Nuove dal 27 gennaio

Due giorni fa c’è stato il giorno della memoria, il 27 gennaio. Sui social si tratta di una data che ha una sua rilevanza. I social sono il luogo dove le persone edificano il loro modo di pensare e vivere le cose, dove cristallizzano in pensieri scritti le loro percezioni, e le date simboliche ricorsive, dove riportano le esperienze e gli eventi che ci sono intorno a loro, e le date ricorsive sono un punto di coagulazione, un pettine, una cartina tornasole.

Il 27 gennaio di quest’anno ha subito una mutazione interessante da diversi fronti. 

Qualche amico intellettuale per esempio quest’anno ha manifestato stanchezza di fronte al marketing editoriale dell’Olocausto. Non sono antisemiti, sono persone che guardano piuttosto al mercato dell’editoria, e che lamentano un abuso in termini di marketing della Shoah, fino a colpire gli interessi di chi vorrebbe salvarne la memoria.  Ha davvero senso, si chiedono, continuare a produrre tanti libri e lanciarli sul mercato in questo momento? Magari libri mal fatti e a basso costo? In questa posizione, che ha una sua rispettabile buona fede, che come vertice di sguardo ha la qualità dei libri, io ho sentito comunque la perdita di contatto con il mito culturale dell’Olocausto, con la sua significanza per noi. La divulgazione dei fatti per loro sta diventando trita e secondaria. Ammetto anche che io, vivendo i l’Olocausto da ebrea, quindi come il simbolo di una deriva permanente, come una cosa che riguarda il mio possibile qui e ora, capivo dalle loro parole che per loro l’Olocausto è passato definitivamente al capitolo storia, narrativa, passato remoto, film in bianco e nero di largo impatto. Per esempio, questi miei amici concepiscono il tema della persecuzione razziale, come metafora di altre persecuzioni possibili, il che è senza dubbio corretto, ma il capitolo antisemitismo non li sfiora, non cortocircuitano, e il giorno della memoria non è una cosa che si debba mettere in relazione con eventuali battute antisemite. In effetti di antisemitismo non parlano mai.

Su ben più vasta scala, molti no vax hanno invece portato avanti un uso che definirei  post moderno del giorno della memoria.  L’uso della metafora fa pernio su alcune questioni: i no green pass sono meno dei favorevoli, molti di meno ma comunque una minoranza visibile, a causa del ricatto pandemico sono molto mal visti e molto mal giudicati, e l’istituzione del green pass non solo impedisce loro la fruizione di beni e servizi nelle consuete modalità lecite a tutti, ma spesso li rende oggetto di comportamenti aggressivi, svalutanti, che dovremmo chiamare discriminatori. Allora i no green pass dicono, è proprio come quando vennero le leggi razziali, siamo come gli ebrei che non potevano fare molte cose ed erano maltrattati da tutti, e sulle bacheche facebook mettono le parole di Primo Levi, decontestualizzate, e secondo cui il grande guaio della persecuzione raziale non è cominciato con grandi gesti, ma con l’indifferenza. Questa cosa all’ebreo medio crea di per se grande disturbo, perché è una verità molto parziale, che riguarda solo l’ultimo segmento di storia. E’ nato prima l’uovo o la gallina? L’uovo avrebbe detto il povero strumentalizzato Levi, che raccontava la sezione del suo momento storico di un lungo inferno, che è cominciato molto molto prima del nazismo e dei suoi indifferenti.

Nel leggere queste citazioni di Levi, io mi rendevo conto di provare sentimenti e attraversare pensieri disordinati, che ora cerco di mettere in fila qui. La cosa che salta all’occhio è che dell’Olocausto, della persecuzione razziale si vedono i limiti alle libertà, e le reazioni discriminanti, ma non si vedono, le possibilità facili di aggirare questi limiti, e la determinazione all’annientamento delle camere a gas. Un paragone del green pass con la tessera fascista per esempio poteva essere più credibile, perché in fondo abbiamo due tessere che non permettono accessi a servizi e addirittura posti di lavoro in base a scelte politiche, su cui se si abiurasse si potrebbe tranquillamente risolvere il problema, come durante il fascismo fecero tanti italiani incerti. Io non la troverei davvero congrua, questa similitudine, ma sarebbe un pochino più motivata. Invece piace l’identificazione con gli Ebrei, i quali a un certo punto manco se si convertivano la scampavano. La madre di una persona che conosco, è stata uccisa nonostante la conversione in extremis. Quella ineluttabile ostilità, quella determinazione all’annientamento che si correla a ciò che è ricordato il 27 è la cosa che rende la citazione di Levi e qualsiasi stella gialla vantata decisamente inappropriata e allo sguardo dell’etica con qualcosa di sporco. 

Ma non è antisemitismo. Anzi, i no green pass che fanno questa citazione si sentono molto vicini agli ebrei, ma della cultura identità storia ebraica si scelgono proprio ciò che per noi Ebrei è ferita, è angoscia, è terrore e in qualche modo anche vergogna. Lo statuto di vittima, lo statuto di perdente, lo statuto di povero ratto rincorso per le fogne. L’imbelle, lo sporco, il gassato. Questa cosa mi sembra il segno di un malfunzionamento psichico collettivo. Io sono per i vaccini e sarei stata per un semplice obbligo vaccinale, a cui sarebbero dovuti essere esonerati i titolari di patologie mediche, riconosco alla teoresi del green pass, una sua vulnerabilità giuridica, ma da psicoanalista mi chiedo – potendo scegliere tra identificarsi con quelli che non aderiscono a una maggioranza politica e la sfidano da pari – e quelli che sono stati perseguitati e uccisi in modo spesso lento e crudele, per un dato somatico, quale gancio psichico porta i no green pass e no vax a scegliersi questi altri? E l’analista che è in me si chiede, vedendo quanti di loro poi passano guai terribili perché perdono il lavoro, perché si ammalano e non possono essere curati, perché muoiono nelle terapie intensive più degli altri, quanto c’è di doloroso in questo vantarsi di abitare il tragico? Quanto narcisismo della autodistruzione? C’è qualcosa di inutile autodistruttivo e illogico nel prendersi la stella gialla come dato identitario, che si deve agganciare a una qualche ricorrenza nelle storie private, e anche a una qualche simbolizzzazione forte sul corpo e sul farmaco, perché per quanto offra una gran visibilità è di fatto autodistruttivo e respingente. Nessuno in politica ti concede qualcosa perché lo fai sentire cattivo, perché ti prendi la poltrona della vittima. Non ti danno le cose quando sei vittima vera, quando sei vittima finta – ti disprezzano.  Il richiamo alla Shoah dei no vax ricompatta il gruppo in una identità collettiva fondata su un elemento patologico e autodistruttivo, non c’è niente di buono in quel paragone, non ci sono risorse, non c’è associazionismo – come rimproverò spietata Hannah Arendt, non vi servono proprio a un cazzo questi ebrei – solo a essere più antipatici.

Di contro per quanto rimanga vivo il timore, che qualche battuta qua e la, qualche sito qua e la, qualche pestaggio qua e la, rinvigorisce negli ebrei che la bestia antisemita non sia morta, di fatto nella percezione collettiva di tutti gli altri anche dei migliori sta cambiando statuto, sta scolorendo, sta passando dal film di attualità, dal documentario sui padri, al terreno della storia, di elisabetta prima e filippo secondo, dei fim sui pellerossa. E’ una cosa inesorabile ed emotiva, è una cosa che deve succedere, e non c’è giorno della memoria che possa arginare questo passaggio storico, generazionale ed emotivo. La persecuzione razziale, in questo momento in cui la bestia sonnecchia – almeno a queste latitudini – svegliandosi di rado è un giocattolo narrativo che tutti usano secondo le proprie necessità, sganciandolo comunque sempre prudentemente dal suo tratto virulento che è l’annientamento mortale di cui gli ebrei sono stati oggetto, per cui mi è capitato persino di dover leggere in questo 27 gennaio, giornalisti che fantasiosamente ribaltavano la metafora e dicevano ai no vax che erano loro, quelli che potevano essere assimilati ai nazisti, avendo sposato idee complottiste. 
Cose che si dicono gli uni agli altri i soggetti di un periodo storico che tutto sommato ancora permette di giocare con certe grandezze, di farne un uso retorico e su tutti i fronti psicoanalitico, mentre la storia fa il suo corso e alla fine, gli eredi dei soggetti implicati, non possono farci niente se non guardare tutto con lieve sgomento. Di fatto però il richiamo a questa metafora, al di la della mediocrità etica, rimanda a qualcosa di sinistro, di non detto, di pervasivo, di ricattatorio dalle retrovie, rispetto all’aggressività e alla morte. 

Caro Luigi (lettera da Venezia)

Caro Lugi

Sono a Venezia sai, e come tutte le volte che sono qui, quando passo a San Trovaso, al cancello della pensione dove dovevi alloggiare, penso a te, che non sei potuto venire all’ultimo al mio matrimonio, ma soprattutto, alla telefonata di un paio di mesi prima, la telefonata che non volli capire.
Figlietta, mi dicevi, sai che qualsiasi cosa succeda io ti voglio bene lo stesso? Qualsiasi qualsiasi? Certo dissi filiale e giudiziosa mentre dentro qualcosa come un cucciolo di cane puntava le zampe, sai quando tiri il guinzaglio per portarli da una parte e loro non vogliono, e stanno colle zampe stese e il culo dritto.
Quando passo davanti alla pensione  dove dovevi dormire, per fare il mio testimone,  io sento sempre il cucciolo di cane che non vuole andare dove dici tu. 

Avevo organizzato tutto perché tu non dovessi muovere un passo. L’albergo era signorile anzi regale, con un profluvio estremo di velluti e una saputa parsimonia in fatto di broccati – che qui a Venezia ci hanno una psicopatologia dei broccati in plastica e anche dei baldacchini in truciolato con terrificanti intarsietti – tutti sintomi che tu non avendo il tempo di guarire avresti guardato con diagnostica fatica. Non avresti incontrato neanche uno scalino – che dico, neanche un dislivello. Avevo battuto tutti gli alberghi della città a cercare, una stanza dunque non solo epurata dalla perversione casanovesca, ma anche dai gradini, ecco e l’avevo trovata. Avevo pure trovato un signore, mi ricordo, uno che ti doveva prendere in barca e portarti al comune, dove in effetti avresti dovuto fare alcuni scalini ne convengo, ma gli unici eh! E poi questo signore ti avrebbe prelevato di nuovo e ti avrebbe portato a mangiare in un altro posto assolutamente epurato da scalini ma dotato invece di granchi, di cui eri molto goloso.
nvece dicevo, qualche mese prima mi avevi telefonato, eri caduto, eri finito sdraiato per una terribile labirintite, e nessuno ti aveva raccolto per molte ore, ti eri spaventato, lo credo bene, e però non ce l’avevi fatta a dirmi, non posso venire – hai parlato con mio marito, diglielo tu. Dentro la vecchiaia ti aveva dato degli ordini, la morte si avvicinava, e tu qualche mese prima avevi cominciato a prepararmi. Ricordati figlietta, qualsiasi cosa succeda.

Volevo dirti che è servito, ma dopo sai, perché li per li mi arrabbiai moltissimo e mi sentii abbandonata. Mio padre era una presenza evanescente, come dimostrano queste lettere –  ora dico una cosa feroce – mi manchi più te che lui, non te lo dissi perché tu hai avuto paura, e mica l’hai detto a me che non saresti venuto, pochi giorni prima! – ma anche quando poi ci siamo sentiti, io non protestai, avevi una voce flebile e flemmatica, ti difendevi con una sorta di severità, io però mi arrabbiai moltissimo.

Poi mi ritrovai a dover scegliere un testimone in extremis, che è pure una cosa poco carina il concetto di testimone di ripiego diciamo, avevo delle care amiche li, le amiche care di quel momento della vita, la maggior parte delle quali ora è in una vita che non vedo, e io già lo sapevo, che me le sarei perse, si cambia, per questo ci dovevi stare te, e non una di loro, benchè a tutte volessi molto bene e ancora ne voglio. Comunque andò bene sai, fu bello. Venezia era piena di sole, il ristorante mise del ribes in mezzo ai granchi, sui tavoli stavano ciliegie di vetro, io avevo un vestito verde e facevo una scelta felice. Ci furono molti baci.

(Ti ricordi quando ti ho presentato quello che sarebbe stato mio marito? Tu lo esaminasti dettagliatamente, lo interrogasti a lungo – quanto mi piacque!  – ricordo che gli facesti anche delle domande intimidatorie antiche e severissime: la farai felice? Avrai cura di queste mani? Gli dissi in un modo che faceva spavento. Ti sono molto grata di quella domanda.  Fu uno dei più bei regali che mi hai fatto. Oltre alla lettera che mi hai scritto per dirmi che potevo diventare analista, e oltre la borsa che ha aperto la nostra amicizia, il regalo che mi è piaciuto di più).

Ci sono sempre qui a Venezia delle cose che vorrei vedessimo insieme, e specie ora che mi sento professionalmente forte, molto forte, forte delle spinte tue e di altri maestri che ho avuto, maestri che però sono stati solo maestri, adesso sai che mi manca? Mi manca di vedere con te queste cose, i gatti Sandro e Palmira che dormono in calle del Fabbro, la luce a Santa Marta sul far della sera, i granchi con il ribes certamente. Mi manca essere grande con te, che te ne sei andato appena ho cominciato.