La metamorfosi della nostra posizione nel mondo. Su scienza, storia, cultura e divulgazione scientifica

  1. Da dove veniamo

Vorrei cominciare con alcune date.

1796 Jenner introduce il vaccino contro il vaiolo, primo vaccino della storia
1867 Lister pubblica su Lancet un articolo sull’antisepsi (la necessità di sterilizzare gli strumenti dei medici ospedalieri, e delle loro mani)
1928 nascita della penicillina e dei primi antibiotici

Ma ancora:

1886  Benz Patent Motoreagen mette la prima auto su strada.
1907 Alva Fisher inventa la lavatrice
1908 primo brevetto per l’aspirapolvere

Ma ancora

1877 la legge Casati impone in Italia la scuola dell’obbligo
1946 prima volta che in Italia si vota a suffragio universale
1970 legge sul divorzio in Italia
1978 legge sull’aborto
1978 istituzione definitiva del sistema sanitario nazionale.

Quando penso a quanto siamo cambiati, incredibilmente cambiati, nel giro di un paio di secoli – un secolo e mezzo, non mi stanco mai di provare una esagerata meraviglia. Soprattutto in quanto donna, e in quanto madre, sono esterrefatta di questo enorme cambiamento, e anzi quando posso, lo richiamo alla mente, perché questa manciata di decenni di privilegi, per me quasi cinquantenne occidentale, sono una bazzecola, un’inezia, rispetto alla distesa infinita di secoli, durante i quali a questa medesima età: o sarei senz’altro morta, o avrei svariati figli morti, e diversi figli malati, o sarei senz’altro malata io, e comunque malata e serenamente convinta di dover schiattare da un momento all’altro, malata di povertà, di fatica, di lavori, e del fatto che non contavo niente. Malata di assenza di ruolo giuridico, e di diritto politico. Malata dell’assenza di elettrodomestici e di giornali. Malata dell’assenza di automobili, e di vetture per salvare di corsa i miei figli malati. Malata di fidati di chi passa il convento e quindi malata di magie e di guaritori. Malata anche di ospedali dove non avevano per esempio ancora capito che se non disinfetti i bisturi ti muore il paziente. E infatti era più sicuro partorire a casa che in un ospedale. Dove ci rimanevi secca una volta su due per un’infezione contratta dalle mani del medico. Malata di assenza di anestesia fino ai primi del novecento. Malata di gente che scopre se ci hai un tumore, tastandoti la pancia. Tumore insomma, avanzato. Malata anche di acqua contaminata, che ti ammazza di colera dal rubinetto di casa, come accadde a Londra, nel 1854.

 Malata dell’oscura e filosofica corrispondenza dell’insignificanza dell’umano rispetto al grande potere del divino, che da sempre si correla con l’insignificanza del potere della scienza rispetto al disumano potere del fato. Guardo il passato, leggo di storia,  e dico, che tempo feroce ho scampato, il tempo dove la morte vince subito sopra ogni cosa. Dove battezzare i figli è onestamente, la più intelligente forma di prudenza. Dove pregare è più assennato che rivolgersi a un medico. Guardo il passato e penso: scampata a secoli in cui l’unica democrazia, non era quella politica, non era quella del sapere –  era quella della miseria. 

Oggi viviamo invece in quest’epoca meravigliosa e fortunata, almeno in questo cocuzzolo dell’occidente, e anche essere poverissimi, nel nostro beato cocuzzolo ha delle chance che duecento anni fa non erano pensabili, ma forse neanche cento. Dopotutto, anche nullatenenti se siamo portati in un pronto soccorso ci curano, e magari se ci devono operare ci fanno l’anestesia e si, prima disinfettano i bisturi. Non è che ora si stia tutti una favola, abbiamo ottimi motivi per arrabbiarci, ma ecco possiamo farlo, crediamo che ci spetti di diritto, e lottiamo, votiamo, combattiamo. Combattiamo per le case popolari, combattiamo per i posti in terapia intensiva, combattiamo per una nuova costellazione del possibile – in cui il ruolo di Dio è sospeso, rimandato, Dio tu per cortesia vieni dopo, ora dobbiamo pensare alla scuola pubblica.

Questo nuovo mondo, che abitiamo da poco prevede allora per sintetizzare, una serie di rivoluzioni: 
1. Che abbiamo un diritto all’istruzione
2. Che abbiamo un diritto di voto
3. Che dobbiamo lottare per un diritto alla casa 
4.(cosa molto sottovalutata) che abbiamo diritto a una libera vita privata. 
E correlato a doppio filo con questi diritti, nella genesi, nella storia e nelle prospettive possibili:

5. Che abbiamo un diritto alla salute.

Questo poter pensare al meglio, è germogliato da  tutte quelle date, ad altre ancora non citate,  e alle risorse economiche (parti delle quali dovute a una posizione geograficamente fortunata, metereologicamente fortunata, ma parte delle quali allo spietato colonialismo che ci ha fatto ingrassare) che hanno fatto da sostrato perché quelle scoperte, quei passaggi e quindi quei lussi del potere democratico fossero possibili.  Dovevamo passare tramite quella trasformazione economica e sociale per poter approdare al mondo di oggi e alla sua ambiziosa critica politica. Se fossi nata prima di questi due secoli magici, privilegiati e brillanti, dunque – non avrei pensato, questo volevo dire: né a contattare un medico, né a valutare la sua cura, men che mai a scegliere un medico, ancora meno a fare col bilancino la critica del metodo del medico. Prima di quei due secoli magici, sarei stata né più né meno, un’altra eroina di Ernesto De Martino.

Invece, l’insieme di questi nuovi meravigliosi diritti, prevede un nuovo modo di stare al mondo, elettrizzante, quanto enormemente faticoso, che riguarda la libertà d’azione e la consapevolezza giuridica inerente le nostre scelte.  Siamo costretti, per esercitare tutti i nostri diritti, a essere molto molto competenti e molto molto informati. Siamo molto più liberi e molto più responsabili, ma in aggiunta a questo dobbiamo essere mediamente, molto istruiti. Dobbiamo sapere un’infinità di cose. Questi infiniti saperi da tenere a mente, sono in primo luogo presenti alla madre, che diversamente da duecento anni fa, deve sapere cosa è bene per la salute psicologica del suo bambino, deve sapere molte cose di medicina quando interloquisce con i pediatri, deve firmare per esempio dei consensi informati, quando il minore subisce un trattamento.  Ma anche se la madre per dire compra una casa, è una valanga la quantità di cose che deve sapere, di edilizia, di giurisprudenza, di economia, sventare per esempio falle nel terreno, o ipoteche nascoste. E anche ad abitare la cosa pubblica, c’è anche una enormità di cose  che la madre, elettrice, deve sapere. Parlo della madre perché prima, essa in quanto donna non aveva, né sapere, né titolarità giuridica, e per quanto si sentisse responsabile dei suoi figli, aveva come principale mandato quello di affidarsi. Parlo di lei perché secondo me è la madre quella che dimostra in maniera più calzante la rotazione a cui siamo andati incontro. Ma è per efficacia retorica perché, madre o non madre, più si sanno cose, più si scopre che questi saperi non sono mai univoci, non sono mai un campo del tutto o nulla. Madre o non madre, padre o non padre, figlio o genitore, siamo dovuti entrare nel grande mondo dei saperi strutturati, nostro malgrado, delle ipotesi contrastanti, e del nuovo complicato regno della logica probabilistica, la grande regina del ventunesimo secolo.

 Oggi cioè essere adulti vuol dire: puoi pareggiare la battaglia della sfiga, calcolando le conseguenze con gli strumenti che ti offre il sapere. Più sai, più conseguenze calcoli. Non è come prima che non contavi un cazzo, morivi a 50 anni nella migliore delle ipotesi, e l’alternativa era tra pregare o meno. Ora è diverso: tuttavia le conseguenze sono molte e bisogna vedere quella che è probabilisticamente più conveniente per te, anticipare. La lotta alla sfiga per esempio nel campo della salute, il posticipare la morte, è diventato un compito complicatissimo, imparentato, correlato, per stile, e tecniche, ad altre lotte come quella al sopruso sul lavoro, come quella per l’affitto di una casa, come quella dell’azione politica: stiamo sempre a cercare informazioni per giocare d’anticipo.

  • Gerarchia del potere, necessità dei saperi avvento di internet. 

Prima dunque era tutta fortuna, oppure tutta religione. All’arrivo del potere e dei saperi,   abbiamo imparato ad affidarci alle gerarchie, nel lungo cinquantennio della piramide dei prestigi che è stato il primo segmento del ventesimo secolo, poi, con la critica di quelle gerarchie – quelle per cui per esempio se la madre era in ospedale, il medico parlava con il marito non con lei, sul da farsi del suo corpo– siamo entrati in questo nuovo e faticosissimo regno della titolarità del sapere, e dell’orientamento nelle probabilità delle diverse logiche che si mettono in campo. Oggi, anche quando ci affidiamo a dei tecnici – dallo psichiatra al gastroenterologo, dal commercialista all’avvocato – non riusciamo più neanche volendo, a delegarlo della pratica che ci riguarda, ma dobbiamo sapere, dobbiamo farci spiegare cosa farà del  corpo privato della nostra vita. E questo ci mette in crisi, e ci impone a nostra volta di avere delle competenze: quale psichiatra? Quale avvocato? Di cosa si occupa quello? E quell’altro?  Fino all’illuminismo, la culla intellettuale di questo nostro destino, eravamo incatenati a Dio. 
Ora siamo quelli incatenati al sapere.

L’incatenamento al sapere ha avuto poi un ulteriore e formidabile giro di vite con l’avvento di internet che ha saturato una domanda personale e una domanda culturale di competenze con una circolazione di informazioni, e una gratuità mai viste fino ad ora. Le bibliografie sono condivise, i saperi tecnici sono accessibili, così come le loro forme grottesche e difettuali. Tutto in una maxi piattaforma che è simultaneamente domestica ma sottilmente maligna, dal momento che non offre nessun dispositivo di aiuto per gerarchizzare le informazioni.  Nella decodifica delle fonti dell’utente, o esiste un beckground culturale – spesso purtroppo di classe – che aiuti a fare delle gerarchie oppure per l’utente finale non ì che ci sia molta differenza tra wikipedia e treccani. Non esiste ancora nelle scuole pubbliche una educazione alla valutazione delle fonti telematiche, alla pretesa di competenza, e internet è il posto in cui la democratizzazione delle informazioni mischia vantaggi e svantaggi per l’utente. 

In aggiunta a questo,  a margine, noto come, su internet la completa scotomizzazione del valore emotivo di certe scelte lessicali, del suo potere seduttivo, giochi a sfavore dei cittadini. E’ straniante constatare come l’uso dell’indicativo, l’uso di scelte lessicali incisive, l’esclusione di dubbi, un certo margine di indignazione, toni scandalizzati emotivamente carichi – siano emotivamente più attraenti, rassicuranti di modalità dubbiose, possibiliste, che tengano in conto di probabilità diverse. I primi sono più seduttivi, rassicuranti, avvertiti come caldi e conquistano un largo pubblico, salvo poi mettere l’utenza di fronte alla delusione dal momento che sistematicamente, qualsiasi sapere complesso, dalla medicina alla legge, dalla psicologia alle meteorologia, perfino l’ingegneria, tutto si gioca sulla valutazione di evenienze diverse. Per ogni indicativo garantito da un esperto in rete, ci sono molti ecco vedi? E ci si trova con utenti Tranquillizzati il giorno uno – che poi saranno delusi e sconfortati il giorno due.

 Vivere in ogni caso  – è diventato difficile. La democrazia è bellissima, ma è anche una specie di giungla, dove tutti sono a caccia di dati e di prognosi per la sussistenza.  E dove, per quanto ci sia questa rutilante ed egualitaria offerta di informazioni, non è altrettanto egualitaria la situazione del destinatario di quelle informazioni.  E questo delinea un nuovo problema. Tra gli anni cinquanta e la fine del novecento sapevamo almeno riconoscere chi meritava di avere prestigio e potere, era l’unica arma in dotazione quando si era poveri e fuori dai giochi. Oggi quella capacità sembra spesso perduta – il sapere è appiattito, e un criminale come Vannoni può fare quello che ha potuto fare.

  • Lo tzunami della pandemia, il deus ex machina del vaccino

In questa desolata maturità coattaè arrivato lo tzunami della pandemia, che ci ha esposto a tutti, nessuno escluso, a una nuova inedita esperienza per l’umanità, che non è certo quella della malattia, e manco della malattia globalizzata, ma l’esperienza di assistere tutti, in contemporanea, alla umana troppa umana vicenda della costruzione di quel sapere, che noi siamo oramai coartati a procurarci – e che il rischio di contagio ci ordina con veemenza. Da una parte ci avevamo il virus che a diverso titolo ci ha terrorizzati, dall’altra ci avevamo il comando – su procurati le informazioni su cosa la medicina dice di fare…. ma al momento di obbedire al nostro nuovo scintillante comando, scoprivamo in mondo visione che il comportamento di un virus non è una cosa che si stabilisce nel tempo in cui si legge un articolo, che ci sono diverse competenze in campo, che i medici sono umani, e possono essere vanitosi, che esiste un gradiente politico che nella gestione della medicina gioca un peso decisamente sottovalutato , che esistono addetti ai lavori che hanno un nevrotico bisogno di ottimismo, e altri che hanno un altrettanto nevrotico bisogno di catastrofe. Che esistono anche i medici famosi ma banalmente -cretini. La cosa comunque più spossante a cui tutti mi sono sembrati poco addestratiè stata scoprire che gli scienziati, o i medici, o i più competenti erano quelli che profilavano risposte diverse, diversi gradi di incertezza, diversi panorami. La scienza rivelava, contro ogni retorica autoritaria e seduttiva, la sua profonda natura democratica, il fatto di costruirsi per confronti e processi decisionali, , e per quanto noi ci fossimo allenati a recuperare saperi, e a destreggiarci tra autorevoli opinioni avverse, lo sciock è stato enorme – perché fino ad ora avevamo cercato e trovato il già conquistato, e quello è reperibile, mentre ora dovevamo stare a guardare la conquista: in pochi sapevamo che tutte le cose su cui abbiamo imparato a contare si erano sviluppate con gli stessi diverbi, le stesse lentezze, le stesse prove ed errori. Ma come, tuonavano persone anche piuttosto istruite sui social, ma prima l’oms dice una cosa poi cambia idea? Ma come il primario Ciccio Pasticcio dice una cosa, e il noto epidemiologo ne dice un’altra?? Come sono vanitosiii, come sono poco serii.
Ma erano solo umani, ed erano gli stessi umani di sempre.  La scienza la fanno gli uomini, e arriva a dei risultati che sono sempre transitori, disconfermabili, e ci arrivano con duelli, con errori anche, con strade fulminee ma spesso con fortunate strade sbagliate, con esperimenti da ripetere e con esperimenti da sprecare, a dirsi le cose e a negarsele. E in più questa situazione, scivolava nella epidemiologia, e nella medicina sociale: e dunque questi addetti ai lavori poi si trovavano a dire cose che rivelavano, le loro (in)competenze in tema di psicologia sociale, e la loro percezione dei diritti privati nelle cornici democratiche. Dobbiamo chiudere tutto – o non dobbiamo chiudere tutto, era una classe di proposte che per esempio teneva dentro di se un gradiente politico, eventualmente un gradiente di psicologia sociale, molto più potente del tema virologico. Eppure i virologi si sono spesso scatenati.
Chi avesse letto una buona storia della medicina, o di qualsiasi disciplina dalla psicologia alla chimica, dalla fisica alla matematica, potrebbe aver vissuto questa esperienza come un niente di nuovo.  Ma per moltissimi lo stupore e il biasimo è stato notevole.

In rapida successione, a medici, addetti ai lavori, epidemiologi che dicevano cose diverse l’uno dall’altro, è arrivato, in quattro e quattr’otto il vaccino, che mi pare sia caduto addosso alle persone come una sorta di doccia scozzese, che con la sua pazzesca rapidità ha polarizzato le reazioni. Le persone  – estenuate da un anno intero di malattia e paura della malattia, di guai di salute e conoscenti scomparsi, di economia falciata dalla pandemia, si sono divise tra coloro i quali vivono il vaccino con una sorta di fiducia messianica e coloro i quali, l’hanno guardato con prevenuto scetticismo. Una diversità di atteggiamenti che sarebbe interessante esplorare, e che penso affondi più che nelle competenze delle persone, nelle loro organizzazioni psicologiche e in ciò che maggiormente li tranquillizza. La mia bacheca facebook è stata popolata quanto da genti che dopo aver cazziato esperti di ogni foggia ha finalmente potuto dire evvivaaa mi fido della scienzaaa, se la scienza dice cosiii è verooo, a altri che invece dicevano, cazzo ve siete scannati fino a mo? Lilli lilli lalli lalli ora il vaccino? E io vi dovrei credere? Se ho appena esperito la democratica litigiosità delle competenze, come faccio a fidarmi del vaccino? Se ho appena esperito il cortocircuito tra economia, sguardo politico e medicina sociale, come posso essere sicuro che questo circuito non abbia forzato i tempi?

Il problema però è che la diffidenza verso il vaccino potrebbe diventare un importante questione di politica nazionale. E questo problema nazionale, potrebbe essere la prima edizione di altri problemi nazionali prossimi venturi, dal momento che questa epidemia di larga scala, è come è stato ampiamente spiegato un effetto dei cambiamenti dell’ecosistema provocati dall’uomo in congiuntura con la globalizzazione, e la mobilità sul pianeta. Presto o tardi dovremmo affrontare altre epidemie, da fronteggiare con procedimenti politici collettivi, non individualizzati.
Abbiamo bisogno di buoni scienziati, ma anche abbiamo bisogno di una solida cultura scientifica.

  • Ritorniamo alla nostra storia.

Nei giorni scorsi io, che mi mostravo attendista sul nuovo vaccino, ho cercato di raccogliere più informazioni possibili su cosa contenesse, come funzionasse, quali questioni rimanessero aperte, fisiologicamente legate ai brevissimi tempi di sperimentazione. La rete mi ha aiutata, ho trovato molte indicazioni interessanti. Ho consultato giornalisti scientifici, ho trovato schemi e raffigurazioni, e ho anche saputo che questo vaccino comunque è stato già inoculato a una enorme quantità di persone. Mi sono sentita incoraggiata e mi sento oggi più disponibile emotivamente a riceverlo. Le giornaliste che ho contattato Daniela Ovadia e Roberta Villa, che si occupano di comunicazione scientifica da tanto tempo mi hanno tranquillizzata proprio comunicandomi delle aperture e delle incertezze. Non ho avuto la sensazione di un sapere che mi nascondesse delle cose da temere, e di un piano di parità nella gestione di rischi che mi sono stati spiegati, nel dettaglio, come in linea di massima tollerabili. Mi sono avvantaggiata di una serie di particolari esoterici. Le mie interlocutrici sono state molto capaci e io le ringrazio. Ma ho potuto approfittarne anche perché la formazione di psicologo, prepara a una cultura scientifica molto di più di quanto si tenda a credere. Mai come in questo complicato 2020, sono stata grata ai miei esami di medicina, di genetica, di statistica, di analisi dei dati. Mi hanno dato un vocabolario con cui decodificare il reale. Quelle informazioni avute per obbligo, quasi per caso – faccio la psicoanalista, dopo tutto con la metodologia della ricerca scientifica ci faccio pochetto, figuriamoci con la composizione di una cellula – mi hanno messa nella posizione di potere stare dentro a un discorso pubblico sulla salute. Di poter capire che mrna, è una cosa e dna è un’altra. Di comprendere perchè il vaccino scovid19 poteva prendere le mosse dalla sars o dalla lotta ai tumori. Anche di capire perché potrebbe essere un rischio per me che ho una blanda patologia autoimmune, o perché potrebbe offrire una copertura inferiore alle aspettative. Anche tutti quei libri di storia della medicina che mi ero letta per il libro che stavo scrivendo, mi sono stati di aiuto. Non ho una grande cultura scientifica, me la sto facendo adesso perché mi sta appassionando e ne sento il potere politico – ma ecco, è come se mi fossi resa conto ora della sua enorme necessità.

La nostra coazione a procurarci sapere oggi, fisiologica al sofisticato grado di responsabilità che implica l’abitare in una democrazia ancora opulenta, si scontra infatti con una serie di problemi. Quanto siamo educati a procurarci quel sapere? Quanto siamo istruiti all’atto di diventare istruiti? Che peso ha nelle nostre scuole pubbliche l’istruzione scientifica? E ancora quanto quando studiamo scienze a scuola, o come dice saggiamente Chiara Valerio, matematica, studiamo la storia di quelle discipline? La storia di come la democrazia del sapere produce faticosamente i suoi assunti? La matematica è politica, dice Valerio nel suo piccolo bel libro, e tutta la scienza lo è, ma noi quanto siamo consapevoli di queste cose? A quanti di noi spiegano queste cose nella scuola dell’obbligo? Quanto siamo preparati, ad affrontare la nostra vita di pazienti di medici, di genitori di bambini che devono avere delle cure, di cittadini che devono valutare un progetto di medicina sociale? Quanti di quelli che smetteranno le medie e andranno a lavorare, oppure si laureeranno in legge, o in economia, o in storia dell’arte? Quanti commessi dei negozi dove compriamo le cose, iscritti come noi nel momento storico del dover sapere le cose, sono stati messi nelle condizioni di procurarsele?  E che ne so, i camerieri nei ristoranti? Il discorso è forte per chi ha smesso di studiare presto, dopo le scuole dell’obbligo e gli istituti commerciali – ma a dialogare con diversi avvocati o commercialisti non è che va tanto meglio. Io per esempio, se mi fermavo alla laurea in filosofia, con tutte le scuole per bene, e la famiglia borghese intellettuale – non so se sarei stata in grado. E anche con il dopo, mi sono messa a cercare.

Dopo di che c’è un secondo problema che arriva con internet. Internet si diceva democratizza il sapere, e non offre discrimini su ciò che affidabile e ciò che non lo è, e anche a proposito di questo la scuola ancora latita. Lo disse Umberto Eco, e mi pare che stiamo ancora li: non si insegna a gerarchizzare le fonti. Ma c’è un altro sinistro problema, che è stato l’effetto di internet sui media e sulla carta stampata.  Internet ha tolto potere e soldi e priorità alla carta stampata mettendo in crisi la filiera tradizionale dell’informazione. L’immediata accessibilità a dei dati, anche se spesso e volentieri non validati, la gratuità, ha scalzato la stampa e la televisione dalla centralità di cui hanno goduto per tutto il novecento. (Resiste forse meglio la radio, questo è fascinoso, perché la radio vince sugli altri e persino sulla rete, per un piano di praticità, la puoi ascoltare lavorando con le mani e con gli occhi). La risposta dell’informazione è stata allora tarata su una competizione incardinata sulla brevità e sulla accessibilità. Crisanti fa un’ intervista di poche righe, tutti capiscono che è contro il vaccino, se magari l’intervista era di due pagine, le persone capivano qualcosa di meglio. Un settimanale di utilità sociale pazzesca come Specchio, che è uscito con La Stampa dal 1996 al 2009, e che riusciva a fare una divulgazione intelligente, dettagliata, quasi con dei tentativi di fare dei numeri monotematici di un tabloid generalista, quella cosa li non si vede più. 
Abbiamo cioè imparato a chiedere, ma trovare le risposte è arduo, spesso non sappiamo chiedere bene, spesso l’atto di chiedere è demonizzato, e insomma abbiamo un sacco di problemi. Qualcuno, nel casino, si convince anche di cose sbagliate.

Nel miscuglio della rete, arrivano anche delle soluzioni. Internet e i social soprattutto, hanno spinto avanti una comunicazione circolare tra soggetti competenti, e fruitori competenti, interlocutoria, dialogica, democratica. Trovare quelli più bravi non è facile, e c’è quel vizio di partenza dell’essere poco addestrati a individuare le competenze, ma non è raro il caso di imbattersi in uno stilema divulgativo nuovo, lessicalmente più accessibile delle produzioni per addetti ai lavoro, ma di un livello più alto, di quello che mediamente si considera opportuno per le persone che si vogliono informare. Quel tipo di divulgazione sta portando a una serie di prodotti editoriali di qualità che sono molto utili, e politicamente più efficaci della demonizzazione delle domande anche mal poste. Io penso che quel tipo di divulgazione, sia una strada da perseguire, per ogni dove, mentre credo che la demonizzazione dell’assenza di strumenti, delle domande lecite, anche delle posizioni avverse, così come la pretesa che le persone tornino ad affidarsi alle autorità sia una posizione controproducente. 
Siamo incatenati al sapere, ma politicamente dobbiamo porci il problema di sapercelo conquistare

Messaggio nella bottiglia

A un certo punto, quando ho capito che te ne saresti andata Silvana, ho pensato che non sarei riuscita a scrivere niente. Non avrei messo sul blog nessun saluto, come ho fatto da poco quando se ne è andato il Secco, come quando se ne è andata la mia amica Lucia, come quando se ne è andato mio padre – pure. Pensavo che non sarei riuscita perché con nessuna di queste persone parlavo come con te, uno dice tu’ padre, ma mi padre non parlava con nessuno Silvana, con me comunque no di sicuro, è facile fare letteratura con chi si sente moderatamente vicino, mica che è una letteratura disonesta, affatto, che poi letteratura che esagerazione, vabbeh se semo capite, pensavo queste cose, di quando scrivo perché le strade sono percorribili, o scrivo perché sono ancora da percorrere. Mio padre, o, gli amori inesausti o. 
Mio padre era vecchio, e molto malato, il Secco era il secco, si poteva fare. 

Sai a cosa penso sempre questi giorni?
A quella volta che eravamo in macchina tua, abbiamo visto la macchina di Francesco, e l’abbiamo inseguita per la campagna, per il paese, ammazza quanto corre e che ci ha il fuoco al culo, giù a strombazzare col clacson,  dai raggiungiamolo! Dai! E poi la macchina era arrivata sulla piazzola ed è uscita una povera donna inviperita, MA CHE VOLETEEEEE, IO NON HO CAPITO CHE VOLETEE e noi ci siamo avvedute che era una signora incontrovertibilmente signora, i capelli lisci lunghi, gli occhiali con gli strass, lei urlava, e noi piegate in due dal ridere, NOOO NON E’ FRANCESCOOO, ahò ma non l’hai vista che ci aveva i capelli lunghi pure te, e giù a ridere – mbeh ma mora era mora.  Che esaggerata comunque eh e mamma mia, e di nuovo ridere.
Il cancro se ne era andato per qualche tempo.

Oppure all’ombrellone quando andavamo insieme al lago.
L’ombrellone nostro: arcipelago, costellazione, galassia, ideologia.  Stavamo spalmate sulle sdraio, spalmate e accessoriate e disordinate, molti tipi di pizzette – tu portavi sempre un parterre di pizzette, sai mai che le creature nevvero, anche qualche pietanza leggera, adatta alla circostanza, che so una rigatoni col sugo di lepre, molti teli, molte sciarpe, molti costumi, su questi teli e i costumi facevamo dei concistori, i giornali, creme solari, barbie sirena, pallone da calcio,  molti libri anche, perché questa era la cosa figa Silvana, che noi leggevamo le stesse cose, ci scambiavamo i titoli, ci giravamo i romanzi.

 Una cosa che un po’ mi allevia queste ore, è che all’ospedale ti avevo mandato dei libri che facevano ridere, non come quei tremendi mattoni che una già sta come sta,   che non ci ha un rene, ci ha la trachea tagliata, non se tiene in piedi, Diomadonna almeno i libri che fanno ridere.
(Quella strana miscela di umorismo nero, umorismo volgare, umorismo gentile, quel potere della franchezza. Venni in ospedale dopo i libri, quella volta, poi sei uscita eh abbiamo fatto tante cose, però dico quella volta abbiamo pianto insieme un po’, c’era questa tua gentilissima amica, QUI E’ PROIBITO PIANGERE mi disse, e provai tenerezza per lei.
 Noi ci guardammo, non siamo gente che si dice cazzate –ci potevamo ben permettere di essere amare. 
Era tornato, era cattivo.)

Un’altra cosa che penso, è il fatto che dovunque andassimo, dovunque porca mignotta, ci stava gente che te saltava al collo. Succedevano queste cose.  Che ne so vai al bar ci sta n’amico de tuo figlio che dice aaaaah c’è Silvana, e ti paga il caffè. Vai al lago e ci sta un altro non si sa bene che, collega, operaio romeno, baby sitter di vent’anni prima, che dice, ti riporto a casa, ti porto questo ti faccio quello. In ospedale, ci avevi una turnazione di amiche che ho sospettato superasse le trenta unità. C’era una tabella eh l’ho vista: coi quadratini e gli orari. In vent’anni che ti conosco, ho passato più tempo a conoscere amiche tue che  a bere caffè. Amiche tue parrucchiere, amiche tue colleghe, amiche tue daa forestale, amiche tue che fanno la tv, amiche tue cor fratello al gabbio. Plotoni di amiche e amici tuoi – a cena nei ristoranti, a cena nelle pizzerie, a cena a casa tua.  O promesse amiche tue. Devo farti conoscere st’amica mia, fa delle borse bellissime.
Mi hai regalato diversi vestiti, per il fatto che ci piacevano le stesse cose. 

(E sapevi che per me questa cosa dei libri, dei vestiti, del ridere in quel modo anarchico, sguaiato, questa cosa dell’ombrellone dico per me, la tua amica psicanalista ebrea in mezzo ai contadini,  era un porto in una terra straniera. ) 

Non ce lo dicevamo mai, di questa convergenza estetica in una terra straniera, la tigna vanitosa e anarchica sopra i doveri quotidiani, del supermercato con le ciabatte, dell’alimentari e del benzinaro, delle olive e dei funghi di tuo marito – di cui ti giuro, avremo cura – o anzi ce lo dicevamo, per esempio quando studiavamo cosa metterci, elegantissime SIAMAAAAI, vestitini multistrato blu ottanio e grigio perla, rigorose collane lunghe e nere, scarpe con tacchi grossi e incomprensibili, andavamo così alla sagra della salsiccia, a quella della nocciola,  ovunque si potesse  mangiare e fare gestacci, andavamo noi bardate come per un concerto, per un vernissage, per la presentazione di un libro – posti la cui spocchia avremmo preso a iconoclastiche fucilate. Dove in effetti no, non siamo mai andate.
Che cojoni.

(E mi pento, di non essere venuta al primo ospedale, al primo intervento, all’esordio del cancro, quando piratesca e leggendaria giravi per le corsie con la nuova camicia da notte verde, la vestaglia verde, lo smalto verde  – verde è il colore della speranza professore  –
E un romanzo di Houellebecq.
Dovevamo dar retta al romanzo di Houellebecq? Oggi saremmo meno tristi?  Trattavamo questi nostri scrittori preferiti come i figli difficili, i figli sfortunati della vita altrui, noi invece ci saremmo ancora divertite un sacco, dopo quel primo ricovero. Meno male che li stimiamo tanto, questi scrittori dolorosi,  ma con l’intelligenza del senso materno, non li prendiamo troppo sul serio.)

In ogni caso, adesso Silvana mia, ci sarà sto problema complicato di tutto sto amore che hai lasciato, tutte ste tavolate vuote, tutti sti amici che mi guarderanno cogli occhi lucidi, non so come si farà davvero.  Uno dice, eh sono stato fortunato a conoscerla. Facile a dirsi, so stato fortunato a conoscerla. Mi lasci ste gatte da pelare Silvana mia, per non parlare dei miei bambini, i miei bambini che dovevano fare ogni compleanno con te, zia Silvanaaa, e mandarti i video a te, e  che ancora raccontano con il senso dell’epopea e del magico, quando sono venuti a casa tua, a dormire. La tenda in giardino! Lo zainetto con  le palme! E naturalmente, le pizzette. 

(Dei tuoi, non ti devi preoccupare, son due bronzi di Riace belli forti con il tuo senso del bene del male e del piacere.  Li  lasci pronti per il mondo.
Ci vediamo tipo in macchina, che andiamo da qualche parte. )