Le terapie a orientamento analitico 2. guarire, in che senso?

Forse l’esperienza del Covid ci aiuterà ameno in questo, a entrare in un modello di cura medica un po’ meno ingenuo. Ma sostanzialmente la nostra aspettativa quando abbiamo un problema fisico, si attiene al modello del dentista: dottore, mi fa male un dente, me lo tolga. 
Il sogno di tutti noi, è che ci fanno le analisi, ci vedono il problema, ce lo eliminano. Anche se i nostri organi sono interconnessi gli uni con gli altri, anche se non si possono sempre levare con disinvoltura, anche se sono iscritti nell’esperienza storica del nostro corpo, dottore mi levi questo dente.
Questo modello mentale di cura, torna ancora relativamente spesso nelle domande di psicoterapia. Magari non è esplicitato, però è spesso silenziosamente implicito nella testa del paziente.

Viene da pensare che si tratti di una posizione ingenua – ma in realtà ha intrecci politici da non sottovalutare. In certi termini abbiamo infatti un fronte che ha un sapere per le mani vissuto come capace di liberare, e un fronte di chi ha un problema da cui sente di aver bisogno di essere liberato per il quale diviene subalterno e dipendente da chi ha quel sapere. Fare una diagnosi e togliere il dente subito, è una garanzia del fatto che quell’asimmetria tra i due soggetti è molto modesta, non ci sono abusi, durerà poco, c’è chiarezza. Ma se il titolare del sapere dice che la diagnosi non è formulabile immediatamente, che il rimedio lo vediamo in itinere, che quanto ci si metterà non si sa, e come sarà dopo manco, c’è quanto meno un rischio fortissimo che salti un piano di accordo e che arrivi anche a torto, un concetto semplice, l’abuso del potere la dilatazione del potere. 

Per questo per quanto mi concerne, ma è una pratica che oramai è condivisa dalla maggior parte dei terapeuti anche a orientamento psicodinamico, io dopo un piccolo numero di sedute, cerco di restituire una diagnosi, di dire alla persona assistita quali sono le aree di intervento almeno iniziale e di spiegare il perché teorico del come mai c’è questa incertezza. Faccio cioè un noioso discorso di come è un sapere da vicino quando si avvicina a un problema complesso e multifattoriale, e questa mi sembra una buona base di partenza. In questo modo, anche se non posso togliere il dente subito, lavoreremo insieme con più profitto e senza quella sgradevole sensazione dell’analista che sa cose che io non so. All’uopo faccio delle specifiche per cui ricordo cosa vuol dire, aver scelto una analista junghiana piuttosto che un cognitivista o un sistemico relazionale. 

Una seconda cosa che fanno molti psicoterapeuti a indirizzo psicodinamico, è restringere il più possibile la diagnosi psichiatrica, che è una diagnosi sui deficit e sui malfunzionamenti per allargarsi invece sulla diagnosi delle risorse. La diagnosi psichiatrica per un verso è per l’appunto democratica, afferisce a un linguaggio universale e condiviso, in uso anche presso tribunali e sedi giudiziarie, ma ha il difetto di indicare la porta di una gabbia che poi tende a chiudersi dietro le spalle. Ci si appiccica a una etichetta di malfunzionamento che diventa stigma e alibi e impedisce i miglioramenti, sono depresso. Lo stesso terapeuta non può tenersi solo quella, e deve fare, anche per se stesso una diagnosi sulle doti del paziente, e su quello che vede di positivo e che spesso è anche coartato. 
La diagnosi sulle risorse indica cioè che c’è una gabbia ma indica la porta aperta.

Con questa doppia diagnosi in mente – sui sintomi e sulle capacità – ci si può chiedere lucidamente dove porti l’intervento migliorativo delle psicoterapie psicodinamiche.

Nella mia esperienza le persone si orientano su due grandi classi di risposte. Alcuni fanno pernio su un cambiamento nella loro percezione di se e della vita. Non mi accetto e imparo ad accettarmi, altri pensano ancora più in grande e semplicemente e romanticamente dicono: voglio avere una vita felice, voglio essere in armonia con le cose.

Questo tipo di immaginario è pratico e orientativo e fa capo a delle cose per un certo verso realistiche. E’ vero che si va in terapia con dei problemi concreti, è vero che si arriva con una percezione distorta di se e della vita, ed è vero che le varie psicopatologie costringono a un certo tipo specifico di infelicità. Questa polarità però genera secondo me delle pericolose confusioni perché in realtà è scollata da quello che è la vita per davvero. Siamo sicuri che accettarsi come siamo equivalga a stare bene? Accettarsi in termini estremi, non può voler dire anche abdicare? Non imparare più? Non è messa così anche un atto estremo di resa, o di presunzione rispetto alle possibilità di continua metamorfosi che la vita ci pone? E il corpo altrettanto? Siamo sicuri poi che stare bene vuol dire essere felici? In terapia capitano spessissimo invece persone che in fondo soffrono perché non riescono a dolersi quando devono. Soffrono del non soffrire. 
La vita è una merda per il semplice fatto che finisce, e finisce male. Muoiono le persone intorno a noi, loro malgrado, siamo esposti alla vertigine della fortuna. Lavori che se ne vanno, matrimoni che devono rompersi, malattie che incalzano. Anche quando a noi ci va bene, davvero stare bene vuol dire essere felici? Non dobbiamo per ricordare Freud, imparare a sopportare di essere infelici?

Nel dettaglio la questione assume coloriture particolari pensando agli assetti valoriali. Tutti sono convinti che la psicoterapia debba servire, ad accettarsi, o appunto a essere felici. Ma con quali azioni e pensieri deve combaciare questo? Sottili questioni culturali e ideologiche si insinuano in questo ordine di ipotesi. Se uno non si sposa e continua a fare il muratore nonostante la laurea prestigiosa, sta bene, o per noi stava bene se si sposava finalmente metteva su famiglia e ci aveva un impieg?. O al contrario, è liberata la casalinga devota al marito che rimane a casa? E ancora. Quanto nella nostra idea di miglioramento psichico c’è il benessere e la capacità di stare con gli altri, e quanto la compiacenza e l’incastro con le patologie degli altri? Si è molto ben disposti a vedere la patologia in chi non funziona socialmente, mentre il leader carismatico della cui angoscia di morte e di abbandono beneficiano le masse, se finalmente decide di curarsi è un narcisista che vive nel lusso, nel senso deteriore del termine. E ancora scelte ideologiche, religiose di campo, incidono nell’idea di benessere?

In realtà un buon psicoterapeuta, di qualsiasi orientamento, e quindi anche psicodinamico – in primo luogo si è allenato duramente, a suon di lezioni e supervisioni su una prospettiva laica. La prospettiva laica è quella cosa per cui il tuo obbiettivo è far funzionare meglio quella persona, liberando quelle risorse che hai individuato, nell’esercizio identitario e culturale di se, e che sarà moderatamente instabile, e relativamente vulnerabile alle aggressioni della vita, ma di tuo non sanzioni niente, non ti scandalizzi di niente, tutto quel che ti è raccontato ha un senso in quel contesto. Soprattutto moralmente e politicamente. Ci potranno anche essere delle scelte secondarie dovute a certi importanti insight – cambiare lavoro, allontanarsi da un certo tipo di frequentazioni – ma di fondo è come se si volesse il più possibile lavorare sulla viabilità dei percorsi a prescindere dalle città.  La tua ideale idea di miglioramento è che il traffico psichico di questa persona debba viaggiare fluidamente a prescindere dagli arredi urbani. Se cambieranno gli arredi urbani sarà l’esito di sue esigenze, non di tuoi pensieri a monte. E anche se tendenzialmente per via dell’esperienza che si accumula e delle situazioni che ritornano il terapeuta immagina possibili alcuni cambiamenti negli oggetti e non negli stili, quelli non stanno a priori nella sua testa, o non sono presi sul serio. Al terapeuta interessa prima di tutto migliorare il modo di vivere le cose e operare le scelte.

La metafora della viabilità negli arredi mentali, la metafora della mente come città di ricordi e di progetti, ci aiuta a capire lo specifico di una diagnosi psicoanalitica e di un’idea di miglioramento e di guarigione ideale nel contesto della psicologia dinamica. Questa metafora è adatta a tutti gli orientamenti psicoterapeutici, a tutte le scuole, solo che ogni orientamento privilegerà un certo tipo di ostacoli e intoppi nel traffico della città della mente. O ne penserà una diversa soluzione. Gli psicologi di marca cognitivista lavorano molto sui processi logici della coscienza, e liberano il traffico lavorando sulla viabilità di certe sezioni del pensiero che vengono analizzate da vicino volta per volta, anche con successo. I sistemico relazionali lavorano sugli intoppi del traffico nei sistemi familiari, nei giochi di equilibri, e nei funzionamenti relazionali. Le diverse scuole a orientamento psicodinamico ritengono che molti di questi incidenti e crolli che impediscono la viabilità del traffico della mente, dei ricordi dei progetti e degli scambi relazionali, abbiano però cause da collocare in luoghi non immediatamente riconoscibili cioè non proprio sulle strade, ma in parti secondarie, nel passato dei loro pazienti e nell’inconscio dei loro pazienti. Possiamo visualizzare l’inconscio dei pazienti come l’interno degli appartamenti che stanno nei palazzi delle vie in cui circola il nostro traffico mentale.

A questo punto se io ora scrivo che la diagnosi psicoanalitica equivale a cercare di capire cosa c’è negli appartamenti e a farlo uscire per poi rimetterlo dentro un po’ più fruibile e ordinato e meno patologico, cominciamo a capire come lavora la psicoterapia a orientamento analitico. I sogni e le associazioni di primo grado, come molte cose che racconta il paziente a questo tipo di terapeuta sono finestre aperte dentro quelle case, sono in qualche caso portoni aperti dove si riesce a entrare. Questo vuol dire che dopo un po’ di tempo, alla diagnosi sulle risorse e alla diagnosi psichiatrica si aggiunge una terza diagnosi, che è una diagnosi analitica e che tiene in considerazione cosa si riesce a vedere negli appartamenti. Di solito prima che l’analista la formuli  – almeno a se stesso – servono diversi mesi. Non basta un sogno, e manco due – servono delle ricorrenze, nei sogni e nei racconti e negli incidenti stradali che racconta il paziente. Servono molti molti racconti, che vengono poi come messi su un pentagramma, del passato del paziente.  Nell’idea della terapia a orientamento analitico, il passato dalle retrovie dell’inconscio agisce sul modo di funzionare del presente, provocando in vari modi degli incidenti. 

Quando la diagnosi analitica è possibile, quella viene comunicata al paziente che per altro l’ha cocostruita insieme al suo terapeuta e si comincia a lavorare riconoscendo i meccanismi che sono l’epifenomeno di vecchi modelli relazionali, soluzioni di compromesso a fantasmi persecutori – la casistica è infinita. Migliorare e guarire vuol dire allora analiticamente molte cose: per un verso, quello classico, vuol dire riconoscere le vecchie dinamiche per cambiarle, come dire cambiare strada e sceglierne un’altra, ma anche chiudere quella finestra da cui una donna sta vociando distraendo gli automobilisti e provocando l’incidente. Ma a volte vuol dire anche vedersele sparire da dentro senza uno specifico sforzo della volontà – può voler anche dire scoprire delle cose belle in altri palazzi che mai si credeva di avere, e utilizzarle per muoversi nel traffico della vita e della mente. Se analisti e cognitivisti o analisti e sistemico relazionali concordano quindi su una diagnosi funzionale, o una diagnosi psichiatrica, possono avere pareri diversi su questa diagnosi diversa e quindi interpretare in modo diverso il concetto di guarigione o di benessere. Personalmente, io mantengo molto il mio arsenale analitico per sentire il sapore di un grande miglioramento, di una guarigione e di una possibile conclusione di terapia: lo stato di salute della città mentale dei miei pazienti mi arriva non solo da come funzionano, ma sempre da come sono cambiati i loro sogni – perché un’analisi che funziona, cambia l’arredo delle case, cambia i sogni.   Non solo da quello che fanno ma anche da una serie di cose che dicono, non solo dal modo di raccontare il futuro, ma moltissimo dal modo di raccontare il passato. Cambia il modo di pensare le strade psichiche e di progettarle.

Questo perché la psicopatologia, non è soltanto un problema delle azioni, anche se è giustamente considerato in primo luogo un problema delle azioni, la psicopatologia è un problema degli assetti emotivi e mentali che guardano a ciò che è avvenuto e a ciò che avverrà, è una patologia cioè dell’interpretazione. Tanto più la patologia è grave, tanto più le possibilità di interpretazione del reale sono modeste, vincolate a esperienze passate, scollegate dalle potenzialità del reale, dalla sua molteplicità. Più si sta male più si uniforma l’esperienza del reale, e questo produce problemi. 

Come questo cambiamento avvenga, ossia come cura nel dettaglio la terapia psicoanalitica, è oggetto del prossimo post.

Riflessioni post Palombelli

Quando lavoravo nei centri antiviolenza mi confrontavo con uno spettro relativamente ampio di combinazioni di coppia nella violenza di genere. Quello che in testa aveva la Palombelli, e che è tipico di chi vuole farsi domandi psicologiche senza approfondire gli argomenti di cui parla, riguarda penso il modello di relazione che chiameremo “guerra dei roses” dove a una violenza fisica maschile corrisponde una violenza verbale femminile. Dove lei dice cose affilate, cattive, sfidanti e lui alla fine alza le mani. Questo tipo di coppia che spesso è molto disfunzionale quanto duratura, solo però in minima parte porta al femminicidio. Per una questione di funzionamento psicologico della relazione: quel tipo di diadi mettono l’uno nell’altro un’eredità cattiva e la fanno agire, in un campo che è fortemente sessualizzato. Sono vite complicate, dolorose, che espongono i figli a traumi duraturi, ma che intrecciano a qualcosa di mortifero qualcosa di tremendamente vitale e erotizzato. Si rimpallano qualcosa di perverso. Non vogliono ucciderlo, e quando dico non vogliono, affondo fino alla determinazione inconscia, piuttosto vogliono torturarlo.

Quando invece nei centri arrivava la donna a rischio di femminicidio, noi ce ne accorgevamo immediatamente. La maggior parte delle donne che vi si rivolgeva aveva subito episodi di aggressione fisica, ma il rischio di morte si segnalava per diverse vie. Come struttura caratteriale le donne in quell’area di pericolo non mostravano una particolare psicologia provocatoria e sfidante, tutt’altro. Sottomesse per una necessità conservativa a una serie di minacce vivevano in una modalità come a velocità ridotta per non sollecitare la determinazione all’annientamento del nucleo psicotico del partner – parlare a voce bassa, uscire solo quando lo dice lui, fare quello che dice lui. Sia il partner che chiamiamo guerra dei roses che quello potenziale femminicida dicono  io ti ammazzo  ma nel primo rimane qualcosa di perverso ed erotico che nel secondo è invece totalmente thanatos e morte. Nelle vicende della potenziale vittima di violenza si avvertono i segni della promessa di morte, di una volontà psicotica di annientamento che ha qualcosa di delirante e di allucinato – che nel controluce dello sguardo analitico combacia con un desiderio di incorporazione, di divoramento. Per quanto le strutture logiche del potenziale omicida siano intatte, tralucono le allucinazioni quasi di marca psicotica. Quando riuscivamo a trovare posto nel centro per ospitare queste donne, e malauguratamente capitava che le rintracciassero – poteva capitare, se la Palombelli volesse un esempio edificante, che ci venisse recapitata la foto di un gattino sgozzato, a significare cosa il partner voleva fare alla donna. 

Va anche segnalato, che questi nuclei patologici non esplodono con queste famose donne indipendenti e provocatorie, perché vogliono fare le cose tipiche delle donne della società emancipata. Questi nuclei patologici esplodono quando le donne fanno le cose delle donne, in maniera libera e ordinaria: per esempio fare un bambino. La violenza di genere con questa connotazione mortifera emerge spesso alla prima gravidanza. Oppure sono come dire vitali nel modo sereno delle donne ordinarie. Mi colpiva nei racconti delle donne che dovevamo proteggere, questa determinazione a uccidere un vitalismo semplice e ordinario. Non la minigonna provocatoria, ma il caffè con la vicina di casa. Non l’uscire e tornare alle due di notte, ma l’andare a pulire i cessi per pagare la bolletta.  

Così come mi colpiva a riprova della potente radice patologica dell’intenzione omicida, l’impermeabilità alle leggi dell’uomo. Le ordinanze non vengono rispettate, le decisioni dei tribunali sono carta straccia, e se c’è una cosa pericolosa che ci trovavamo a spiegare alle donne, mai andare alla polizia per fare denuncia e tornare a casa, la polizia è antagonista, e per il maschio violento sapere della denuncia un acceleratore del climax di morte. A una donna che seguivo fu ficcato un coltello da cucina nel naso, per essere andata. 
Magari anche questo rientra nel campo dell’esasperazione della Palombelli.

Personalmente, da clinico, avverto un forte gradiente psichiatrico nei soggetti che compiono questi reati. Questo gradiente psichiatrico però è un oggetto strano, non è una grandezza fissa – e si allarga e si restringe a seconda delle circostanze contestuali. In certi contesti di ceto classe e geografia, il sostegno culturale è relativamente basso, e quindi il caso è poco sollecitato. Il femminicidio nell’alta borghesia persino colta si da, io pure ho avuto a che fare con una situazione del genere, ma è statisticamente più raro dei casi in cui c’è un potente rinforzo culturale nella cornice socio economica: per esempio media o piccola borghesia, se non proprio situazioni di povertà in zone a bassa istruzione dove il comportamento maschilista aperto e plateale è più incoraggiato socialmente, e diventa anche una valvola di sfogo per frustrazioni e depressioni di vario ordine e grado. Questo avviene anche perché esiste una specie di rinforzo sociologico alle situazioni patologiche secondo la psicologia dinamica: maschi borderline oggi hanno avuto madri che ieri avevano per esempio: un marito disoccupato, soltanto un nido privato, nessun centro di igene mentale nelle vicinanze, nessun assegno familiare, nessuna rete familiare, e magari al posto di queste cose – una dipendenza da sostanze. La psicopatologia è un dono cattivo che si tramanda per generazioni con l’ausilio del contesto.  Questo vale naturalmente in modo ancora più pervasivo per il primo caso che di cui ho parlato delle coppie dove c’è violenza di genere senza che esiti in femminicidio.

La questione culturale però rimane nella decodifica degli eventi. Esiste una psicodinamica delle reazioni violente che è fondamentalmente laica rispetto alle costruzioni culturali, ma lo sguardo delle persone e quindi le risorse pratiche a cui si può attingere sono cognitivamente distorte dalla cornice ideologica sessista. Palombelli è solo l’ultima di una lunga fila di signore con la gonna a pieghe, uomini o donne che siano, che apre bocca in totale buona fede e dice le frescacce che avrebbe detto qualsiasi tassinaro e qualsiasi casalinga della bassa, ma che li per li si ammantano dell’autorevolezza giornalistica e soprattutto di classe. Per quanto mi concerne, si tratta della versione sciura dei Gramellini e dei Serra. Garantiti da una competenza lessicale, e da una performance di elite anche politica, che esprimono opinioni senza che venga il bizzarro pensiero di approfondire l’argomento trattato, e che siccome hanno visto i belli film di Kieslowski, o una volta hanno fatto tre domande a un condannato all’ergastolo, si sentono titolati a farneticare stereotipi culturali su temi che invece hanno delle connotazioni specifiche. In effetti, Palombelli dibatte più raramente sui reati concussione, fateci caso. 

Questa questione non so quanto è grave, e non so se sia lecito l’esposto all’ordine dei giornalisti nei suoi confronti. Mi importa poco di Palombelli. E’ un signora che va in tivvu per mettersi i vestiti carini. Il mio problema è che la cornice ideologica con cascami maschilisti, avvelena la possibilità delle risorse pratiche: i soldi ai centri antiviolenza, gli spazi materiali per i centri antiviolenza, i progetti di screening nelle scuole per individuare precocemente le patologie a rischio, i concorsi per gli addetti ai lavori che dovrebbero offrire copertura nei servizi territoriali, e via di seguito. Ogni volta che si minimizza l’omicidio considerandolo la normale reazione a un comportamento disturbante, al di la dell’incongruenza logica e della plateale castroneria psicologica, si dice che non ha alcun senso sostenere una politica attenta alla violenza di genere con provvedimenti ad hoc, perché si incastrano gli episodi in una distorsione banalizzata del reale, il cui assunto di fondo è che la signora per evitare di essere ammazzata deve chiedere alla Palombelli come serve il marito a tavola a cena.

Ci penserei.

Le terapie a orientamento analitico. 1 le premesse generali

Le persone che lavorano nella vasta galassia delle psicoterapie, o nella comunque vasta galassia delle psicoterapie a orientamento analitico, si cimentano con un mondo di utenti che per un verso è molto progredito in termini di cultura psicologica, ma al cui interno ancora sopravvivono preconcetti e teorie che rispondono molto poco al mondo materiale delle cure, non solo mondo delle teorie, delle prassi, dei metodi, ma anche mondo dei contesti sociali e di classe.  Certamente per un verso il bisogno di cura psicologica è stato sdoganato e legittimato, così come la lettura psicologica dei fatti sociali e quotidiani una chiave decisamente più adottata oggi di quanto accadesse un tempo, ma forse per il ruolo che hanno le narrazioni culturali  su questi argomenti – dalle vignette ai film, dalle serie agli articoli sulle riviste – vige ancora una confusione molto datata. Mi accorgo per esempio che nell’opinione pubblica anche colta esiste “la psicoanalisi” e poi una serie di psicoterapie non meglio specificate. A volte ci si spinge a sapere l’esistenza dei cognitivisti, quando ci si va con tutta la famiglia si scoprono i familiaristi in particolare sistemico relazionali, dopo di che il nulla. Permane la fascinosa distinzione tra junghiani e freudiani, e per molti  – anche se la formazione junghiana è in realtà la più lunga di tutte e la più severa di tutte per ore di formazione personale addizionali alla didattica – gli junghiani sono i pazzerelli poetici dell’inconscio collettivo.
Questa distinzione in genere è operata pensando ai costrutti. Freud e i suoi sono quelli che ci hanno la fissa del sesso,  e dell’edipo. Jung invece appunto gli archetipi e le cose esoteriche e misteriose. 
Per quanto riguarda i metodi più che altro nella percezione collettiva comunque sono tutti psicoanalisti e bisogna andarci spesso, tipo due volte a settimana, e ci si stende sul lettino.

Il primo clichè di cui dobbiamo occuparci è questo: Freud è l’archeologia, la base di un albero di teorie della grande famiglia psicodinamica, di cui lo junghismo è un ramo certamente tra i più frondosi, ma non l’unico. Dopo di lui sono venuti molti clinici che hanno prodotto nuove teorie e nuove modalità di intervento che oggi sono utilizzati dagli psicoanalisti e dagli psicoterapeuti a orientamento analitico – per fare alcuni esempi, io credo che non esista analista di qualsiasi orientamento che non abbia ben chiaro in testa tutto il pensiero di Melanie Klein, non credo che ci sia analista che per esempio lavori con gli adolescenti che non pensi a Erikson o a un Winnicott. Tuttavia è bene specificare: quando noi parliamo di psicoanalisi il riferimento preciso è un setting di minimo tre volte a settimana, sul lettino, secondo un impianto teorico preciso con un’analista per esempio molto silenzioso per una scelta di metodo che ha profonde radici deontologiche ed epistemologiche, con conseguenze importanti e non meramente “atmosferiche”. Per noi analisti junghiani – che ci chiamiamo psicologi analisti – un’analisi junghiana prevede due sedute a settimana, volendo anche tre ma soprattutto per situazioni specifiche. Dopo di che esiste una vasta congerie di modalità di intervento molto valide anche a una volta a settimana, che però non potranno essere definite analisi, anche se fatte da psicoanalisti o psicologi analisti, o psicoanalisti post freudiani, ma psicoterapie – tuttalpiù analiticamente orientate, o come diciamo ora psicodinamicamente orientate.
L’orientamento psicoanalitico e quello psicodinamico si differenzia dagli altri per l’importanza devoluta al lavoro dell’inconscio, e a tutto ciò che accade al di fuori della coscienza, che arriva al presente da un passato remoto. Quando la terapia è a una volta a settimana questo riferimento all’inconscio è certamente ben presente attivo e funzionale, ma il lavoro è molto meno analitico: si ricordano i sogni con meno facilità, si parla dell’antico passato con minore frequenza, si lavora molto di più sul tempo presente, ossia psicoterapeuticamente. Quando ci si vede più spesso, e magari si usa il lettino – la postura e la maggiore disponibilità di tempo favorisce il ricordo dei sogni, e l’uso di un tempo a parlare di qualcosa che non è quello che è successo ieri.  Non è tanto una questione di profitto, quanto una differenza di metodo.

Le persone invece, specie di una certa estrazione culturale e sociale, tendono a dire che vanno in analisi a prescindere da tecniche e setting. Un po’ per una confusione che circola sugli approcci ma anche perché l’analisi mantiene ancora un notevole charme elitaristico, le stimmate di una appartenenza di classe, si ha come l’impressione che se uno dice: vado in analisi è titolare di una sofferenza connessa anche alla sensibilità e all’intelligenza, forse a una certa cultura, se va in terapia è un po’ più sfortunato, forse ha un problema più vero ma è più banalotto. Lo charme è legato anche ad altri miti per esempio che è molto cara, questo anche a proposito di setting che si mantengono a due sedute a settimana. Questa cosa del prezzo un po’ ha a che fare con lo storico problema che hanno le persone con la tassazione e i costi di tutte le libere professioni. Quando vanno presso il servizio pubblico non hanno chiaro che lo stato sta pagando per loro non solo la retribuzione lavorativa ma anche una quota importante di quello che costa il servizio di cui fruiscono, non pensano alle tasse decurtate dalla busta paga, i contributi pensionistici, e il costo degli spazi che utilizzano per fare i loro incontri medici, per cui rimangono sempre un po’ stupefatti. Molto invece ha a che fare con il mancato riconoscimento di un radicale cambiamento antropologico tra gli psicoterapeuti anche a orientamento analitico perché di fatto l’offerta tariffaria oggi è molto cambiata dal momento che è cambiata non solo l’utenza  – in termini socioeconomici – ma anche l’antropologia dei curanti.

Quando c’era Freud i primi analisti erano per lo più: figli di grandi borghesi capaci nel commercio, abbienti, o nobili con ancora molti beni al sole.  Questi erano i curanti e i loro curati altri elementi dell’altrettanto buona borghesia per quanto in difficoltà. La teoresi delle molte sedute a settimana in realtà corrispondeva a periodi di cura molto più brevi ma comunque per mondi di utenza con altri ritmi di vita e altre possibilità economiche. Erano gli anni dei divani di broccato. Gli analisti di oggi nascono spesso e volentieri come studenti fuori sede che per portare avanti una formazione comunque molto onerosa fanno notevoli sacrifici. Magari vengono da piccoli paesi della provincia, magari abitano lande di classe molto lontane dai divani di broccato. Imparano l’arsenale analitico all’università e alle scuole di specializzazione, aprono i loro studi, ma molti lavorano – anche con grande passione – presso case famiglia, comunità di recupero, servizi sociali – istituzioni del pubblico o del privato sociale dove ci si impegna molte ore, si fanno le notti e si hanno stipendi veramente modesti. Sono calati in mondi esistenziali a loro volta – amici partner pazienti – in cui la situazione economica è spesso precaria, o se è in sicurezza comunque nella diffusa situazione di una contrazione di stipendi e salari, che certo non vale per tutti ma sicuramente vale per molti. Sono dunque spesso e volentieri potentemente scollati dalle fantasiose teorie aristocratiche di cui si sente parlare anche se poi devono mediare con il costo della libera professione. Di fatto oggi circola anche un’offerta che in qualche modo è proporzionale agli stipendi che circolano. Le terapie di fatto si fanno, anche a due volte a settimana, e le fanno oggi – dipendenti di scuola pubblica, operai, bidelle e via di seguito – anche grazie a recenti proposte legislative in materia fiscale.

Alla percezione esoterica del costo esoso, c’è la percezione collettiva di una pratica fantasiosa, letteraria, non regolata, creativa e persino artistica. In fondo negli anni in cui il mondo conosceva i gli studi sull’Isteria di Freud Thorstein Veblen pubblicava il suo meraviglioso teoria della classe agiata, dove i ricchi, ossia i potenziali pazienti sul lettino, erano ritratti come eccentrici bizzarri, desiderosi di esprimere la propria leadership sociale tramite oggetti status connotati da una originalità assoluta. I ricchi di Veblen, e dell’immaginario sociale di ognuno fino a tutto il dopoguerra, erano soggetti eccentrici, capaci cioè di pagarsi lo straordinario il bizzarro, l’inconsueto, il raro, l’inaccessibile. La psicoanalisi dei pionieri era adattissima a questa domanda dell’elite, a questa epistemologia del meglio: un pensiero originale, eversivo, controintuitivo che faceva riferimento alla sessualità e all’infanzia, era davvero adatto al concetto di prestigio di un momento storico

L’istituzione della facoltà di psicologia, più ancora degli iter curriculari delle specializzazioni in psichiatria, unitamente allo sviluppo di presidii pubblici per la salute mentale, anche se oggi purtroppo versano in una grave crisi, hanno modificato la pratica analitica, portando le terapie psicodinamicamente orientate verso uno standard direi quasi un protocollo di intervento che rappresenta anche una protezione per l’utenza. L’università ha svolto nei decenni la funzione di polo laico rispetto le singole scuole di formazione, così come il confronto con colleghi di formazione diversa ha creato delle aree di convergenza. Il giustamente criticato DSM, il manuale delle diagnosi psichiatriche attualmente in uso in tutti i presidi, con tutti i suoi limiti ha costituito nel tempo la base di un lessico condiviso. Ora non è che tutte le associazioni analitiche abbiano lo stesso rapporto con i contesti istituzionali – ancor meno questo si può dire di tutti gli analisti, psicologi analisti o psicoterapeuti a orientamento dinamico, ma insomma oggi, specie per quelli che si sono formati diciamo negli ultimi trent’anni, l’iter di cura implica dei momenti specifici che tutti tra noi riconosciamo come necessari, e che quindi sono molto meno bizzarri esoterici e originali di quanto potesse apparire un tempo: per esempio siamo abituati a formulare un’analisi della domanda.  Dopo di che formuliamo una prima diagnosi. Dopo di che questa prima diagnosi, dopo mesi di colloqui, viene tradotta in  una seconda diagnosi. E via discorrendo verso una serie di parametri che fanno il mestiere, e che servono a valutare l’andamento delle terapie.
Le quali, si constata – è un dato non un pregiudizio – sembrano essere piuttosto lunghe.

Questo non capita davvero sempre, perché ci sono persone che vanno, anche da un’analista per questioni transitorie, per elaborare problemi di piccolo cablaggio, rispetto a un funzionamento nel complesso positivo, efficace. Magari hanno un piccolo problema, oppure sono in un particolare frangente del proprio ciclo di vita che li ha messi in difficoltà. E’ una cosa moderatamente frequente, perché di fatto è vero, le terapie sono lunghe – e spesso sono lunghe anche quelle di altri orientamenti. Personalmente anzi la tendenza a fare terapie lunghe e strutturate per me è una prova di affidabilità – posso inviare pazienti a colleghi cognitivisti – come ce ne sono – che lavorano per qualche anno con i loro pazienti, e lavorare in sinergia con familiaristi e sistemici relazionali, che portano avanti i loro colloqui altrettanto a lungo, rimango perplessa su trattamenti troppo brevi nel tempo.

La ragione della necessità di una lunghezza degli interventi, è nella necessità di procurare cambiamenti che siano profondi e stabili. Noi siamo molto meno facili al cambiamento mediante colloquio di quanto siamo disposti a ritenere, e questo resistenza al cambiamento è una condizione importante della nostra libertà. Se per estinguere un tratto patologico, una coazione a ripetere una serie di abitudini gravemente disfunzionali bastassero poche parole per quanto ben assestate, quanto potremmo considerarci liberi? Quanto saremmo suggestionabili? La resistenza biologica al cambiamento è una prova della nostra identità, e del fatto che per far si che si modifichi abbiamo bisogno di un lento lavoro.