono tanti contagiati allora ci saranno tanti problemi (con il mito di – se ci sono pochi contagiati non ci saranno tanti problemi) se si ferma il lavoro adesso ho molti problemi (se non si ferma ne avremo molti di meno). E questi miti funzionano meglio al netto di una serie di vizi capitali di questo paese che rendono le iniziative anche virtuose sempre vane, perché quei vizi capitali – come cercherò di spiegare qui, tenderanno a vanificare le manovre precauzionali intermedie.

Le trappole di questa antinomia – si spiegano molto bene con un intervento che ha fatto Angela Merkel parlando ai tedeschi – dove spiega come il comportamento collettivo deve essere guidato dallo scopo di mantenere un tasso di contagio basso: ossia se R0 è uguale a 1 o sotto all’uno, si può continuare a navigare a vista (cioè non liberi – ma a vista, per esempio in Germania, scuole chiuse) ma se sale si deve ragionare in un altro modo, aumentando cioè le misure restrittive che incidono nell’attività economica. Questo discorso della Merkel aiuta a capire perché le misure prudenziali sono sensate in regioni Italiane che non sono la Lombardia o il Piemonte dal momento che fanno riferimento a una società dove la pandemia è più controllata. Il virus infatti non ha abbassato il suo tasso di contagiosità per una mutazione genica, né perché noi abbiamo trovato un antidoto, ma solo perché il lockdown ha funzionato. E se continua a imperversare in alcune zone – ospedali e case di riposo è anche perché di fatto, sono alcuni dei luoghi di aggregazione rimasti tali e aperti al pubblico, e luoghi dove poi vengono fatti regolari tamponi. Ma è l’aggregazione il problema, non questa o quella professione, questo o quel luogo.

Ora, seguitemi che faccio fatica pure io a seguire me stessa. Noi abbiamo un problema importante adesso di psicologia sociale. Quando Merkel dice, dobbiamo essere prudenti e non arroganti, perché camminiamo sul ghiaccio sottile, si riferisce esplicitamente al numero dei posti letto del sistema sanitario nazionale, spiegando per bene che se aumenta il ritmo di contagio, si saturano prima i posti letto delle terapie intensive. Io invece vorrei che noi ragionassimo sul fatto che quando sale il ritmo di contagio, e il numero di morti, i comportamenti a cui ci hanno costretti le leggi di Conte verranno dal basso, e lo stallo economico a cui Conte ha costretto potrebbe arrivare dai comportamenti dei singoli. Quello che voglio dire è: che se si alza di nuovo di molto il tasso di contagio: a voja ad aprire le frontiere, a mandare la gente al mare, o nei ristoranti, la gente non ci va. Se il titolare di una fabbrica costringe i suoi dipendenti ad andare a lavorare, con la pandemia che imperversa, e magari comincia un focolaio nella filiera, gli operai si incazzano. L’enorme contributo del lavoro al nero e retribuito in maniera ridicola, ma che contribuisce in maniera determinante su quello che noi consumiamo diciamo nel nostro mondo legale e apollineo – si sfalda. E siccome – questo bisognerà pur dirlo – la tassazione per i datori di lavoro in Italia è improba – questa crisi del lavoro nero, porterà al collasso di altrettante attività. Quello che voglio dire è che, le manovre restrittive di Conte – così come di altre dirigenze pubbliche sono reazioni di psicologia sociale che evocano molto di quello che capiterebbe senza una direttiva dall’alto, in un regime di caos. Quello che voglio dire, molto antipaticamente è ricordiamoci tutti: la lotta alla pandemia è più importante della lotta per l’economia. Non perché non sia gravissima la crisi economica o prioritaria. Ma perché nell’ordine del potere sulle cose: la pandemia alimenta la crisi economica molto più rapidamente ed efficacemente dell’inverso – perché il virus attaccando i corpi, attacca i comportamenti economici. I comportamenti economici purtroppo allo stato attuale delle conoscenze, hanno meno potere sul virus.

 

B. TRE VERTICI

Quindi la domanda che ci si deve porre è – come facciamo a proteggere il nostro italico ghiaccio sottile? Su cosa possiamo contare? Che cosa possiamo tenere a mente? Io qui propongo tre vertici di osservazione.

  1. Vertice scientifico

Da un punto di vista scientifico, noi dobbiamo tenere in considerazione le cose che sappiamo, e le cose che non sappiamo. E in primo luogo finirla di protestare perché la scienza non ha una risposta immediata. Il sapere scientifico si costruisce per gradi, per dibattiti, per tentativi, per personalismi, per tempi tecnici, per itinerari sperimentali, per itinerari di conferme. La scienza ha bisogno di tempo, e la prima cosa da fare è dare per scontato che questo tempo va abitato. Questa cosa andrebbe comunicata chiaramente dalla leadership, però io credo che le aree più istruite della popolazione, dovrebbero fare lo sforzo – nel loro ruolo nel loro piccolo stare quotidiano – di rendere evidente questa cosa divulgarla, e mostrare che si può tollerare. Protestare contro la mancata risposta immediata vuol dire mettersi immediatamente in una posizione regressiva di attesa, che fa sottostimare le possibilità creative di azione in ognuno di noi. Stacce è così, fai prima al momento a pensare che il vaccino non ci sarà.
Sempre da un punto di vista scientifico, sappiamo alcune cose che contrastano il contagio: e in primo luogo sono il distanziamento sociale, e il mantenere le mani pulite. Noi non siamo stati a casa perché ce l’hanno imposto semplicemente. Noi siamo in casa per fare un massivo distanziamento sociale che faccia retrocedere il virus. Quando si aprirà dobbiamo in primo luogo portare il lockdown con noi, quando è possibile per come è possibile, perché questo è un modo di proteggere la nostra salute, e sulla lunga durata (questo è ostico) la nostra economia. Questa norma va interiorizzata in tutti modi, e bisogna avere l’ardire di rivendicarla tutte le volte che un datore di lavoro ci dovesse chiedere di aggirarla.

Sarebbe certamente intelligente, da parte dello Stato – non solo calmierare e distribuire le mascherine, ma trovare il modo rendere accessibili, i tamponi o i test degli anticorpi, per un uso pratico all’interno della vita civile. Ammetto però di non avere ancora chiari quali sono i motivi per cui in Italia si fanno pochi tamponi, e sia così complicato per le persone che ne fanno richiesta ottenerne uno. Questa difficoltà ha esiti pratici molto gravi, ma anche quelli psicologici non sono da sottovalutare. La mancanza di tamponi rinforza – comprensibilmente – nei cittadini, la sensazione di navigare al buio, di essere in una indeterminatezza totale, in qualche caso le persone si sentiranno spiaggiate e abbandonate (e forse non del tutto a torto) perché avvertono dei sintomi per i quali è fornita una diagnosi congetturale. E tutto questo, nel parlare fitto tra persone di questi giorni, alimenterà comportamenti irresponsabili, abbandono delle norme, socializzazione di attività che vanno in direzione ostinata e contraria al mantenimento dell’ordine pubblico.

 

  1. Vertice dello Stato.
    Se pensiamo infatti a quale è l’interesse dello Stato – torniamo da Angela Merkel e capiamo che l’interesse dello stato è – mantenere R0 < 1 cioè una contagiosità del virus per cui ogni contagiato ne contagia al massimo un altro, e allo stesso tempo mantenerlo facendo ripartire comportamenti sociali e attività produttive. Ci sono moltissime cose che lo Stato può fare, e sulla maggior parte di queste cose io non posso dire niente perché non ne ho le competenze. Quello che posso dire, è quali sono le cose che possono essere fatte per non alimentare stati psicologici che esitino in comportamenti controproducenti per i singoli e per la collettività.

Una serie di strumenti – i tamponi, i test sierologici, sono anche messaggi di contenimento che è di aiuto alla popolazione.
In secondo luogo una comunicazione assertiva – più assertiva per me, e anche dettagliata, più dettagliata, dello stato attuale dell’arte. Mi accorgo che a ogni conferenza stampa di Conte – un mezzo che io ho trovato congruo in questo momento – le allusioni alla commissione tecnica sono poche e confusive, e anche quando ho ascoltato le conferenze stampa di Borrelli, non ho assistito mai a una informazione limpida sul perché della precarietà dello stato dell’arte. E sulla razio economica della necessità di un controllo del coefficiente di contagio.
In terzo luogo, sarebbe intelligente credo – ma forse entro in un campo che non mi compete – cominciare a giocare di anticipo sulle gravi difficoltà economica che implicano le manovre preventive alla stragrande maggioranza delle attività – perché i soldi si fanno con i numeri di soggetti, che lavorano e che consumano, grandi numeri abbattono i costi, pochi numeri alzano i costi.   E quindi sono molte le attività che entreranno in grande difficoltà a costi abbattuti- che senso ha per un ristorante tenere aperto servendo pochi tavoli? Quando le utenze sono le stesse, i fornelli sono gli stessi? E per una compagnia aerea? E per un banco di ortofrutta? E quanto una azienda che produce un certo bene, riesce a mantenere tutta la baracca che riguarda quella parte della filiera produttiva, se le richieste di distanziamento sono destinate a abbassare drasticamente la media dei pezzi finiti da immettere sul mercato? Quindi, quello che immagino debba essere incentivato – è la suddivisone spaziale delle attività e l’incoraggiamento delle consegne domiciliari. Sono cose che non mi competono – non so bene come si potrebbe fare, Ma penso che la questione riguardi moltissimo per esempio la dotazione degli spazi, e la possibilità di parcellizzare le attività oltre che incoraggiare con strumenti economici forme di lavoro sostenibili. Quello che posso dire, è che nella gestione dei gruppi, la collettività reagisce alla sensazione di essere pensata, di essere iscritta in un processo, diventa meno irrequeieta quando vede che c’è un pensiero politico che intercetta le domande che si pone. E’ il segreto delle grandi leadership carismatiche, e con un certo cinismo dico, si certi storici dispotismi. E’ quella cosa che manca storicamente alla sinistra è che è nel dna della storia politica di destra: avere l’ardire di intercettare dei bisogni e proporre delle soluzioni ideologicamente determinate. Quello che sta facendo sentire la cittadinanza allo sbando, è la percezione di una politica debole, bucherellata, annacquata. Proprio nella situazione di emergenza che – come ho scritto altrove – scatena proiezioni genitoriali sulla classe politica governativa, i cittadini si trovano a viversi dei genitori che i medici li ascoltano ma non sanno dirti esattamente cosa consigliano, hanno un’idea di compito di dovere e di libertà che però è confusiva e instabile, ricattabile dai pareri della zia arrogante. Questa cosa genera reazioni regressive.

 

3. VERTICE DEI SINGOLI

  1. Accettare come dato costituito del panorama: dover convivere con il covid, dover aspettare delle soluzioni scientifiche che arriveranno con lentezza, dover sopportare delle restrizioni nel comportamento come un dato di fatto. Poi è cosa buona e giusta approfondire tutte queste cose, e anche magari muoversi per modificarle. Un medico che nella sua esperienza ha incontrato un farmaco che elude la terapia intensiva fa bene a informare, facciamo bene noi a cercare di procurarci il farmaco, facciamo bene tutti a chiedere che sia iscritto in un protocollo di cura da fornire ai medici di base. Facciamo anche bene a segnalare delle cose che ci rendono la vita impraticabile – ma psicologicamente, accettare lo status quo da adulti, anziché da figli deprivati ci aiuta a trovare delle risorse per fronteggiare i grandi problemi materiali che ci si pongono davanti. Per esempio organizzare un’attività economica nel caso in cui la pandemia abbia reso impossibile quella che prima ci sosteneva. Diamo per scontato il casino e muoviamoci dentro. Potremmo inventare delle cose. Potremmo trovare soluzioni che altrimenti ci sono negate.
  2. Bisogna anche fare un pensiero molto molto approfondito sulle nostre priorità, e sui valori che organizzano i nostri assetti esistenziali – come soggetti ma anche come microcosmi relazionali – famiglie coppie forme di convivenza – con un occhio particolarmente attento alle coppie eterosessuali con figli, perché se c’è una cosa su cui questa pandemia ha messo il dito erano le diverse organizzazioni dei ruoli di genere e la gestione della prole, e credo che la gestione dei bambini aumenti di molto le difficoltà. C’è proprio un pensiero da fare, dove è possibile, dove c’è margine di manovra su come pensarsi come famiglia e su cosa si vuole per il meglio per se. C’è proprio un pensiero da fare dal basso, pensando a uno status quo dato per scontato, entro cui muoversi.
  3. Poi adesso dirò una cosa, cercherò di dirla per bene. C’è una soglia che riguarda molti per cui la pandemia ha messo in crisi la sussistenza. Questo punto non riguarda loro, perché la sussistenza è una priorità assodata e non c’è molto da dire.
    Dopo la sussistenza però la pandemia intacca la qualità di vita, per cui si sopravvive certo ma a livelli diversi con una qualità più bassa di prima: si contraggono gli introiti, si devono ridurre i consumi, a diverse altezze. Qualcuno prima comprava magliette da zara a 8 euro, qualcuno a 80 da un’altra parte, entrambi potrebbero dover rinunciare a beni secondari, che intessono la nostra qualità di vita di paese occidentale ricco anche a redditi medio bassi. Diversamente da altri, io non ho mai condiviso le rampogne sul consumismo su base psicologica – perché ho amato nella vita cercare le cose belle e non sarò così ipocrita da non pensare che sia bello che lo facciano anche altri a tutte le altezze di classe, secondo la loro estetica. Anzi lo trovo salubre per molti aspetti. Caso mai, la questione intacca un piano etico o politico, ma non ho mai condiviso la balla per cui ah il consumismo orrore. Tuttavia questo complemento oggetto ora ci potrebbe essere precluso. Dobbiamo darlo per scontato. Quelle cose che ci piaceva acquisire perché ci esprimevano, tridimensionalizzavano fuori da noi, la nostra identità, non possiamo permettercele come prima, o affatto. Io penso che l’acquisto di beni abbia molto a che fare con l’espressione di identità, e la rappresentazione di se, a tutte le altezze per questo sono meno ostile al consumismo di altri. Allora arriva il momento di dirsi, bene è così, sti cazzi, stamoce. Io cosa altro sono, oltre quello che compro? Cosa posso fare con quello che ho? Come posso materializzare l’idea di bello per me? Senza spendere i soldi che non ho più? Che posso fare di questa mia casa per renderla più piacevole? Di questa tavola? Di questo mio mondo privato? Meno pensiamo a quello che ci spetta e che ci viene tolto, più mettiamo l’accento sull’io e sulle nostre risorse.
    Daje, passerà.