Ritorno sulla PAS

A ritmo regolare torna nel dibattito pubblico il tema della PAS, la sindrome di alienazione parentale teorizzata da Gardner, su cui ho scritto altre volte, in questo blog . Ora per esempio se ne parla perché la cassazione ha fermato l’iter di un processo che ha separato una bimba dalla madre, e perché la sottosegretaria all’economia Maria Cecilia Guerra si è dichiarata soddisfatta della decisione del tribunale, come potete leggere qui.
Il tema è incandescente perché intreccia diverse questioni e mutamenti culturali, e la questione diventa ancora più incandescente per questa complicata circostanza di fronte a cui si trovano gli addetti ai lavori, i quali da una parte rilevano che la PAS si riferisce a un comportamento che a loro è capitato di osservare e neanche troppo raramente, ma lo strumento teorico con cui attualmente è descritta è assolutamente inadeguato, vergognoso, antiscientifico, e ideologicamente orientato. E’ come aver bisogno di una macchina e averne in dotazione una rotta. Ma per questioni culturali a molti la macchina rotta fa comodo. Altri sono costretti invece, in buona fede, a servirsi di quella che c’è.

Intanto che cosa è la PAS?
Grossolanamente si inferisce l’esistenza della sindrome di alienazione parentale, quando si ritiene che un minore si rifiuta di avere contatti con uno dei due genitori, perché manipolato dall’altro, e non per dei sentimenti e decisioni sue. A pensarci bene, questo tipo di circostanza non dovrebbe stupirci molto – perché tutti siamo consapevoli del fatto che esistono a tutti livelli forme di manipolazione a cui ci è capitato di assistere, anche senza che di mezzo ci sia un minorenne, svariati campi relazionali dove una persona che esercita un’influenza su un’altra, maggiore rispetto ad altre eventualmente presenti in quel dato contesto e che è capace di determinarne le opinioni. Ancora meno stupisce se pensiamo a cosa mediamente sappiamo delle separazioni con minori. La separazione con minori  rappresenta un evento doloroso per qualsiasi sistema familiare, la rottura di qualcosa che era cominciato insieme, di un progetto che si era incarnato nei figli, e che non ha funzionato. Rappresenta anche, in seconda battuta, un cambiamento nell’organizzazione economica della vita molto costosa, costosa empiricamente per entrambe le parti in causa, perché prima c’era una casa e ora ce ne devono essere due. Rappresenta infine, in terza battuta, un cambiamento emotivamente doloroso, empiricamente costoso dove si presenteranno di nuovo le modalità della divisione dei ruoli nella coppia, e bisognerà pensare a questa divisione dei ruoli – senza il vecchio appoggio reciproco della casa condivisa. Ora nella mia esperienza quotidiana constato come per esempio, questa successione di eventi porti il reiterato comportamento maschile per cui, vuoi per necessità oggettive, vuoi per questioni emotive e soggettive: spesso il padre non passa i giusti alimenti alla partner, non osserva i piani concordati del tribunale, sovente neanche per quel che concerne le visite. Questi sono i comportamenti patogeni a carico della coppia più frequentemente imputati ai padri – e che io mi trovo reiteratamente a osservare. Hanno per conto mio una forte ricaduta psicologica, sono sintomo di qualcosa, e hanno capacità patogena. 
Non li ritengo però meritevoli di diagnosi psichiatrica, quanto invece di sacrosanta attenzione giuridica.

Parimenti, il comportamento del genitore che parla sempre male al figlio dell’altro genitore, o che si mostra sempre arrabbiata e sofferente per i comportamenti del padre dinnanzi gli occhi del figlio, mi pare un comportamento frequente, maggiormente a carico delle madri, nella maggior parte dei casi non scientemente pensato e voluto, ma comunque capace di aggravare una situazione psicologica per un minore che giudico sintomatico e che genera delle strategie adattive, a loro volta problematiche per il minore, ma che non possono meritare, da sole, il titolo di diagnosi.
La Pas cioè è per me: il comportamento di risposta di un minore come reazione a un sistema familiare compromesso a diverse altezze e in diversi comportamenti, che per quanto mini il benessere del bambino – ma bisogna vedere da che punto di vista – non può vantare il titolo di diagnosi psichiatrica, mentre dovrebbe essere giustamente preso in considerazione e operazionalizzato sotto il profilo giuridico, senza però scomodare la psichiatria.

La questione oggi, nel nostro paese, è molto problematica perché cade in un momento di trasformazione rallentata della famiglia italiana, sulla quale gravano sguardi politici. Da una parte abbiamo un cambiamento che io considero un miglioramento: i padri sono molto più coinvolti nella vita dei figli, sentono identitario il loro doversi occupare di loro, e rivendicano dei diritti emotivi. Non è sempre stato così, e se il maschilismo è quello sguardo politico che assume che le donne sono le regine delle relazioni nella casa e gli uomini i sovrani delle relazioni fuori della casa, l’incrinarsi del maschilismo va con le donne che vanno a lavorare e gli uomini che cominciano a voler avere titolo sulle relazioni domestiche, più di quanto accadesse in passato. Quello che però rende tutto molto difficile è che non esiste alcun provvedimento politico serio che aiuti le famiglie e che riconosca queste difficoltà, per cui di fatto sti figli sono ancora molto sulle spalle delle madri, da un punto di vista economico e gestionale – buttate un occhio sui costi del nido per fare un esempio. Dall’altra però il vecchio sguardo maschilista in certi processi e in certi tribunali ci mette un suo carico, e considera la gestione dei figli in certi processi una battaglia di posizionamento, che si fa strumentalizzare dalle patologie dei due separati, e a questo fine si cerca di spacciare per PAS ciò che PAS non è -ammesso e non concesso che sia lecito chiamarla in causa. Per esempio un minore che abbia assistito a comportamenti gravemente violenti del padre verso la madre – qui i clinici parlano di “violenza assistita” che per un bambino è un abuso altrettanto grave della violenza subita – decide di non voler vedere più il padre, di averne paura, e il tentativo dei periti di parte è quello di spacciare questa decisione per l’esito di una manipolazione, quando magari ci sono stati degli schiaffoni, o delle litigate molto violente. E dunque non è che il minore ha cambiato idea sull’altro genitore sulla scorta di quello che la madre gli ha detto il minore ha quell’idea di quel genitore sulla scorta di quello che il padre gli ha fatto.

E’ dunque opportuno in questi casi che i periti di parte facciano una diagnosi precisa sul minore – e su tutto il sistema familiare.

Ma è vero che esiste il caso di una famiglia dove, non ci sono stati comportamenti davvero violenti, non c’è davvero una grave incuria paterna, ma il minore non vuole comunque avere rapporti con il padre. Può esistere il caso di un minore che racconti anche di aver subito violenze che invece non ha subito, è una situazione moderatamente frequente – mi è capitato di occuparmene in diverse occasioni. In tutte queste occasioni un accurata anamnesi sul giovane, una certa attenzione alle sue modalità relazionali mi ha aiutata a farmi un’idea, ossia: a formulare una diagnosi differenziale, o meglio a spostarmi da una falsa diagnosi. Purtroppo infatti quando i bambini subiscono abusi e assistono a gravi violenze non è tanto quello che raccontano a essere dirimente, ma il come lo fanno, come funzionano. Uno zelante racconto che accusa il papà non è probante di niente – la diangosi si formula in base ad altre variabili che riguardano i meccanismi difensivi che utilizza, la coerenza del racconto, e altre questioni che ci porterebbero lontano, perché quando la violenza entra connota in modo stabile purtroppo il comportamento. 

Il fatto però che il minore dichiari di non voler vedere il padre, perché influenzato dal parere della madre, o dall’aver visto le emozioni negative della madre parlando del padre, non è secondo me una diagnosi a se stante. Quando in psichiatria decidiamo infatti di formulare una diagnosi noi ci riferiamo a un insieme di comportamenti, duraturo, disfunzionale, applicato a diversi contesti, e che coinvolge l’intera personalità del soggetto preso in esame.  Una diangosi non riguarda il comportamento verso UNA persona.  Verso UNA circostanza. Una diagnosi riguarda un comportamento che ritorna in svariate circostanze. In psicologia tutte i comportamenti che osserviamo hanno una funzione, diventano sintomo quando sono reiterati in diversi contesti. Per capirci: è psichiatricamente rilevante un bambino che mente sempre, un bambino che asseconda il parere di tutti, un bambino che è oppositivo con tutti. Non capisco perché debba essere psichiatricamente meritevole di diagnosi un comportamento che invece è adattivo a un contesto, dal momento che per esempio, il bambino in questione magari vive con la madre, la madre è importante per lui, e quindi per lui è importante non entrare in conflitto anche dentro di se con lei. Alla lunga questo può portare per il minore, ad altri problemi – a una costellazione diagnostica di comportamenti cioè disfunzionali, anche fuori dal nucleo familiare, ma non è che il comportamento in quella specifica circostanza possa di già erigersi al livello di diagnosi stabile.
Altrimenti, avete idea di quante cose potremmo chiamare patologia? Quanti microcomportamenti oppositivi?

Quello che si chiama PAS, è per me la risposta adattiva di un minore a una patologia di un sistema familiare, per cui quello che si dovrebbe fare, probabilmente inventando un etichetta diagnostica più calzante e molto meglio circostanziata, è fare una diagnosi del sistema familiare compromesso con espliciti criteri di diagnosi differenziale dalle famiglie in cui c’è stato abuso, o abuso assistito. Forse si può pensare, in ambito forense di utilizzare il costrutto in termini giuridici – non so come – volendo circoscrivere un comportamento che determina uno squilibrio. Ma trovo davvero fuori luogo, antiscientifico, e inappropriato inventare una diagnosi a carico del minore, sfruttando il potere stigmatizzante che di fatto hanno da sempre le diagnosi, e sottovalutando il potere che può avere nella vita futura del ragazzo o della ragazza l’etichetta di menzogna psichiatrica nella sua carriera esistenziale.  Molto più utile fare un discorso a carico dell’intero sistema familiare. Se è vero che la PAS è una risposta, infatti, bisogna vedere a quali domande risponde.


Scrittori impegnati contro l’impegno. Su Walter Siti.


Ho appena finito di leggere un lungo e come al solito bello e ricco libro di Walter Siti, che raccoglie una serie di saggi sulla scrittura e sul romanzo negli ultimi vent’anni. E’ un libro che preliminarmente ha due meriti di metodo: mette insieme un’analisi di come la crisi del sistema editoriale abbia portato a una involuzione delle nostre complessità linguistiche a tutte le altezze, assolutamente condivisibile, e mette in pratica quel modo di scrivere di persone e in questo caso di autori che è sempre gentile, rispettoso anche quando in questo caso pone loro delle critiche – il che rende la lettura più fruibile in profondità e più distensiva. 

Questo post nasce dalla bizzarra esperienza di condividere un libro in buona parte dei passaggi interni, in un discorso di metodo e di critica letteraria come dell’industria culturale, per contestarne premesse e conseguenze, sentendo però come tutto il bellissimo discorso nasca da una prospettiva monca, troppo centrata su un piatto della bilancia. 
Il libro si chiama Contro l’impegno e spiega con dovizia di esempi come funziona la letteratura per illuminare quanto l’impegno eventualmente la intossichi. Sulle urgenze dell’impegno invece c’è totale assenza di consapevolezza, di riflessione, di pensiero. E questa è la perdita di una occasione. Oltre che un assist clamoroso a tutti i reazionari dell’industria culturale che troveranno in Siti un prestigioso commilitone. 

La tesi portante del libro riguarda la crisi dell’industria culturale. Siti spiega molto bene come l’avvento di internet per un verso, l’evoluzione del linguaggio dei media  per un altro il tutto calato nelle vicende stanche e deludenti delle nostre democrazie occidentali, sotto scacco per un verso ma con poca energia reattiva dal basso per un altro, abbiano portato a un impoverimento del tipo di proposte editoriali che vediamo circolare, impoverimento che però Siti circostanzia in modo molto puntuale, e di cui ricostruisce una precisa genealogia. Sono molto avvincenti i passaggi di sociologia culturale con cui si racconta questa metamorfosi linguistica e di come sia arrivata a investire la produzione letteraria. 
In primo luogo, spiega Siti l’avvento di internet e dei social ha imposto una nuovo stile nello scambio tra soggetti e nell’acquisizione delle informazioni, che è divenuto dilagante per la sua gratuità e per la sua pervasività – tutti oggi abbiamo uno smartphone, e concorrenziale rispetto la vecchia trasmissione dei contenuti,  per cui le vecchie agenzie, stampa, media editoria hanno cominciato ad adeguarsi ai nuovi sistemi linguistici di comunicazione, premiando sempre di più la capacità di arrivare, l’efficacia a discapito della capacità di interpretare conferire senso. Per ottenere l’efficacia si deve ridurre la polisemia, e rinunciando alla ricerca di senso, si cade nella perdita di ambivalenza. 

In secondo luogo – ma poi i rivoli concettuali abbondano –  Siti racconta di come sia nato un proficuo flirt tra giornalismo e romanzo, e di come nella mutua frequentazione e attrazione questi due oggetti culturali queste due modalità di trasmissione di contenuto abbiano generato una sorta di figlio ibrido che è il reportage narrativizzato, o anche il romanzo che si costruisce su una serie di dati acquisiti drenati dall’esperienza del giornalismo di inchiesta. Ne nasce diciamo un oggetto terzo, non di rado intriso di un ingaggio morale di cui Siti riconosce e loda anche l’autenticità, ma che capisce per me parzialmente, e che ritiene responsabile dell’impoverimento delle narrazioni proposte. La tesi del libro sta in questo passaggio ma anche la sua debolezza concettuale. Il libro critica la nuova letteratura impegnata, considerando l’impegno come un sintomo dell’impoverimento del linguaggio. (“Temo che il neoimpegno sia soltanto il sintomo di una mutazione genetica che sta proprio cambiando il rapporto con le parole”)  – ossia arriva forte e chiaro il fatto che Siti non coglie l’esistenza di una agenzia psichica e sociale concorrenziale alla letteratura, concorrenziale alla logica estetica, che ha (per me crede di avere, ma lo vedremo dopo) una sua agenda di priorità autonoma dalle urgenze della  scrittura letteraria, e dove in cima c’è l’urgenza è l’agire politico. L’agire politico non è un sintomo dell’azione della scrittura. Piuttosto, per le persone che hanno forte dentro di se l’urgenza dell’atto politico, la scrittura è uno dei mezzi possibili da utilizzare.  Uno come Christian Raimo, che fa l’assessore municipale, va in televisione a sbattersi per gli immigrati, in piazza per l’inceneritore della spazzatura che impesta l’aria delle periferie, che lavora come professore di lettere, quando scrive riparare il mondo, ha in testa delle urgenze di azione politica che non possono essere ricondotte alla trasformazione in atto del meccanismo editoriale. Forse quella trasformazione ha performato il suo atto linguistico? Non lo so, non ne sono sicura – ho la sensazione che Siti non perdoni certi entusiasmi politici ai contemporanei che invece sono sempre stati presenti nella logica manichea del pamphlet, le cui regole retoriche non sono state inventate da Murgia e soci. Ma quand’anche la statura polisemica del pamphlet fosse radicalmente peggiorata in questi ultimi vent’anni, rimane il fatto che di solito chi li scrive ha tante altre cose per la testa, cose politiche desideri radicali di azione su persone e cose, che affiancano e non germogliano dal lavoro di scrittura. Nascono fuori dalla scrittura.

Questo totale disconoscimento dell’agenzia politica come movente intorno all’oggetto libro, fa perdere di vista, completamente,  la ratio della questione dell’impegno, la ratio di quel pulviscolo di eventi dal basso che oggi il dibattito pubblico costella sotto l’etichetta di cancel culture, altro fenomeno che Siti costella qui in maniera per me piuttosto sbrigativa e deludente rispetto ai suoi standard diagnostici, come affiliato al tema della semplificazione concettuale. Probabilmente questo deriva anche a causa delle critiche ingenue che hanno subito i suoi libri, e che io stessa non ho sottoscritto – ma da cui sento che lui si difende in modo inappropriato. Siti rimprovera alla nuova generazione di lettori, ed eventualmente di detrattori di cercare nella letteratura argomenti confortanti, che legittimino la necessità di lavorare per un mondo migliore, ma questa necessità, secondo lui non può essere assecondata da una letteratura che si incarichi di portare alla luce degli aspetti d’ombra, le ambivalenze, le aree del negativo, dove c’è il bene e dove c’è il male.  E’ come se si Siti pensasse davvero che la ricerca di senso e di polisemia che è il suo mandato culturale faccia finire di perdere un piano etico e politico, ottunda una gerarchia valoriale in un testo prodotto.  Ma soprattutto appare evidente che per Siti, le persone leggano i libri solo per piacere della lettura, per la sacra istanza di quel tipo di esplorazione che garantisce la conoscenza tramite forma letteraria – e qui secondo me lui, e buona parte dei critici che reagiscono a lui,  e alla cancel culture, si perde qualcosa di importante.

Esiste un modo di guardare i prodotti culturali assolutamente laico, e fortemente impermeabile alla qualità dei testi sotto il profilo letterario, questo è per esempio il modo dello sguardo politico. Lo sguardo politico non ha sovrani, non ha totem da proteggere, se ne frega delle lettere maiuscole sulla testa dei poeti: lo sguardo politico prende gli oggetti che hanno un’efficacia simbolica, politica a loro volta, e li esamina per la gerarchia valoriale che da essi traluce. Per questo sguardo un pezzo di Vittorio Feltri e i passaggi di un Celine -anche se bisogna riconoscere a Feltri consistenti doti di mestiere – sono la stessa zuppa. Oggetti simbolici che si possono guardare principalmente per l’orizzonte etico che propongono e per l’effetto politico che hanno.  Specie in nord America, dove ancora fioccano i motivi per guardare avanti e con soddisfazione anziché santificare i lari del passato con rimpianto, è fortissimo questo atteggiamento laico verso il mondo intellettuale, forse di più attraversato da una sorta di rivalsa edipica verso gli eroi del vecchio mondo da detronizzare. Mentre ai nostri intellettuali criticare un oggetto culturale del passato per delle questioni ideologiche è emotivamente sacrilego, e sempre ringraziamo i numi della correttezza filologica e della storicizzazione delle idee, è almeno dagli anni 60’ del secolo scorso che genti come Harold Bloom  – il Siti del novecento – si stracciano le vesti per quanta dissacrazione politica neri, femministe e quant’altro hanno portato nel dibattito della critica letteraria.  Oggi quel tipo di critica, tutta politica e molto poco estetica, ha ripreso quota, e se vogliamo chiederci perché, forse parlando di impegno come sintomo del linguaggio impoverito non rispondiamo in modo accurato.


A un certo punto del libro Siti allude al costrutto di lettore implicito di Wolfang Iser. Il lettore implicito, è cioè quel tipo di lettore che ogni scrittore ha in mente leggerà le sue cose. Siti racconta che se una sua amica professoressa dovesse spiegare dei versi largamente misogini di Leopardi alla sua classe di studenti spiegherebbe il concetto di lettore implicito. Al tempo di Leopardi tutti pensavano queste cose, Leopardi compreso, e quindi implicitamente aveva in testa quel modo di pensare.

Io penso però che il lettore implicito di Leopardi era, un uomo. Lo era perché gli uomini leggevano di più delle donne all’epoca, e lo era perché le donne non avevano voce in capitolo nella sfera produttiva e politica del paese. Quando nei testi ci sono passaggi discriminatori a proposito di donne o migranti, o omosessuali, o neri o ebrei, il lettore implicito di chi scrive non appartiene mai a nessuno di questi gruppi, e per molto tempo, questo è accaduto perché tutte queste categorie non avevano rilevanza prima giuridica e poi economica nella piattaforma pubblica. Ora la questione non è solo come dice Simonetti, su Tuttolibri che oggi devi ricordarti che il grosso dei lettori sono donne, ma ricordarti il fatto che se sono donne è anche perché il loro statuto giuridico è cambiato dai tempi di Leopardi, e anche la loro partecipazione alla vita pubblica. Vale per le donne, vale per i neri, vale per gli omosessuali e per tutti gli altri. Questo vuol dire che essi devono per forza diventare un lettore implicito di qualcuno, essendo diventati i lettori materiali, devono smettere di essere complemento di argomento ma chiedono di essere destinatari. Non sono più quello di cui si parla con i lettori forti, sono i lettori forti. Quello che voglio dire è che ci sono parti sociali che prima erano fuori delle logiche produttive, ora ci sono dentro, hanno un titolo hanno segreterie di Stato e presidenti degli stati uniti, non ti puoi stupire se a processo avviato e parità però non conseguita non si incazzino, e non ti usino a te Siti, come può capitare a chiunque altro scrittore di essere usato, esclusivamente come oggetto politico. Fino a che si parla dei fenomeni intorno alla cancel culture, soltanto in termini di onta per le sacre lettere, si perderanno punti, e si faranno figure deludenti, e Siti – come capiterà nei prossimi giorni – farà la gioia di tutti i recensori più reazionari che abbiamo sulla piazza.
Purtroppo dobbiamo poter parlare male dei froci – è la ricerca di senso che ce lo chiede!

In realtà io penso che si possano e debbano dire altre cose.
All’inizio del libro, Siti dice una cosa che mi piace molto. Dice: la letteratura è un modo di conoscere la realtà non surrogabile ad altri tipi di conoscenza. E’ una cosa molto giusta e ci fa tifare per il vecchio partito della ricerca di senso, contro il nuovo partito dell’efficacia. Ci fa dire che hai ragione tu Siti, è più importante capire le cose in fondo mettendo in campo le antipatiche ambivalenze, l’ombra dove c’è la luce, e la luce dove c’è l’ombra. Le Lolite di Nabokov ci servono come il pane, così come ci servono i libri tuoi quando parli di pedofili e di cronaca nera, o di periferie. Ora esiste un godimento puramente spirituale, e conoscitivo e fine a stesso molto bello, nella fruizione letteraria, ma io devo dire che l’uso politico dell’oggetto libro, o l’uso edificante dell’oggetto libro per me è una cosa assolutamente pacifica. Da soggetto politico nel mondo – soggetto politico che per esempio sogna di implementare una certa rete di servizi in aree meno servite della città, da soggetto politico che insegna a scuola e cerca di mettere i suoi studenti nella condizione di saper pensare criticamente alle cose, per non parlare del soggetto politico psicoanalista che usa, si usa, i libri per lavorare a un atto di emancipazione dei suoi assistiti, tutti questi soggetti, cosa se ne fanno dei libricini consolatori degli ultimi vent’anni? Delle storie edificanti? Come lavoriamo nei servizi sociali Siti, se ci raccontano che gli immigrati sono tutti buoni? Come lavoro io con i miei pazienti Siti, se non sopporto che Lolita vuole sedurre Humbert Humbert? Come guariscono i pazienti, se non sopportano questa cosa di Lolita? 

L’ambivalenza, la ricerca di senso sono atti politici, passaggi necessari da attraversare per concepire una qualsiasi azione trasformativa al di fuori dei libri. E i libri di Siti tra i più militanti di cui mi sia servita nella mia vita di cives.