Una delle lamentele più ricorrenti, a proposito delle serie tv, riguarda la massiva mozione degli affetti. In molti hanno la sensazione che per tenere inchiodato lo spettatore alla lunga successione di puntate, occorra agganciarlo nella commozione, nel tragico, nel melò. Certamente si vedono sovrapposizioni di linguaggi, contestualità politiche sovrapposte a vicende personali, ma si chiede spesso allo spettatore, di identificarsi, di calarsi nella storia – fino a perdere quella distanza di sicurezza, che permette di leggere le vicende narrate in tante prospettive diverse, per cui la lettura psicologica e intimista prevale, e prende la scena e tutto quello che rimane, lo storico, il sociale, l’economico, anche se c’è, va sullo sfondo.
Un’altra questione che viene da constatare appare sempre più frequente, è la scomparsa del male e anche dell’ambivalente, con un fiorire di personaggi tutti se non buoni tutti emotivamente comprensibili e giustificabili, tutti, in un certo senso redimibili. Ho trovato in alcuni prodotti degli ultimi anni – La regina degli Scacchi per es, o anche il per diversi aspetti ben riuscito This is Us – questa nuova tendenza, un non saper bene eticamente, e narrativamente cosa fare del male. Ne’ la regina di Scacchi il male è magicamente assente, sono tutti buoni, sono tutti gentili, sono tutti improbabilmente probi, in This is us il male si configura come sottrazione di bene, come bene fallito ma desiderato, e tutti gli errori e le malignità che si vedono – sono, invariabilmente tentativi mal riusciti di stare al mondo, alla fine inavvicinabili dalla sanzione morale. E’ un problema etico, che si intreccia con le domande poste dalle prospettive politiche del nuovo millennio, e da cui qualsiasi umorismo sul politicamente corretto non ci salverà: se dobbiamo capire la storia di tutti, di tutti gli sconfitti, di tutti i secondi posti, di tutte le marginalità e di tutte le cattiverie, come facciamo a difenderci dal male? Come ci raccontiamo le cose senza una sanzione morale? Come ce ne difendiamo?
Questo tipo di narrazioni sono una soluzione, che mi lascia un senso di insoddisfazione e di frustrazione, in fondo sono anche un abdicare, sotto la fabula sentimentale alle domande politiche su ciò che deve essere fatto, ciò che deve essere combattuto, e sul fatto che la battaglia essendo ancora aperta, porta molto dolore sulle spalle.Il male ossia: esiste, e la scorciatoia della mozione degli affetti non può essere usata per eludere la questione – empatizza con tutti, empatizza con il figlio abbandonato, empatizza con la mamma che non gli dice chi è il padre, empatizza con il padre tossico e abbandonante, non ci sono vergini siamo tutti vergini.
Per questo ho amato moltissimo Shameless, serie in undici stagioni – versione americana di originale inglese, molto ben girata, molto ben recitata, brillantemente scritta, e con poche e ben dosate concessioni alla mozione degli affetti. Shameless è una commedia, sarcastica, amara, volgare, se non tragica – molto dolorosa: ma i momenti di identificazione senza filtro sono pochi, e per lo più si ride, o si pensa.
Frank Gallager è un alcolizzato, nullafacente, che vive di espedienti con i suoi sei figli – di cui non si cura, granché, in una situazione di sgangherata indigenza. All’inizio della serie, è l’adolescente Fiona a occuparsi dei fratelli: del geniale Lip, del sentimentale Ian, del violentissimo Carl della difficile Debby e del piccolo Liam, che nella prima stagione ha 1 anno circa. Li vediamo crescere per tutte le stagioni, sempre gli stessi (ottimi) attori, nella periferia di Chicago, e a ognuno di loro è affidato un segmento della lotta per il sogno americano, Lip è quello con un notevole talento intellettuale, Ian è omosessuale e bipolare, Carl è il più repubblicano di tutti, un piccolo uomo di destra, Debby è una giovane donna che cerca di sfangarla, e Liam è nato da un rapporto con una donna nera, dunque è la lotta dell’America nera. Sono però i diseredati, sono quelli che il Sogno Americano attrae e rimanda indietro. Shameless è una storia dove i protagonisti combattono con le unghie e coi denti con il vento contrario delle coordinate sociali ed economiche che a loro volta si servono delle relazioni affettive, e delle leggi che la psicologia tristemente insegna, quando vuole spiegare quando e come certe patologie sociali si conservano per generazioni. E mentre il padre di famiglia, anche lui come Lip un tempo un genio destinato al college ma bruciato dalle dipendenze, pontifica nei bar con un linguaggio forbito fino a cadere esanime a dormire in qualche parco o a ridosso di un secchio della spazzatura, i figli disperatamente e dolorosamente lottano per uscire dalla merda, con espedienti, sfrontatezza, mezzi sbagliati ma necessari quando non ci sono orizzonti alternativi, nel tentativo, doloroso e qualche volta vano di spostarsi dal disastro dove sono nati. In Shameless ci sono passaggi politici realistici e molto poco consolatori su quanto può essere difficile il mitologema del self made man e della meritocrazia, perché il passato ti riagguanta, il passato ti mette in mano le nevrosi degli strumenti sbagliati, come insegna la vicenda di Lip, quello che poteva andare al college gratis con le borse di studio, ma che sarà costretto ad abbandonarlo, a causa dell’alcol, o come Fiona che a un certo punto sembra davvero poter diventare un imprenditrice, e invece cade, perde tutto, non riesce a cavalcare, il mondo in cui cerca di approdare e riaffonda nei debiti e nell’alcol del sottoproletariato urbano.
Trovo in questa serie, al di la della brillantezza generale dei dialoghi, e alcuni momenti di spasso genuino, due questioni.
La prima è appunto la rappresentazione dei fallimenti, dei tradimenti. Le diciamo cadute lungo la strada dell’emancipazione dalla spazzatura bianca. Queste cadute passano da diverse cause: una è l’assenza di quella strumentazione di classe che solitamente aiuta la borghesia a fiutare i tranelli, il sapere fiutare i comportamenti fuori luogo all’università, il sapere fiutare le trappole affaristiche che saranno tranelli, il saper giocare delle regole del gioco che sono feroci e precise, e che conta in questa serie molto di più dell’avere i soldi per poter stare al gioco, l’altra causa è squisitamente psicologica, i Gallager non sono stati amati, sono i figli di una negligenza aggressiva ed estrema, fanno moltissima fatica ad amarsi, a proteggersi, a proteggere progetti di lungo corso, e i passaggi della serie in cui saltano all’occhio limpidamente, i tradimenti di se stessi a causa del tradimento dei genitori sono strazianti quanto chirurgici, in particolare sono terribili quei momenti in cui il protagonista capisce che non si è amato, non si è amato perché non gliel’hanno insegnato, e l’unica cosa che ha fatto è stato – ferirsi gravemente. Come quando Fiona, fa sniffare per sbaglio la cocaina al più piccolo dei fratelli, Liam, ricettacolo di dolcezza e purezza per tutto il clan, e lo mette in pericolo di vita.
La seconda questione, che secondo me è la caratteristica davvero magica e portentosa di questa serie, è la rappresentazione di un’area pura, incontaminata, che quando arriva riluce di una specie di luce sacra, che è la landa dell’amore e dell’affetto. Perché a spiegare l’eziologia del tragico sono bravi in tanti, è il talento dei principianti, ma rappresentare la purezza è una cosa più difficile senza diventare ovvi. Invece in Shamelss c’è invece una specie di isola – intorno all’affetto che i fratelli provano gli uni per gli altri, e in alcune relazioni amorose tra questi lottatori per la vita– che fanno rimanere indietro e sospendere il pensiero, e commuoversi non per il tragico, ma per il bello, per l’incorruttibile per qualcosa che rimane e da energia, e protegge come può dal male, che nella serie, ha il suo nome, e in primo luogo si chiama povertà – di mezzi, ma anche d di orizzonti – di alternative di modelli di strategie. E l’isola sacra dell’affetto è quello che fa da propulsore ai tentativi, che copre le spalle per riprovarci un’altra volta. Perché diversamente da un prodotto come This is Us, il discrimine dell’etica c’è, ed è nel provarci e riprovarci, nel mettersi in gioco e discutersi, e nel saper ritrarre con severità e un disprezzo etico che facciamo fatica a recuperare, chi non lo fa.
In fondo, il vero protagonista della serie è Lip, quello che doveva riscattare un quartiere e una generazione con l’intelligenza e la carriera, ma che nella tragica somiglianza con il padre, cade nello stesso distruttivo alcolismo, perde tutto, perde il college e perde il futuro, sbaglia donne, una dietro l’altra, ma alla fine ce la fa, e ce la fa occupandosi cocciutamente di altri, di altri che stanno come lui, ce la fa con dolore e disperazione salvando chi può, tra morti terribili e catarsi riuscite, e quando alla fine trova una con cui riesce a rimanere, più sofferente che cattiva, ammette di non poter andare lontano, lontano da Chicago e dai suoi, perché senza quel caldo dietro le spalle, tornerebbe a bere.
Da vedere.