Nei giorni scorsi, alcuni amici che stimo mi hanno esortata a leggere La Città dei vivi, il libro che Nicola Lagioia ha scritto sul caso Varani. Ne erano rimasti favorevolmente impressionati, e pensavano giustamente che mi potesse interessare, per via del tema trattato. Anche su internet, alcuni contatti ne avevano parlato bene, come un libro coraggioso, che ti porta dove non avresti piacere di andare, e ad avere un’idea dell’umano meno semplice di quanto vorresti.
Ora il libro l’ho letto, e posso dire di essere arrivata alla fine per diversi pregi oggettivi: la città dei vivi è un libro scrupoloso, attento, frutto di un lavoro molto accurato, e scritto da qualcuno che – non so dire meglio – mi sembra, nel senso migliore del termine una brava persona, una persona capace di dolcezza, con quel tipo di attenzione verso le persone che spesso mi piace ritrovare negli scrittori – mentre vorrei che fosse inderogabile nei miei colleghi.
Però devo anche dire, si sono arrivata in fondo, si mi ha presa, ma il libro non mi è piaciuto. In qualche misura mi ha fatta arrabbiare- suscitandomi riflessioni in diverse direzioni, che vorrei riportare qui, in modo schematico.
Un libro del genere, entra nel grande filone dei libri che si interrogano sull’espressione del male. Si prende una vicenda di cronaca, la si potrebbe anche inventare, e la si iscrive in una rete di racconti e suggestioni che cerchino di dare una interpretazione del reale, una lettura degli eventi, ne restituisca la complessità. Il male è sempre molto erotico, attraente, e questa rappresentazione del male, particolarmente adatta ai grandi numeri della distribuzione editoriale: Lagioia non ha dovuto fare particolari sforzi creativi, il feuilletton gli era stato servito sul piatto d’argento dei media, e ora aveva a disposizione tutto: giovinotti equivoci, marchettari di periferia, casa dell’orrore, commissario della polizia integerrimo, fidanzata addolorata, sesso e cocaina. Mica è come riscrivere il male, tramite la corruzione presso gli uffici pubblici dell’ama. Mi rendevo conto che lo leggevo con lo stesso meccanismo per cui mi sono cibata dieci anni di Beautiful – non è stata la qualità della rappresentazione, ma la tossicomania del plot a trattenermi sulle pagine. La cronaca fa spesso questo effetto.
Però in questo caso, mi dicevo, diversamente da Beautiful qui ho un romanziere, un intellettuale e una persona gentile. A questo sordido plot sarà in grado di affiancare una visione del mondo. Una costruzione mentale. Pensavo per esempio a uno dei miei scrittori preferiti, Walter Siti, e a cosa aveva fatto nei suoi libri i quali – per buona parte, cronaca o meno, si pongono gli stessi scopi.
Ecco sono rimasta delusa, perché andando avanti che andando avanti, mi vedevo sciorinate le frattaglie tragiche dei percorsi esistenziali – senza che questa secondaria esposizione mediatica e lucrosa portasse a un minimo valore aggiunto. Esattamente perché stavo leggendo la lettera d’amore di Luca Varani a Marta Gaia? Perché era stata pubblicata in un romanzo di modo che Marta Gaia, sopravvissuta al tragico dovesse sapere che era pubblicata? Per quale motivo dovevo sapere che alla madre di Foffo non si disse immediatamente che il figlio aveva un morto in casa? Perché dovevo leggere, di nuovo, di come esattamente si offrì sessualmente Luca Varani a Foffo e Prato, perché dovevo sapere che anche i genitori di Luca Varani avrebbero riletto quelle pagine?
Per una degna ricostruzione, per un degno pensiero che però non sono mai arrivati.
Certo c’è quel – francamente imbarazzante – tentativo di cadere nella solita questione della cattiveria come potenziale inespresso di tutti gli umani – quando Lagioia allude a un suo periodo difficile durante l’adolescenza, quando lanciava bottiglie di vetro da una casa del settimo piano, o quando ammaccava ubriaco le macchine, ma quel tentativo a me è risultato inopportuno, con un rapporto di grandezze che mi lasciava interdetta, e che mi chiedeva qualcosa che non potevo sottoscrivere. L’accostamento di Lagioia adolescente che non accetta la separazione dei genitori, e fa sciocchezze con due che si ammazzano di cocaina valutando ipotesi di prostituzione stupro e sodomizzazione, mi ha fatto fare delle congetture che spaziavano tra il trucchetto editoriale per dare un po’ di ciccia al libro e renderlo diverso da un collage dei giornali, e a essere un po’ più gentili la tendenza a cui non scappa neanche Lagioia, che dovrebbe essere un uomo avvertito, a proiettare su questioni psichiatricamente complesse e di ben altro voltaggio vicissitudini personali. Quel passaggio, ha incrementato le mie perplessità.
In fondo quello che ho profondamente sofferto di questo libro, è avere una gran messe di dati privati gratuiti, su persone che sono ancora in circolazione e ne sono ancora una volta più espropriati, senza che ci fosse almeno uno straccio di lavoro e di tesi. Niente approfondimenti sociologici, niente letture di classe, nessuna lettura psicologica o psicodinamica. Giusto qua e la una rappresentazione del male, pescata dai protagonisti di Ernesto De Martino, ma senza la profondità e gli studi di Ernesto De Martino. Il male si affaccia così improvviso e imponderabile, e ci possiamo cascare tutti. Ci voleva Lagioia, per questo trito, e profondamente antipolitico luogo comune che impesta l’industria culturale da Carolina Invernizio in poi? Come mai Varani si prostituiva? Come mai uno comincia a pensare di drogare uno e poi farne sevizie? Davvero per gli stessi motivi per cui si va a sbattere con la macchina quando ci si ricorda di dover andare a prendere la fidanzata? Non mi sembra sottoscrivibile.
Io credo che questo libro, poteva avere senso che ne so, sessant’anni fa? Quando non c’erano state tante serie televisive di grande spessore, quando non c’erano stati ancora tanti scrittori che si fossero sforzati di fornire un intreccio – magari anche studiando discipline estranee ai loro curricula, quando non erano nati gli Houellebecq, i Carrère i Walter Siti, quando anche i reportage erano di meno. Ora questo libro risulta titillante, ma poi ti accorgi che è al di sotto della domanda di complessità a cui ci siamo abituati, occulta degli scarti, che molte persone mediamente colte, mediamente intelligenti, vedono e d cui chiedono conto. Rendere ragione di quegli scarti proponendo delle tesi, è un’operazione politica, perché quelle tesi, suggeriscono degli atti politici. Anche Jonathan Bazzi, con il suo Febbre, per quanto acerbo, con la sua ricostruzione di uno smarcamento dal male, dovuto all’imprinting periferico, benché il romanzo sia imperfetto, fa un atto politico con più spessore di questa comoda carrellata di tragico ripresa da una poltrona di sana nevrosi borghese.
Una postilla conclusiva per quel che pertiene il mio vertice di osservazione.
Esiste una zona del tragico, che forse la lingua italiana restituiva con l’aggettivo tristo. Il tristo della nostra prosa polverosa era una persona cattiva, efferata, ma la radice della parola rinviava appunto alla tristezza, al dolore. Era una parola bellissima dunque perché incrociava il dolore con la necessità dell’ostilità psichica, dell’aggressione.
Esiste una specifica patologia della cattiveria, che si intreccia con il dolore, e che affonda nell’infanzia. Questa patologia della cattiveria, io credo che agisca con una percezione di costante mancanza e desiderio di revanche, che affonda in anni lontani e segreti, ben oltre i padri svalutanti a cui in questo libro si dedica molto spazio. Questa percezione funziona come punto di trazione, ed è un punto di trazione, come una specie di calamita che riporta indietro, che ti fa rincorrere uno stato emotivo regressivo. Ma è anche un funzionamento mentale, una decodifica dell’esperienza che introduce una frattura qualitativa tra la mente di Lagioia e quella di Prato, non meramente quantitativa.
Una serie di scabrosi eventi di cronaca, vedono i protagonisti accomunati da questo punto di trazione, e le droghe che assumono il facilitatore che permette di tornare in quello stato di angoscia infantile e desiderio di vendetta che non si deve essere mai estinto e che nella vita apollinea e diuturna della sobrietà è molto faticoso tollerare. Qualcosa accomuna Foffo e Prato con gli stupratori in branco, per esempio, ma anche con altri personaggi che arrivano alle nostre consultazioni, che non uccidono nessuno ma cercano di fare del male in vario modo, sotto l’effetto di sostanze, senza superare la linea della morte, ma corteggiandola insistentemente. Così come corteggiano insistentemente la propria autodistruzione e la propria umiliazione. Di contro esiste anche una disciplina, la vittimologia, sotto branca della criminologia, che dice cose interessanti sul perché certi profili di personalità si ritrovano implicati con maggiore ricorrenza in aggressioni. E uno sguardo psicoanalitico e psicodinamico avrebbe saputo dire diverse cose sulla struggente figura di un ragazzino esile, giovane, abbandonato dal contesto politico e sociale alla sua organizzazione dissociativa della personalità – che per buona parte del tempo era figlio, lavoratore, e ottimo fidanzato, poi entrava in una zona buia di se, e per un po’ di soldi si prostituiva, con persone sconosciute e con soggetti da cui altri, con un funzionamento psichico meno autodistruttivo si sarebbero rapidamente difesi ( e qui un passaggio interessante del libro, è il comportamento di Alex Tiburtina esempio di un funzionamento nevrotico in questo panorama francamente borderlinee).
Io non penso che per occuparsi di queste cose, si debba per forza ricostruire nel dettaglio fatti veramente avvenuti, con nomi e vicende citate di nuovo. Ho trovato in questo accanimento sul reale, un’operazione di classe, o forse dovrei dire meglio un’operazione foucaultiana, dove il mondo apollineo diuturno, fa stracci ancora una volta dell’irredimibile, dell’altro irriducibile, approfittando di una posizione di potere. Se si fa, desidero una messa in gioco di se, uno sporcarsi le mani intimo, approfondito, paritario, che in questo caso non ho avvertito. In linea di massima alla letteratura chiedo produzione di metafore, e penso che sia intelligente produrre romanzi che parlino di questo cono intermedio che riporta bambini abbandonati dallo sguardo dei genitori, bambini resi pazzi da bisogni inesauditi, bambini esposti ad abusi e violenze, a diventare adulti non adulti, che tornano indietro tramite sostanze – ma a volte senza neanche quel tramite – ad agire con le cose, e i corpi e le relazioni di adulti le disperate fantasie da cui sono venuti al mondo. Per queste fantasie i clinici hanno ancora poche soluzioni- come potrebbe scoprire La Gioia a leggere la letteratura su disturbi antisociali, – però ci potrebbe essere uno sguardo politico, uno sguardo sullo stato sull’economia e le istituzioni, su quanto il collettivo intervenga per proteggere i piccoli della specie.
(Un ulteriore pensiero arrabbiato mi è arrivato quando Lagioia racconta di se fuori del negozio di animali, che parla con una bambina. E’ un passaggio bellissimo, così come ce ne sono altri nel libro – quando parla per esempio di Donnarumma, mi viene in mente, o in altri momenti ancora. Perché una persona capace di questa gentilezza d’animo, di questa prosa, migliore delle sue prove precedenti, si è fermato? Perché è rimasto sulla soglia delle cose? Fin dall’inizio questo libro mi ha colpito e mi ha tenuta con se perché sentivo questo assetto emotivo. Sono questi gli assetti emotivi con cui bisogna parlare agli altri del male. Però davvero Lagioia, la prossima volta, non ti fermare.)