Premessa di rito. Mi piace guardare il festival di Sanremo, per un motivo celebrale, e per un motivo di semplice piacere. Il semplice piacere, dello spettacolo, della canzonetta, del rito familiare – vederlo davanti alla tivvù sbracati per terra, con i piatti sparsi sul tappeto commentando tra noi e con gli amici – è il motivo principale, ma insieme c’è anche la sensazione di avere davanti un prodotto culturale importante, un sogno collettivo, una narrazione privata della nazione, che mi da il termometro delle cose, che mi da l’idea di come stiamo noi tutti, che risorse abbiamo e quali sintomi. Allo sguardo dell’antropologo e dello psicologo sociale Sanremo è un ‘occasione di diagnosi. E per questo guardo sempre con perplessità la supponenza intellettuale con cui è liquidato. Chi parla male del festival di Sanremo sempre e comunque, è un po’ come quelli che parlano male degli insegnanti, dei medici, e insomma le varie forme di nevrosi qualunquista che ci avvelenano il dibattito pubblico, ma che se vengono dall’alto sono meno decodificabili. (Va beh cose note queste, ma che mi andava di dire).
Sanremo, allora per me è come avere il paese sulla poltrona davanti a me, la poltrona delle prime sedute, e mi riporta all’obbligo per cui, anche quando sento la depressione forte, i sintomi pervasivi, come è stato quest’anno, mi sento di dover rilevare anche le risorse e le cose belle, e i significati buoni, che ci sono stati anche quest’anno.
Questo Festival arriva in un momento di grave crisi. La pandemia ancora infuria, e nel suo lungo perdurare, che porta per un verso malattie e lutti, per un altro preoccupazioni economiche e di sussistenza, per un altro ancora la preclusione a molti piaceri e consolazioni, è attraversata da collettive speranze catartiche regolarmente disattese. Il sogno di catarsi dell’estate scorsa si è infranto contro la delusione di settembre, la catarsi dei vaccini si sta scontrando con la fatica materiale di produrne a sufficienza per un pianeta intero, e nel nostro piccolo nazionale, già l’eburneo Draghi sta rivelando la sua natura mortale e troppo mortale – e liberale troppo liberale – rivelandosi costretto a fare molte delle stesse cose del governo precedente. Qualcuno va su Marte, si spera che torni con l’elisir di salvezza, ma non succede, non succede: e stiamo qui a volte in cassaintegrazione, a volte in permesso non retribuito con i figli insofferenti che fanno la didattica a distanza, spesso con un parente in terapia intensiva, spesso con un lutto che non si è potuto neanche celebrare, un morto che non si è potuto salutare.
Nonostante la mia modestissima stima nei confronti di Amadeus, ho provato una certa empatia perfino una sorta di tenerezza, nel constatare quanto lui stesso si sentisse sopraffatto dalla situazione del paese, quanto lui stesso mi sembrasse sapere di non avere le energie per dare una risposta emotiva e carismatica a questa situazione, men che mai una risposta creativa. Amadeus è stato il direttore sbagliato al momento sbagliato, anche se ci ha messo tutto il suo impegno e tutta la sua indubbia professionalità: è un uomo di spettacolo, che sa rispettare tempi scenici, che sa gestire le emergenze, che sa fare quelle cose di mestiere che bisogna saper apprezzare e ricercare, ma che non sono sufficienti. Perché allo stesso tempo, invece ha due carenze strutturali, una grave nella circostanza e l’altra grave in assoluto.
Amadeus non è neanche blandamente carismatico, non è un domatore di folle. Volendo è una cosa buona perché in tempi di pace potrebbe essere il ritratto del presentatore che mette i riflettori sui cantanti, anziché su di se, che illumina chi ha accanto anziché se stesso. Ma senza platea, con il paese così, ci voleva una voce più forte, più seduttiva, e mettere la rotazione delle conduzioni, in modo da relativizzare chi gli stava accanto e farlo spiccare un po’ di più – una scelta di narcisismo poraccista – non è servito a molto. Anche prendersi Fiorello accanto per lo humour, non ha funzionato granché, la maggior parte delle gag che hanno fatto erano state ampiamente sfruttate in altri programmi, le conoscevamo tutte, ma proprio tutte, e ci hanno tristemente annoiato: Fiorello aveva già fatto lo show sul sesso degli animali, aveva anche spesso ironizzato sui bambini e i genitori, tutto era triste e super visto.
Ma la cosa che ho trovato più autolesionista e patologica è stata l’ideologia reazionaria e provinciale di fondo che ha permeato tutta la parte non musicale del festival: Amadeus è stato come l’anno scorso serenamente maschilista, ha invitato donne che confermassero quel maschilismo e che si sono prestate in modo imbarazzante – la Palombelli mi ha ricordato un po’ quei lavoratori neri che si fanno fotografare con Salvini – la Venezi povera donna non ne parliamo, una direttrice d’orchestra che si presta a fare la vallettina da cabaret – e a rendere la situazione ancora più deprimente, l’autoironia da vecchi fuori del bar sport in paesotto di provincia sulle critiche da parte delle eventuali minoranze, o sulle intemperanze di Achille Lauro. Questa cosa doveva essere simpatica ma è stata la vera mazzata finale: era come se Amadeus e Fiorello dicessero in continuazione, siamo vecchi, siamo du poracci, che ci volete fa ste cose non le capiamo.
In quel momento però erano sul palcoscenico simbolico del paese. Era come se ci dicessero che al nostro meglio noi abbiamo nient’altro che due pensionatucci provinciali privi di fantasia, due nonnetti che hanno i nipoti che non capiscono e non possono aiutare. Davvero, insostenibile. La gag di loro che cantano con la parrucca siamo donne, per dire, è stata una delle cose più tristi e desolanti che la televisione italiana abbia mai prodotto. Per me è stato un po’ come quando sentendo di Maio ti scoprivi a piangere pensando ad Andreotti: io in qualche serata mi sono ritrovata a concepire pensieri impuri su Baudo e Bonolis
(Cose piccole da Sehnsucht baudiana: Baudo che allarga le braccia grandi ed è come se abbracciasse il pubblico da casa, lo incoraggiasse. Baudo che si bacia a Benigni e fa la gag con Benigni, non ride del gioco di confusione di genere, e delgioco sull’orientamento sessuale. Ride con il gioco.
Baudo il nostro Achille Lauro, l’avrebbe retto molto meglio. Baudo la corona di spine per non farsi sbaciucchiare, non l’avrebbe messa.)
In compenso ho trovato il podio e i vertici della classifica una semantica piena di risorse. Il grosso della selezione dei cantanti in gara ha previsto: giovani trapper, di modesta ambizione con canzoncine che miravano a una onesta orecchiabilità, alcune variamente ben fatte, poche voci femminili di grandissimo valore sacrificate in brani di cortissimo raggio: così Arisa, così Madame, così Annalisa, e poi un drappello di formazioni in duo o in gruppo che invece portavano una differenza sostanziale, energetica, simbolica, creativa, erotica. Hanno vinto i Maneskin, e questa cosa mi ha fatto molto piacere, perché insomma è stato davvero un po’ come vedere questo paziente in consultazione per una diagnosi, che mi dice tutte quelle cose tristone e vecchie e appannate della conduzione e poi tira fuori questa cosa di se rifulgente – la canzone zitti e buoni, la sua performance: energetica, brillante, e con il coraggio di tenere la scena, di dire IO POSSO, IO VOGLIO, di suonare bene, di cantare forte, di arrangiare bene, di non usare l’autotune che Dio lo fulmini a tutti una volta per sempre, il coraggio di una carnalità esibita vivaddio dei ragazzini di cui puoi sperare che fuori Sanremo non mangino sedani e yogourt magri, ragazzini che a vent’anni ci hanno voglia di urlare e di scopare, una boccata di vita in questo oceano pandemico costretto alla deerotizzazione dei rapporti, alle distanze obbligate, alle mascherine, e alla diffidenza. Così come sono stata contenta di vedere in alto Fedez e Michelin (anche se non mi hanno entusiasmato) e al quarto posto Di Martino e Colapesce (che invece ho trovato elegantissimi e fantastici) perché entrambi incarnavano un progetto complesso, un tenere la scena, un fare spettacolo. Facevano coreografie azzeccate, provavano a portare in scena un mondo, un fare qualcosa che andasse un po’ oltre il frignare impotente che invece diverse canzoni in solitaria mi hanno sostanzialmente evocato. Ho trovato esteticamente azzeccatissima oltre la stessa canzone, l’idea di Colapesce e Di Martino di portare la pattinatrice a rotelle, così divertente, vitale, e filologicamente corretta, Ho trovato i contrappunti di Fedez e Michelin qualcosa di più pensato oltre che sentito, qualcosa che avesse voglia di comunicare un si può fare vero, non come quella farsa di se stesso che ha messo in campo max gazzè. Infine, questa cosa che ha rimesso in scena Lauro, sulla semantica del femminile addosso al maschile provocatorio, che passa dalle rose nella pancia e arriva ai Maneskin che si abbracciano teneroni Fedez e Michelin, mi ha dato un innegabile botta di ottimismo.
Dunque il festival di quest’anno mi ha dato questa diagnosi del paese. Abbiamo un grande problema perché affidiamo la leadership morale della nostra industria culturale e del nostro pensare collettivo a qualcosa che riconosciamo e che si riconosce come vecchio, stanco, superato, inadeguato, e questa roba è alla guida del festival come del resto del paese. E’ nei punti nevralgici di tre quarti (giudizio a spanne) della nostra industria culturale, è nelle leadership dei nostri partiti. E una cosa grave nella pandemia, ma non è nata con la pandemia, è nata prima già il festival precedente ne aveva dato dolorosi segnali. Scivoliamo in questa desolazione da una ventina d’anni, sempre più. Tuttavia questa leadership mesta e provinciale, non arriva a soffocare le risorse possibili, non ha come dire quella testarda cattiveria, quella forza distruttiva, non sempre e sicuramente non su questo palco: è inadeguata forse, ma leale, in un certo modo onesta. Non capisce, ma da spazio. Prende in giro Achille Lauro – l’alfiere di questa generazione della riflessione sul genere, ogni generazione ci ha la sua, e la reductio ad nonno lascia il tempo che trova – ma lo ospita cinque sere, non ci capisce niente ma arruola i Maneskin e quelli vincono. Quello che voglio dire è, stiamo nella merda, ma abbiamo spazio energia erotismo e progetto per fare cose belle. Viva viva viva il festival di Sanremo e tutti tutti quelli che ce lo tengono in vita, e che con i loro mezzi, con i loro errori, con la loro buona fede lo tengono in piedi. Compreso Amadeus.
La migliore analisi del festival che io abbia letto finora. Grazie
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