Forse l’esperienza del Covid ci aiuterà ameno in questo, a entrare in un modello di cura medica un po’ meno ingenuo. Ma sostanzialmente la nostra aspettativa quando abbiamo un problema fisico, si attiene al modello del dentista: dottore, mi fa male un dente, me lo tolga.
Il sogno di tutti noi, è che ci fanno le analisi, ci vedono il problema, ce lo eliminano. Anche se i nostri organi sono interconnessi gli uni con gli altri, anche se non si possono sempre levare con disinvoltura, anche se sono iscritti nell’esperienza storica del nostro corpo, dottore mi levi questo dente.
Questo modello mentale di cura, torna ancora relativamente spesso nelle domande di psicoterapia. Magari non è esplicitato, però è spesso silenziosamente implicito nella testa del paziente.
Viene da pensare che si tratti di una posizione ingenua – ma in realtà ha intrecci politici da non sottovalutare. In certi termini abbiamo infatti un fronte che ha un sapere per le mani vissuto come capace di liberare, e un fronte di chi ha un problema da cui sente di aver bisogno di essere liberato per il quale diviene subalterno e dipendente da chi ha quel sapere. Fare una diagnosi e togliere il dente subito, è una garanzia del fatto che quell’asimmetria tra i due soggetti è molto modesta, non ci sono abusi, durerà poco, c’è chiarezza. Ma se il titolare del sapere dice che la diagnosi non è formulabile immediatamente, che il rimedio lo vediamo in itinere, che quanto ci si metterà non si sa, e come sarà dopo manco, c’è quanto meno un rischio fortissimo che salti un piano di accordo e che arrivi anche a torto, un concetto semplice, l’abuso del potere la dilatazione del potere.
Per questo per quanto mi concerne, ma è una pratica che oramai è condivisa dalla maggior parte dei terapeuti anche a orientamento psicodinamico, io dopo un piccolo numero di sedute, cerco di restituire una diagnosi, di dire alla persona assistita quali sono le aree di intervento almeno iniziale e di spiegare il perché teorico del come mai c’è questa incertezza. Faccio cioè un noioso discorso di come è un sapere da vicino quando si avvicina a un problema complesso e multifattoriale, e questa mi sembra una buona base di partenza. In questo modo, anche se non posso togliere il dente subito, lavoreremo insieme con più profitto e senza quella sgradevole sensazione dell’analista che sa cose che io non so. All’uopo faccio delle specifiche per cui ricordo cosa vuol dire, aver scelto una analista junghiana piuttosto che un cognitivista o un sistemico relazionale.
Una seconda cosa che fanno molti psicoterapeuti a indirizzo psicodinamico, è restringere il più possibile la diagnosi psichiatrica, che è una diagnosi sui deficit e sui malfunzionamenti per allargarsi invece sulla diagnosi delle risorse. La diagnosi psichiatrica per un verso è per l’appunto democratica, afferisce a un linguaggio universale e condiviso, in uso anche presso tribunali e sedi giudiziarie, ma ha il difetto di indicare la porta di una gabbia che poi tende a chiudersi dietro le spalle. Ci si appiccica a una etichetta di malfunzionamento che diventa stigma e alibi e impedisce i miglioramenti, sono depresso. Lo stesso terapeuta non può tenersi solo quella, e deve fare, anche per se stesso una diagnosi sulle doti del paziente, e su quello che vede di positivo e che spesso è anche coartato.
La diagnosi sulle risorse indica cioè che c’è una gabbia ma indica la porta aperta.
Con questa doppia diagnosi in mente – sui sintomi e sulle capacità – ci si può chiedere lucidamente dove porti l’intervento migliorativo delle psicoterapie psicodinamiche.
Nella mia esperienza le persone si orientano su due grandi classi di risposte. Alcuni fanno pernio su un cambiamento nella loro percezione di se e della vita. Non mi accetto e imparo ad accettarmi, altri pensano ancora più in grande e semplicemente e romanticamente dicono: voglio avere una vita felice, voglio essere in armonia con le cose.
Questo tipo di immaginario è pratico e orientativo e fa capo a delle cose per un certo verso realistiche. E’ vero che si va in terapia con dei problemi concreti, è vero che si arriva con una percezione distorta di se e della vita, ed è vero che le varie psicopatologie costringono a un certo tipo specifico di infelicità. Questa polarità però genera secondo me delle pericolose confusioni perché in realtà è scollata da quello che è la vita per davvero. Siamo sicuri che accettarsi come siamo equivalga a stare bene? Accettarsi in termini estremi, non può voler dire anche abdicare? Non imparare più? Non è messa così anche un atto estremo di resa, o di presunzione rispetto alle possibilità di continua metamorfosi che la vita ci pone? E il corpo altrettanto? Siamo sicuri poi che stare bene vuol dire essere felici? In terapia capitano spessissimo invece persone che in fondo soffrono perché non riescono a dolersi quando devono. Soffrono del non soffrire.
La vita è una merda per il semplice fatto che finisce, e finisce male. Muoiono le persone intorno a noi, loro malgrado, siamo esposti alla vertigine della fortuna. Lavori che se ne vanno, matrimoni che devono rompersi, malattie che incalzano. Anche quando a noi ci va bene, davvero stare bene vuol dire essere felici? Non dobbiamo per ricordare Freud, imparare a sopportare di essere infelici?
Nel dettaglio la questione assume coloriture particolari pensando agli assetti valoriali. Tutti sono convinti che la psicoterapia debba servire, ad accettarsi, o appunto a essere felici. Ma con quali azioni e pensieri deve combaciare questo? Sottili questioni culturali e ideologiche si insinuano in questo ordine di ipotesi. Se uno non si sposa e continua a fare il muratore nonostante la laurea prestigiosa, sta bene, o per noi stava bene se si sposava finalmente metteva su famiglia e ci aveva un impieg?. O al contrario, è liberata la casalinga devota al marito che rimane a casa? E ancora. Quanto nella nostra idea di miglioramento psichico c’è il benessere e la capacità di stare con gli altri, e quanto la compiacenza e l’incastro con le patologie degli altri? Si è molto ben disposti a vedere la patologia in chi non funziona socialmente, mentre il leader carismatico della cui angoscia di morte e di abbandono beneficiano le masse, se finalmente decide di curarsi è un narcisista che vive nel lusso, nel senso deteriore del termine. E ancora scelte ideologiche, religiose di campo, incidono nell’idea di benessere?
In realtà un buon psicoterapeuta, di qualsiasi orientamento, e quindi anche psicodinamico – in primo luogo si è allenato duramente, a suon di lezioni e supervisioni su una prospettiva laica. La prospettiva laica è quella cosa per cui il tuo obbiettivo è far funzionare meglio quella persona, liberando quelle risorse che hai individuato, nell’esercizio identitario e culturale di se, e che sarà moderatamente instabile, e relativamente vulnerabile alle aggressioni della vita, ma di tuo non sanzioni niente, non ti scandalizzi di niente, tutto quel che ti è raccontato ha un senso in quel contesto. Soprattutto moralmente e politicamente. Ci potranno anche essere delle scelte secondarie dovute a certi importanti insight – cambiare lavoro, allontanarsi da un certo tipo di frequentazioni – ma di fondo è come se si volesse il più possibile lavorare sulla viabilità dei percorsi a prescindere dalle città. La tua ideale idea di miglioramento è che il traffico psichico di questa persona debba viaggiare fluidamente a prescindere dagli arredi urbani. Se cambieranno gli arredi urbani sarà l’esito di sue esigenze, non di tuoi pensieri a monte. E anche se tendenzialmente per via dell’esperienza che si accumula e delle situazioni che ritornano il terapeuta immagina possibili alcuni cambiamenti negli oggetti e non negli stili, quelli non stanno a priori nella sua testa, o non sono presi sul serio. Al terapeuta interessa prima di tutto migliorare il modo di vivere le cose e operare le scelte.
La metafora della viabilità negli arredi mentali, la metafora della mente come città di ricordi e di progetti, ci aiuta a capire lo specifico di una diagnosi psicoanalitica e di un’idea di miglioramento e di guarigione ideale nel contesto della psicologia dinamica. Questa metafora è adatta a tutti gli orientamenti psicoterapeutici, a tutte le scuole, solo che ogni orientamento privilegerà un certo tipo di ostacoli e intoppi nel traffico della città della mente. O ne penserà una diversa soluzione. Gli psicologi di marca cognitivista lavorano molto sui processi logici della coscienza, e liberano il traffico lavorando sulla viabilità di certe sezioni del pensiero che vengono analizzate da vicino volta per volta, anche con successo. I sistemico relazionali lavorano sugli intoppi del traffico nei sistemi familiari, nei giochi di equilibri, e nei funzionamenti relazionali. Le diverse scuole a orientamento psicodinamico ritengono che molti di questi incidenti e crolli che impediscono la viabilità del traffico della mente, dei ricordi dei progetti e degli scambi relazionali, abbiano però cause da collocare in luoghi non immediatamente riconoscibili cioè non proprio sulle strade, ma in parti secondarie, nel passato dei loro pazienti e nell’inconscio dei loro pazienti. Possiamo visualizzare l’inconscio dei pazienti come l’interno degli appartamenti che stanno nei palazzi delle vie in cui circola il nostro traffico mentale.
A questo punto se io ora scrivo che la diagnosi psicoanalitica equivale a cercare di capire cosa c’è negli appartamenti e a farlo uscire per poi rimetterlo dentro un po’ più fruibile e ordinato e meno patologico, cominciamo a capire come lavora la psicoterapia a orientamento analitico. I sogni e le associazioni di primo grado, come molte cose che racconta il paziente a questo tipo di terapeuta sono finestre aperte dentro quelle case, sono in qualche caso portoni aperti dove si riesce a entrare. Questo vuol dire che dopo un po’ di tempo, alla diagnosi sulle risorse e alla diagnosi psichiatrica si aggiunge una terza diagnosi, che è una diagnosi analitica e che tiene in considerazione cosa si riesce a vedere negli appartamenti. Di solito prima che l’analista la formuli – almeno a se stesso – servono diversi mesi. Non basta un sogno, e manco due – servono delle ricorrenze, nei sogni e nei racconti e negli incidenti stradali che racconta il paziente. Servono molti molti racconti, che vengono poi come messi su un pentagramma, del passato del paziente. Nell’idea della terapia a orientamento analitico, il passato dalle retrovie dell’inconscio agisce sul modo di funzionare del presente, provocando in vari modi degli incidenti.
Quando la diagnosi analitica è possibile, quella viene comunicata al paziente che per altro l’ha cocostruita insieme al suo terapeuta e si comincia a lavorare riconoscendo i meccanismi che sono l’epifenomeno di vecchi modelli relazionali, soluzioni di compromesso a fantasmi persecutori – la casistica è infinita. Migliorare e guarire vuol dire allora analiticamente molte cose: per un verso, quello classico, vuol dire riconoscere le vecchie dinamiche per cambiarle, come dire cambiare strada e sceglierne un’altra, ma anche chiudere quella finestra da cui una donna sta vociando distraendo gli automobilisti e provocando l’incidente. Ma a volte vuol dire anche vedersele sparire da dentro senza uno specifico sforzo della volontà – può voler anche dire scoprire delle cose belle in altri palazzi che mai si credeva di avere, e utilizzarle per muoversi nel traffico della vita e della mente. Se analisti e cognitivisti o analisti e sistemico relazionali concordano quindi su una diagnosi funzionale, o una diagnosi psichiatrica, possono avere pareri diversi su questa diagnosi diversa e quindi interpretare in modo diverso il concetto di guarigione o di benessere. Personalmente, io mantengo molto il mio arsenale analitico per sentire il sapore di un grande miglioramento, di una guarigione e di una possibile conclusione di terapia: lo stato di salute della città mentale dei miei pazienti mi arriva non solo da come funzionano, ma sempre da come sono cambiati i loro sogni – perché un’analisi che funziona, cambia l’arredo delle case, cambia i sogni. Non solo da quello che fanno ma anche da una serie di cose che dicono, non solo dal modo di raccontare il futuro, ma moltissimo dal modo di raccontare il passato. Cambia il modo di pensare le strade psichiche e di progettarle.
Questo perché la psicopatologia, non è soltanto un problema delle azioni, anche se è giustamente considerato in primo luogo un problema delle azioni, la psicopatologia è un problema degli assetti emotivi e mentali che guardano a ciò che è avvenuto e a ciò che avverrà, è una patologia cioè dell’interpretazione. Tanto più la patologia è grave, tanto più le possibilità di interpretazione del reale sono modeste, vincolate a esperienze passate, scollegate dalle potenzialità del reale, dalla sua molteplicità. Più si sta male più si uniforma l’esperienza del reale, e questo produce problemi.
Come questo cambiamento avvenga, ossia come cura nel dettaglio la terapia psicoanalitica, è oggetto del prossimo post.