Su: “La città dei vivi”

Nei giorni scorsi, alcuni amici che stimo mi hanno esortata a leggere La Città dei vivi, il libro che Nicola Lagioia ha scritto sul caso Varani. Ne erano rimasti favorevolmente impressionati, e pensavano giustamente che mi potesse interessare, per via del tema trattato.  Anche su internet, alcuni contatti ne avevano parlato bene, come un libro coraggioso, che ti porta dove non avresti piacere di andare, e ad avere un’idea dell’umano meno semplice di quanto vorresti. 
Ora il libro l’ho letto, e posso dire di essere arrivata alla fine per diversi pregi oggettivi: la città dei vivi è un libro scrupoloso, attento, frutto di un lavoro molto accurato, e scritto da qualcuno che – non so dire meglio – mi sembra, nel senso migliore del termine una brava persona, una persona capace di dolcezza, con quel tipo di attenzione verso le persone che spesso mi piace ritrovare negli scrittori – mentre vorrei che fosse inderogabile nei miei colleghi. 
Però devo anche dire, si sono arrivata in fondo, si mi ha presa, ma il libro non mi è piaciuto. In qualche misura mi ha fatta arrabbiare- suscitandomi riflessioni in diverse direzioni, che vorrei riportare qui, in modo schematico.

Un libro del genere, entra nel grande filone dei libri che si interrogano sull’espressione del male. Si prende una vicenda di cronaca, la si potrebbe anche inventare, e la si iscrive in una rete di racconti e suggestioni che cerchino di dare una interpretazione del reale, una lettura degli eventi, ne restituisca la complessità. Il male è sempre molto erotico, attraente, e questa rappresentazione del male, particolarmente adatta ai grandi numeri della distribuzione editoriale: Lagioia non ha dovuto fare particolari sforzi creativi, il feuilletton gli era stato servito sul piatto d’argento dei media, e ora aveva a disposizione tutto: giovinotti equivoci, marchettari di periferia, casa dell’orrore, commissario della polizia integerrimo, fidanzata addolorata, sesso e cocaina. Mica è come riscrivere il male, tramite la corruzione presso gli uffici pubblici dell’ama. Mi rendevo conto che lo leggevo con lo stesso meccanismo per cui mi sono cibata dieci anni di Beautiful – non è stata la qualità della rappresentazione, ma la tossicomania del plot a trattenermi sulle pagine. La cronaca fa spesso questo effetto. 
Però in questo caso, mi dicevo, diversamente da Beautiful qui ho un romanziere, un intellettuale e una persona gentile. A questo sordido plot sarà in grado di affiancare una visione del mondo. Una costruzione mentale. Pensavo per esempio a uno dei miei scrittori preferiti, Walter Siti, e a cosa aveva fatto nei suoi libri i quali – per buona parte, cronaca o meno, si pongono gli stessi scopi. 

Ecco sono rimasta delusa, perché andando avanti che andando avanti, mi vedevo sciorinate le frattaglie tragiche dei percorsi esistenziali – senza che questa secondaria esposizione mediatica e lucrosa portasse a un minimo valore aggiunto. Esattamente perché stavo leggendo la lettera d’amore di Luca Varani a Marta Gaia? Perché era stata pubblicata in un romanzo di modo che Marta Gaia, sopravvissuta al tragico dovesse sapere che era pubblicata? Per quale motivo dovevo sapere che alla madre di Foffo non si disse immediatamente che il figlio aveva un morto in casa? Perché dovevo leggere, di nuovo, di come esattamente si offrì sessualmente Luca Varani a Foffo e Prato, perché dovevo sapere che anche i genitori di Luca Varani avrebbero riletto quelle pagine? 
Per una degna ricostruzione, per un degno pensiero che  però non sono mai arrivati.

Certo c’è quel – francamente imbarazzante – tentativo di cadere nella solita questione della cattiveria come potenziale inespresso di tutti gli umani – quando Lagioia allude a un suo periodo difficile durante l’adolescenza, quando lanciava bottiglie di vetro da una casa del settimo piano, o quando ammaccava ubriaco le macchine, ma quel tentativo a me è risultato inopportuno, con un rapporto di grandezze che mi lasciava interdetta, e che mi chiedeva qualcosa che non potevo sottoscrivere. L’accostamento di Lagioia adolescente che non accetta la separazione dei genitori, e fa sciocchezze con due che si ammazzano di cocaina valutando ipotesi di prostituzione stupro e sodomizzazione, mi ha fatto fare delle congetture che spaziavano tra il trucchetto editoriale per dare un po’ di ciccia al libro e renderlo diverso da un collage dei giornali, e a essere un po’ più gentili la tendenza a cui non scappa neanche Lagioia, che dovrebbe essere un uomo avvertito, a proiettare su questioni psichiatricamente complesse e di ben altro voltaggio vicissitudini personali. Quel passaggio, ha incrementato le mie perplessità.

In fondo quello che ho profondamente sofferto di questo libro, è avere una gran messe di dati privati gratuiti, su persone che sono ancora in circolazione e ne sono ancora una volta più espropriati, senza che ci fosse almeno uno straccio di lavoro e di tesi. Niente approfondimenti sociologici, niente letture di classe, nessuna lettura psicologica o psicodinamica. Giusto qua e la una rappresentazione del male, pescata dai protagonisti di Ernesto De Martino, ma senza la profondità e gli studi di Ernesto De Martino.  Il male si affaccia così improvviso e imponderabile, e ci possiamo cascare tutti. Ci voleva Lagioia, per questo trito, e profondamente antipolitico luogo comune che impesta l’industria culturale da Carolina Invernizio in poi? Come mai Varani si prostituiva? Come mai uno comincia a pensare di drogare uno e poi farne sevizie? Davvero per gli stessi motivi per cui si va a sbattere con la macchina quando ci si ricorda di dover andare a prendere la fidanzata? Non mi sembra sottoscrivibile.

Io credo che questo libro, poteva avere senso che ne so, sessant’anni fa? Quando non c’erano state tante serie televisive di grande spessore, quando non c’erano stati ancora tanti scrittori che si fossero sforzati di fornire un intreccio – magari anche studiando discipline estranee ai loro curricula, quando non erano nati gli Houellebecq, i Carrère i Walter Siti, quando anche i reportage erano di meno. Ora questo libro risulta titillante, ma poi ti accorgi che è al di sotto della domanda di complessità a cui ci siamo abituati, occulta degli scarti, che molte persone mediamente colte, mediamente intelligenti, vedono e d cui chiedono conto. Rendere ragione di quegli scarti proponendo delle tesi, è un’operazione politica, perché quelle tesi, suggeriscono degli atti politici. Anche Jonathan Bazzi, con il suo Febbre, per quanto acerbo, con la sua ricostruzione di uno smarcamento dal male, dovuto all’imprinting periferico, benché  il romanzo sia imperfetto, fa un atto politico con più spessore di questa comoda carrellata di tragico ripresa da una poltrona di sana nevrosi borghese. 

Una postilla conclusiva per quel che pertiene il mio vertice di osservazione.

Esiste una zona del tragico, che forse la lingua italiana restituiva con l’aggettivo tristo. Il tristo della nostra prosa polverosa era una persona cattiva, efferata, ma la radice della parola rinviava appunto alla tristezza, al dolore. Era una parola bellissima dunque perché incrociava il dolore con la necessità dell’ostilità psichica, dell’aggressione.

Esiste una specifica patologia della cattiveria, che si intreccia con il dolore, e che affonda nell’infanzia. Questa patologia della cattiveria, io credo che agisca con una percezione di costante mancanza e desiderio di revanche, che affonda in anni lontani e segreti, ben oltre i padri svalutanti a cui in questo libro si dedica molto spazio. Questa percezione funziona come punto di trazione, ed è un punto di trazione, come una specie di calamita che riporta indietro, che ti fa rincorrere uno stato emotivo regressivo. Ma è anche un funzionamento mentale, una decodifica dell’esperienza che introduce una frattura qualitativa tra la mente di Lagioia e quella di Prato, non meramente quantitativa. 
 Una serie di scabrosi eventi di cronaca, vedono i protagonisti accomunati da questo punto di trazione, e le droghe che assumono il facilitatore che permette di tornare in quello stato di angoscia infantile e desiderio di vendetta che non si deve essere mai estinto e che nella vita apollinea e diuturna della sobrietà è molto faticoso tollerare. Qualcosa accomuna Foffo e Prato con gli stupratori in branco, per esempio, ma anche con altri personaggi che arrivano alle nostre consultazioni, che non uccidono nessuno ma cercano di fare del male in vario modo, sotto l’effetto di sostanze, senza superare la linea della morte, ma corteggiandola insistentemente. Così come corteggiano insistentemente la propria autodistruzione e la propria umiliazione.  Di contro esiste anche una disciplina, la vittimologia, sotto branca della criminologia, che dice cose interessanti sul perché certi profili di personalità si ritrovano implicati con maggiore ricorrenza in aggressioni. E uno sguardo psicoanalitico e psicodinamico avrebbe saputo dire diverse cose sulla struggente figura di un ragazzino esile, giovane, abbandonato dal contesto politico e sociale alla sua organizzazione dissociativa della personalità – che per buona parte del tempo era figlio, lavoratore, e ottimo fidanzato, poi entrava in una zona buia di se, e per un po’ di soldi si prostituiva, con persone sconosciute e con soggetti da cui altri, con un funzionamento psichico meno autodistruttivo si sarebbero rapidamente difesi ( e qui un passaggio interessante del libro, è il comportamento di Alex Tiburtina esempio di un funzionamento nevrotico in questo panorama francamente borderlinee).  

Io non penso che per occuparsi di queste cose, si debba per forza ricostruire nel dettaglio fatti veramente avvenuti, con nomi e vicende citate di nuovo. Ho trovato in questo accanimento sul reale, un’operazione di classe, o forse dovrei dire meglio un’operazione foucaultiana, dove il mondo apollineo diuturno, fa stracci ancora una volta dell’irredimibile, dell’altro irriducibile, approfittando di una posizione di potere.  Se si fa, desidero una messa in gioco di se, uno sporcarsi le mani intimo, approfondito, paritario, che in questo caso non ho avvertito. In linea di massima alla letteratura chiedo produzione di metafore, e penso che sia intelligente produrre romanzi che parlino di questo cono intermedio che riporta bambini abbandonati dallo sguardo dei genitori, bambini resi pazzi da bisogni inesauditi, bambini esposti ad abusi e violenze, a diventare adulti non adulti, che tornano indietro tramite sostanze  – ma a volte senza neanche quel tramite – ad agire con le cose, e i corpi e le relazioni di adulti le disperate fantasie da cui sono venuti al mondo. Per queste fantasie i clinici hanno ancora poche soluzioni-  come potrebbe scoprire La Gioia a leggere la letteratura su disturbi antisociali, – però ci potrebbe essere uno sguardo politico, uno sguardo sullo stato sull’economia e le istituzioni, su quanto il collettivo intervenga per proteggere i piccoli della specie.  

(Un ulteriore pensiero arrabbiato mi è arrivato quando Lagioia racconta di se fuori del negozio di animali, che parla con una bambina. E’ un passaggio bellissimo, così come ce ne sono altri nel libro – quando parla per esempio di Donnarumma, mi viene in mente, o in altri momenti ancora. Perché una persona capace di questa gentilezza d’animo, di questa prosa, migliore delle sue prove precedenti, si è fermato? Perché è rimasto sulla soglia delle cose? Fin dall’inizio questo libro mi ha colpito e mi ha tenuta con se perché sentivo questo assetto emotivo. Sono questi gli assetti emotivi con cui bisogna parlare agli altri del male. Però davvero Lagioia, la prossima volta, non ti fermare.)

Note a margine (sesso, bambini, madri, maestri) .

L’anno scorso in classe di mio figlio, che faceva la quinta elementare, arrivò un aitante supplente. Accadde che una madre della classe, si mettesse a cercare informazioni su di lui, e trovasse il suo profilo instagram aperto e che conteneva alcune immagini porno soft, o zone limitrofe. Nella chat delle mamme, girarono le foto di questo maestro che si metteva le mani nelle mutande guardando concupiscente in camera, o che si specchiava al bagno, mostrando le marmoree terga. Fu molto buffo e la chat fu divisa tra scandalo e valutazione oggettiva del nostro. Io, naturalmente, mi divertii molto. 

Il partito dello scandalo però tumultuò moltissimo e molti insistettero perché il maestro fosse cacciato dalla scuola. Io provai a prenderne le difese, perché nella mia visione del mondo, l’importante è ravanarsi nelle mutande fuori dalla classe – non dentro la classe – ma fui poco incisiva, perché questo maestro passava tutte le ore di lavoro al telefono, non faceva fare niente ai bambini, ed era insomma indifendibile. Fu cacciato e fui piuttosto contrariata nel constatare questo fatto che se uno fa cazzate a iosa in classe è difficile prendere provvedimenti, ma se fa l’errore di farsi delle foto fuori scuola con vista pacco si corre subito ai ripari. Qualcuna mi disse: e se i bambini vanno su internet? E se vanno su instagram? 
e io mi trovai a ricordare che se un bambino di nove anni, va su internet, il problema è più della madre che del maestro zuzzurellone. Ma dicevo fui  -debole.

Cito questo aneddoto per riflettere al latere sull’episodio della maestra cacciata per il video messo in circolazione dall’ex fidanzato, e per il comportamento che appare decisamente poco professionale, e deontologicamente scorretto da parte della preside. Se per me era concepibile un maestro elementare protagonista di un romanzo di Walter Siti, che per regia fotografica posture etc, mi sembrava rincorrere l’obbiettivo curriculare del porno omosessuale più che del podio di Vigevano, figuriamoci se una povera maestra non può riprendersi mentre fa sesso more uxorio col proprio legittimo fidanzato facendosi un video casalingo. 

Ora, siccome sulla liceità di quell’azione, si sono espressi in tanti, così come si sono espressi in tanto contro la preside che non l’ha cacciata da scuola, io volevo riflettere su altro.

Porto i miei bambini in una scuola che  i cui genitori ricalcano fedelmente la mia bolla di facebook. Persone cioè con cui ho di norma una serie di affinità, tra cui ho anche drenato delle amicizie stabili – come mi è successo cioè tra i commentatori indignati della rete. Eppure quando ci fu la storia del maestro, alcune madri erano d’accordo con me e con il mio medesimo divertimento e leggerezza, altre erano d’accordo con me, ma con un senso di imbarazzo,e dicevano, hai ragione anche se non mi fa piacere che –  e un cospicuo drappello era, fortemente scandalizzato. Se fai il maestro dicevano, queste foto non le devi pubblicare. 
E se le vedono i bambini?

Mi sono tornate in mente queste cose, perchè in quest’epoca curiosa, i bambini stanno tra la scilla dell’ipertrofia del materno, e la cariddi dell’ipertrofia della comunicazione privata di tutti. Le madri, poco apprezzate come donne sul lavoro, si occupano ossessivamente dei bambini, pochi troppo pochi che fanno, e si infilano in un mondo che comunica ossessivamente tutto. La povera maestra, che oltretutto era giovanissima si è infatti ritrovata a perdere il lavoro, da un certo punto di vista, per una sorta di nuova regola comunicativa dei fatti privati, che ha preso, non tanto lei, incolpevole, quanto il partner, gli amici, e tutta una catena di comari 3.0. In questo contesto di parossismo del dire e valutare, del far sapere e comunicare, dove in tutti i piani si annacquano i confini, e dove il privato diviene sempre più senza alcuna cura e rispetto materia di dibattito pubblico, soggetto narrativo costante,  le madri si trovano a valutare quelle circostanze in cui l’infanzia si incontra col sesso, come scontro ancora semplice di sfere semantiche, bambini da una parte maestri che in certi momenti della vita svolgono attività sessuali dall’altra, e hanno una specie di cortocircuito emotivo, che io ho visto in quella occasione che ho raccontato. 

Per la mente adulta, spesso mettere insieme sesso e infanzia è un problema. E’ un problema non razionale, ma irrazionale, immediato e istintivo.  Io stessa, per mettere le due cose insieme – per esempio quando ho portato i miei bambini a vedere una mostra fotografica di La Chapelle – ho dovuto formulare un pensiero prima di varcare la soglia, mi sono trovata di fronte a un interrogativo. È corretto far vedere a dei bambini le foto di un uomo nudo in mezzo ai fiori, o di una donna?  Ho pensato che delle singole immagini non fossero particolarmente turbolente, e anzi mi davano l’occasione per introdurre in modo agile contenuti dirimenti per la loro vita futura, il corpo ragazzi miei esiste – è bello e potente. Anche la scena di un film dove due persone fanno sesso non mi pare particolarmente incisiva: tutti noi veniamo da quella cosa li bambini, e anche auspicabilmente, tutti noi sappiamo che quella cosa li è molto piacevole e divertente. Non sono grandi traumi. Ma per esempio una specie di voce istintuale, anteriore al mio sapere analitico, mi fa sospettare che la sovraesposizione dei bambini ai comportamenti sessuati e ai corpi nudi, non è una cosa che fa loro bene. Mentre un passaggio transitorio apre gli stessi spiragli evolutivi, di un sano e auspicabile buco della serratura, la sovraesposizione alla comunicazione sessuale, alla pornografia all’erotismo rientra per me nell’abuso del minore, perché un campo linguistico e mentale che si sta sviluppando viene invaso da qualcosa verso cui si tende e non si può capire, che crea un oggettivo disagio. E di questo disagio purtroppo molto sanno le poltrone degli analisti e degli psicoterapeuti.

Perciò credo che quando le madri cominciano ad allarmarsi perché il docente rivela fuori dalla classe di avere una qualche attività sessuale di qualche tipo, scatti in primo luogo un riflesso mentale per il fatto che la stessa persona che si occupa dei bambini porta la semantica del sesso, mette loro in difficoltà. Se lui non le separa – ci si chiede – ci posso riuscire io?
A quel punto tutta la retorica bigotta e sessuofobica del contesto culturale viene incontro alle madri, e i maestri vengono licenziati.

Ma il punto, care colleghe madri, non sono le scopate dei maestri, i loro video amatoriali, le loro ambiziose carriere  con i culi di fuori. Il punto è fare le madri nell’ipertrofia comunicativa del sesso e del privato, ci si trova di fronte a una nuova sfida rispetto alla quale i maestri licenziati sono un mediocre capro espiatorio. Quello che succede ora per esempio è che una si distrae e si ritrova la bambina di nove anni che guarda i video porno con le amichette, e quello che deve chiedersi, non è come faccio a far passare un guaio a quell’uomo col cazzo di fuori, ma come devo comportarmi con la mia bambina che guarda l’uomo col cazzo di fuori? Cosa devo dirle? Come devo valutare il suo comportamento? Come calibrare il mio?

Come cioè io genitore mi devo comportare con le informazioni sessuali che provengono dalla rete?
altro che la povera maestra.

La curiosità in fatto di sesso, dei piccoli è una curiosità sana e lecita. Il sesso è stato il nostro futuro di animali, e ora è il loro futuro di cuccioli. Già senza che se ne rendano conto intesse il loro comportamento, essi hanno già un corpo e quel corpo ha già delle funzioni sono tesi al sesso, ed è una cosa sana. Spesso fanno cose, per prenderci contatto che noi grandi non conosciamo. I divieti che noi grandi mettiamo sulle conoscenze di queste cose esoteriche e segrete sono un buon modo per permettere che le strutture psichiche dei piccoli facciano a tempo a crescere per bene insieme alla loro tensione, insieme  –  se ci pensiamo –  al loro corpo che cambia. Possiamo ogni tanto far cadere delle cose – che ci vedano mentre ci si bacia, che vedano dei corpi nudi in una foto, che sappiano un po’ dove si andrà – ma certo non dobbiamo dire loro che è normale che un certo linguaggio entri quotidianamente nella loro infanzia. Non permettere a un piccolo di sette anni di vedere un video porno non è prouderie, è funzione protettiva di specie, dei grandi con i piccoli.

Ora l’esercizio di questa funzione di specie, diventa complicato, per due ordini di buoni motivi. Il primo motivo riguarda la sovrabbondanza di immagini in rete di marca sessuale, ma anche un nuovo marketing del privato che fa perdere il senso del confine. In questo senso tra grande fratello,  libro di la gioia (su cui tornerò), e maschietti del calcetto che fanno vedere il video alle mogli,  non c’è molta differenza. Il secondo motivo però riguarda la crisi della pedagogia e della genitorialità per cui, siccome i genitori fanno fatica a controllare i figli, a porre dei divieti sul loro uso della rete, a esercitare la loro funzione genitoriale, usano come capro espiatorio il maestro di turno che inopinatamente si scoprisse avere una vita sessuale fuori dalla scuola. E’ più facile per certe madri far licenziare una donna incolpevole, che esercitare faticosamente la propria funzione materna che controlla quello che guardano i piccoli su telefonino, e computer.

Forse quella preside dovrebbe farsi delle domande.

Adolescenza e covid. Prima parte

Da diversi giorni ragiono su cosa scrivere a proposito di adolescenza in  questo periodo complicato. Circola molta preoccupazione, e soprattutto genitori e insegnanti si fanno molte domande. Come impatterà questo periodo di obbligatorie restrizioni sociali sui ragazzi, lascerà in loro delle conseguenze sulla lunga durata? Toglierà loro del benessere importante? Come impatterà questo strano oscillare di questo momento storico – tra incombenza di un pericolo non visibile, e misure restrittive da rispettare che chiudono i ragazzi nelle case? 

Voglio mettere qui, le mie prime riflessioni, sicuramente perfettibili. Prendetele con il beneficio di inventario – sono ipotesi di una mappatura concettuale.

Ci sono delle premesse mentali a cui io penso dobbiamo fare  riferimento per ragionare in lucidità.

La prima è che noi prima di essere adolescenti, bambini, adulti, siamo soggetti storicizzati nella mente e nel corpo. Negli anni dell’adolescenza la nostra verginità è andata già perduta da molto. Siamo degli individui con delle connotazioni molto più dirimenti della fase che stiamo attraversando. Questa cosa, senza scomodare le tracce psicodinamiche che incidono sulla formazione di un carattere è sotto gli occhi del senso comune: è estremamente fascinoso per esempio conoscere delle persone da piccole, i nostri nipoti, i figli dei nostri amici, o i nostri stessi amici, o i nostri stessi figli, e osservare come rivelino le certe loro specifiche risorse e modalità in occasioni diverse. Quella cosa interessante che è l’anatomia del carattere, e che a volte si rivela nei primi mesi di vita di una creatura. Quella continuità tra la fermezza con cui il bimbo di un anno e mezzo prende un oggetto, sorride agli estranei, e la fermezza e il sorriso con cui farà le cose che ne so a 8 anni, o a 15.  

Un’altra questione su cui occorre riflettere riguarda il concetto di: quando pensiamo all’incidenza di eventi a noi esterni più o meno pervasivi, in che termini dobbiamo pensarli? In questi giorni si parla con una certa ricattatoria disinvoltura dell’aggettivo traumatico.  Si ipotizza che l’attuale esperienza di deprivazione sociale per le misure restrittive dei minori possa essere traumatica.

Ma l’incidenza  di un esperienza di vita, è sempre traumatica?

Come premessa a queste riflessioni io propongo di tenere a mente una sorta di scala dell’incidenza, semplificata e colloquiale ma che ci aiuta in termini orientativi. Al grado zero di questa scala troviamo le esperienze di vita che non lasciano alcuna traccia, che ci passano sopra. A un livello successivo le esperienze che incidono moderatamente, e che provocano fenomeni reversibili. Quando questo secondo livello coinvolge esperienze negative che lasciano modifiche relativamente reversibili ma comunque negative, parleremo di disagio. Riserveremo la connotazione di esperienza traumatica a quelle situazioni che lasciano al corpo psichico una ferita che non si rimargina, un frattura che non si guarisce, e che rischia di lasciare il corpo psichico azzoppato, cronicizzato in un doloroso adattamento permanente all’esperienza traumatica.

A fianco di questa scala, non dimentichiamo di tenere a mente, la scala positiva di queste incidenze. Esperienze che fanno scoprire forme di benessere transitorie, fino a situazioni che regalano la prova di una agilità psichica, che danno altre risorse adattive, prove che se si riescono a superare ci regalano un punto di forza in più. Risorse.

Stiamo attenti insomma, osservazione preliminare, a non usare lo sguardo psicologico come un insieme di categorie del senso comune asservite per un verso all’appiattimento dei soggetti – gli adolescenti bambini – e per un altro drammatizzante e ricattatorio. Il lockdown è un’esperienza traumatica! Facciamo attenzione, perché quando un’esperienza è davvero traumatica, crea un disordine che non è solo nell’emozioni, ma nelle strutture della conoscenza, e dell’adattamento, e del pensiero. Un cambiamento che è permanente e che riesci –  a suon di cicli di terapie, e sforzi e fatica, spesso psicofarmarci – a cambiare solo in parte. Stiamo attenti all’uso delle parole – perché in soldoni l’esperienza traumatica è una esperienza terribile. Una specie di condanna di cui ogni volta  si discute se c’è appello o meno. 

 Di contro pensiamo un po’ a cosa è l’adolescenza.

L’adolescenza è un momento della crescita della persona in cui si negoziano (almeno) due cambiamenti molto importanti.

Nel primo si diviene adulti dall’interno perché il corpo cambia. Arriva un corpo nuovo che detta leggi, bisogni, desideri, e si propone come antagonista a quello dei padri. Con questo corpo si possono fare dei figli, si desiderano altri corpi, si possono fronteggiare i genitori. Il nuovo corpo diventa diverso e più grande e impone una semantica diversa, una collocazione di se diversa nello stare al mondo. Bisogna reinventarsi e anche staccarsi dalle matrici di provenienza. E’ un’esperienza pazzesca,  somigliante a quella della gravidanza, e quella purtroppo della malattia: situazioni in cui arriva una modifica dell’identità che non deriva dalla volontà tua, ma dal tuo corpo. Una specie di trasloco obbligatorio in un secondo mondo con altre regole.
Donde il secondo cambiamento: le matrici di provenienza devono essere discusse, e bisogna cercare fuori dalla cuccia oggetti relazionali con cui identificarsi. Bisogna parzialmente per gradi, defiglizzarsi. Allora si cerca: il gruppo degli amici, certi adulti di riferimento che possono fare da maestri, delle idee, dei contenuti, delle azioni. Nuovi interlocutori e nuovi modelli con cui attaccare il fortino della provenienza. Bisogna anche sperimentare cose, per portare avanti quello che non è uno scacco in due mosse, ma una lunga e complicata partita dove non devono esserci troppi morti e feriti, che non deve essere troppo costosa. Ossia bisogna vincere i genitori nella costruzione dell’identità, ma non bisogna perderli del tutto, perché quello è davvero troppo doloroso e non veramente strutturante nella costruzione dell’identità. 

Sotto il profilo socioculturale però dobbiamo anche aggiungere che gli psicoterapeuti da anni si stanno sgolando su alcune criticità dell’adolescenza di oggi, perché notano che si va in una direzione che per un verso  la dilata oltre misura, la culturalizza, e dall’altro la ostacola. Per un verso abbiamo un marketing dell’adolescenza: attività per l’adolescenza, prodotti per l’adolescenza, teoresi dell’adolescenza e  quindi un protrarsi dell’adolescenza che oggi arriva a sfiorare i trent’anni, per l’altro una caduta di buona parte dei riti iniziatici, che in tutte le culture servono a celebrare il passaggio all’età adulta, o la successione di traguardi che portano alla maturità. A mala pena conserviamo tra mille dubbi gli esami scolastici, per il resto, abbiamo in orrore qualsiasi conflitto generazionale, qualsiasi proiezione della sfida edipica. Ci piacciono tantissimo i tranquillizzanti adolescenti costruttivi che fanno le cose ammodino. Eludiamo la sfida come possiamo. E quindi facciamo cose pedagogicamente discutibili come, andare a prendere in discoteca i figli all’una di notte, perché dire ai figli non ci vai, e a un certo punto ci vai ma torni da solo, non ce la facciamo.

In questo momento storico cioè – l’adolescenza è un’icona e una garanzia per le nevrosi di noi vecchi.

Mettendo insieme queste premesse allora, possiamo concludere che l’adolescenza, è una delle prime grandi prove della tenuta psicologia di una persona, e un test piuttosto affidabile sulla sua struttura psicologica e sull’eventuale presenza di questioni irrisolte . E’ anche un test sulle risorse e e le difficoltà della famiglia di provenienza di un ragazzo o di una ragazza. La vita ce ne porrà altre: quando ci si innamora, quando si diventa genitori, quando i genitori si fanno vecchi, quando si perde il lavoro o si trasloca. Ma questo dell’adolescenza è un appuntamento della psiche, un pettine dei nodi irrisolti.

Fatte queste premesse pensiamo alla pandemia e alle misure restrittive. E cosa questo implica da un punto di vista materiale e simbolico.

Da un punto di vista materiale ci si trova come collettività di adulti, a fronteggiare un grande problema, e per la risoluzione del quale non abbiamo mezzi, strumenti, anzi siamo in difficoltà enorme, perché per sintetizzare velocemente, il virus è più veloce della politica, il virus non aspetta i tempi del dibattito di una democrazia matura, il virus se ne frega e intasa gli ospedali e gli unici strumenti di cui disponiamo noi vecchi responsabili del mondo in corso, è limitare i contatti tra le persone e limitare le cose da fare.

Quindi gli adolescenti da una parte hanno un virus che minaccia i loro vecchi e solo indirettamente loro stessi, con una contezza spesso aleatoria del funzionamento della macchina pubblica, dall’altro hanno delle restrizioni molto pesanti a quelle attività che costituivano la loro dinamica adolescenziale. Gli si chiede cioè di non frequentarsi, si ventila l’ipotesi che non vadano a scuola, non devono avere attività sportive. Gli si impone una contrazione delle esplorazioni di emancipazione.

Messa in questi termini io proporrei di considerare la pandemia con relativo lockdown come una prova, un altro pettine delle pregresse situazioni familiari e psichiche, un’occasione che pone delle precise domande al ragazzino: devi crescere, devi stare bene, e non puoi usare molte delle strade che usavi di solito. Non puoi andare a scuola, non puoi fare sport. Non puoi vedere i tuoi amici, ma neanche quella professoressa di italiano che ti piaceva tanto ascoltare. Come ti senti? Dice questa prova. Cosa fai?

Non è la prima volta che all’adolescente capita una rogna del genere. Succede regolarmente con i conflitti armati per esempio,  le grandi guerre, succedono cose simili ai ragazzini appartenenti a etnie discriminate in certi contesti culturali. Non puoi fare questo e quello. Come reagisci? In realtà condizioni di grande deprivazione economica costringono a passaggi solo in parte dissimili: non hai tempo di giocare, di esplorare, di negoziare di costruirti, vai a lavorare tanto – subito, adesso.
Come reagisci? 

 Questo pettine, questa prova: procurerà un trauma? Procurerà un disagio? O addirittura attiverà delle risorse?
E noi vecchi che guardiamo i ragazzini: per esempio scendere in strada e protestare, ripensando agli obblighi dell’adolescenza, cosa dobbiamo pensare? Stanno agendo un sintomo o stanno facendo il loro lavoro?

Che da che mondo è mondo, dovrebbe essere quello di rompere i coglioni, quello di dire cose giuste ma male, quello di cominciare a muoversi in modo riottoso, goffo e grossolano, raffinando identità e pensiero per ogni spallata. 

Propongo allora di pensare la pandemia rispetto all’adolescenza su due livelli.
Il primo riguarda il fatto che siccome è una prova, che si aggiunge a quella dell’adolescenza,  non sarà ipso facto traumatica, sicuramente procurerà disagio. Però è anche, in quanto prova,  capace di slatentizzare patologie pregresse importanti, o di inasprirle – così come in realtà di mettere in luce delle risorse individuali, di farle uscire fuori. La seconda invece riguarda una lettura più globale e collettiva – la pandemia come una prova per noi generazione di più vecchi riguardo il mondo che abbiamo messo in campo. 

Per quanto riguarda il primo punto – si per me c’è davvero da preoccuparsi perché questa complicata prova toglie risorse a chi ne usa già poche – cioè se un ragazzino avrà un po’ di problemi facile che raddoppieranno – perché la pandemia chiude in gabbia. Prendiamo per esempio, un ragazzino che per sua storia personale, per la qualità dell’accudimento che ha ricevuto, tende a essere molto diffidente, a farsi pochi amici, è figlio di una coppia di genitori che a suo tempo non è stata molto sintonizzata, magari è stato un bambino che non poteva in qualche modo fidarsi di chi si prendeva cura di lui, ora era nel grande mare delle sue seconde occasioni, ci prova in modo obliquo e titubante, e questo mare delle seconde occasioni diviene improvvisamente ristretto. Non si metterà a chattare con il suo nuovo compagno di classe con troppa disinvoltura. 
Un altro invece, che già quando era alla materna era sempre oppositivo e riottoso verso la madre che lo veniva a prendere,  e tale è rimasto nel tempo, persino attraversando una psicoterapia infantile, ora ha diciassette anni, un discreto successo sociale, si ventila addirittura una fidanzata, si ritrova il mondo dei genitori che gli chiude le cose, e questo fatto gli riattiva una organizzazione riottosa e oppositiva. Si arrabbia tantissimo ed entra in una dimensione conflittuale con la famiglia molto aspra e dolorosa.

 A peggiorare la situazione sono le condizioni di criticità in cui possono versare le famiglie di provenienza. Genitori che vedono il lavoro fermo, angosciati dal rischio sanitario ma anche da uno stipendio che salta,  come sistema familiare sono  a loro volta esposti a una prova che non sempre, nonostante le ottime intenzioni reggono brillantemente. La pandemia, con le sue ricadute nella vita quotidiana, è una spina continua di ansia, uno stimolo di sintomi, e gli adulti rispondono con i sintomi alle cose che li preoccupano, diventando senza volerlo un aggravante involontaria delle condizioni dei figli – padri alcolisti berranno di più, coppie violente si picchieranno di più, disturbi paranoidei potrebbero acquisire nuovo corpo e via di seguito. Inoltre gli adolescenti non sono funghi che crescono nel nulla, fanno parte dei sistemi familiari, prima che di sistemi collettivi, in un modo organico – non meramente affiancato. Hanno non di rado un ruolo nell’organizzazione comunicativa delle famiglie: ci sono per esempio figli maggiori che si sostituiscono a padri latitanti, ragazzine con disturbi di dipendenza che assicurano un sintomo conclamato buono per tutta la famiglia, ci sono figli che devono essere buoni per tutti e cattivi per tutti,  figli pazzi, e figli che fanno da cuscino alle liti dei genitori. La sfida pandemica sicuramente chiederà loro di assolvere più che mai il loro compito patologico nelle loro famiglie in difficoltà. 
 Lo stato di salute degli adolescenti molto ha a che fare con lo stato di salute delle famiglie di origine. L’impatto della pandemia sui minori, è molto correlato a quello sulla famiglia. Conta molto di più per i giovani come stanno i padri, che come stanno le palestre. 
Riutilizzando le categorie citate prima, la pandemia da sola non produce traumi nei giovani ma fa due cose: fa rifiorire le patologie pregresse, e mette in campo svariate forme di disagio, reversibile, non poi così grave – ma oggettivamente presente.

In questa prospettiva, da un punto di vista psicologico e non politico – punti di vista che ricordo devono rimanere rigorosamente separati – il fatto che i giovanissimi scendano in strada può essere sintomo di una criticità della situazione nazionale, ma non è certo sintomo di malessere dei giovani. E che devono fare i giovani di preciso se non dire ai vecchi dove sbagliano? Cosa devono fare se non esattamente protestare riflettendo a quel punto su come gestirebbero loro la situazione? Il che non vuol dire che poi uno debba dargli ragione – ma semplicemente da un punto di vista psicologico non allarmarci, i giovani che scendono incavolati, stanno obbedendo al loro mandato, fanno quello che devono fare. Nelle reazioni di molti, ci vedo la perdita di abitudine dinnanzi al conflitto generazionale. Si è perso l’esercizio del no, si è perso il coraggio dello scontro di mondi, e ora che una pandemia ci costringe a difendere il fortino malandato che abbiamo tra le mani, e non abbiamo certo tempo di fare diversamente, men che mai soldi, ci ritroviamo costretti a una prova a cui eravamo disabituati. Difendere un orizzonte di valori. Negoziare con delle richieste emergenti, oppure non farlo. Per quanto riguarda la salute psichica almeno, davvero questa è la parte meno grave del problema, anzi la più sana, anzi quella che riserva delle speranze. I confini generano pensiero, le opposizioni producono creatività – questo permissivismo degli ultimi decenni ha tarpato le ali ai più fragili. 

Mi preoccupano molto di più quelli che non scendono affatto in piazza, quelli che non sfidano le regole vedendo gli amici di nascosto, quelli che invece obbediscono e stanno a casa belli tranquilli perché utilizzano il telefonino e internet. Se c’è una cosa per cui vedo un cambiamento di lunga durata, che ha aspetti adattivi e aspetti pericolosi è questo. Perché internet è da una parte il medium comunicativo e professionale di domani, per cui in un certo senso la stagione covid rappresenta davvero un upgrade di competenze, di saper fare, e con questo dover stare a casa i ragazzini imparano a fare cose con i loro personal computer che domani saranno piattaforme di decollo per l’uso di programmi informatici molto più sofisticati, dall’altro di fatto internet può essere – un oggetto sostitutivo delle relazioni tra i più insidiosi che li mette a casa, li mette al riparo dalle sfide relazionali, e li porta ancora più lontano dagli obbiettivi di vita che è sano si pongano: l’amicizia, l’amore, il desiderio, il progetto identitario fuori da casa.

I videogiochi, le relazioni veicolate e disincarnate che rimangono scisse dalla realtà, possono essere una cuccia rifugio, e anche una tremendamente insidiosa area intermedia, che fa stare vicino ai genitori facendo mostra di allontanarsene, non mangiare il cibo dei padri stando vicino al cibo dei padri. La quarantena che ci si prospetta è un incoraggiamento a quella soluzione patologica. Una specie di dieta dimagrante per soggetti anoressici, la proposta di un insidioso dispositivo adattivo che per un verso è funzionale alla società di domani, per un altro alle sue patologie, e a questo dobbiamo essere particolarmente attenti.

Chiudo qui la prima parte del post. Nella seconda cercherò di ragionare su cosa possiamo fare per fronteggiare questi problemi emergenti.