Su Roma

Premessa: Parlare male di Roma

Negli ultimi anni la rete mi ha regalato un nuovo stato d’animo, che in passato vivevo in toni molto più moderati, mi si acceso cioè un oscuro campanilismo, per quanto controllato dal rendersi conto della realtà delle cose. Reagisco cioè a come Roma è raccontata, reagisco alle mitologie degli altri luoghi e a quelle che circolano sulla mia città, sento qua e la germogliare clichet che sono spesso e volentieri più funzionali a narcisismi individuali e a bisogni identirari, che a corretti esami di realtà, o anche funzionali alla recita di un’azione politica, che alla attuazione di un’azione politica. La pagina Facebook Roma fa schifo, è un po’ il simbolo di questo recitativo da dissidenza in poltrona. Va la che brutte strade coi cinghiali abbiamo, facciamo una bella foto, stringiamoci tutti insieme nell’orrore dei cinghiali e poi tante care cose. 

Va molto di moda parlare male di Roma, in primo luogo dalle mie parti intellettuali e culturali. E’ chic parlare male di Roma, elegante e non impegna: prima con lo scandalo Marino, poi con l’amministrazione Raggi, è stato facile come lamentarsi del tempo. Ora la città è amministrata dal PD e questo rende alla sinistra intellettuale ancora più agile la possibilità di parlare male della città. Perché in fondo parlare male di Roma, capitale del paese, e parlare male del PD erede di una delle maggiori tradizioni ideologiche del paese, assume la stessa funzione psicologica e identitaria: è una palestra per evidenziare i propri pregi, la puntualità delle proprie prospettive, E’ bellissimo a sinistra parlare male di Roma, perché è tutto un se ci fossi io a comandare, se facessi io le cose, ah il degrado. 

Il parlare male di Roma ha diverse voci. Le voci più addolorate e di solito private, sono di dipendenti pubblici, lavoratori dell’amministrazione, che lamentano l’enorme quantità di vincoli, gli ostacoli e i problemi sistematici, le  cattive eredità che arginano i progetti. Questi però hanno di solito pudore, parlano con sofferenza, valutano mille cose. Raramente sono unilaterali e non sono mai interpellati come dovrebbero. Quelli che si sentono davvero non sono quelli che lavorano nella città e di solito sono quelli che hanno possibilità di scegliere. Spesso intellettuali di sinistra la cui parata di difficoltà materiale ha una funzione identitaria più che una consistenza reale. Alcuni raccontano in romanzi una Roma supertossica e immorale, dove ci sono poche vittime e molti carnefici, mentre loro si tengono identità dorate di chi in fondo non si sporca le mani.  La lettura di Pecoraro e di Lagioia, mi ha fatto salire una imponderabile voglia di Briatore. Non è una cosa che si perdoni facilmente.

 Poi c’è la variabile del parlar male di Roma determinata dal soffuso charme leghista: a Roma non si lavora. Mentre la questione precedente per quanto faccia arrabbiare ha consistenti dati oggettivi a suo riguardo – si a Roma sono successe cose gravissime, si l’amministrazione Raggi è stata un disastro sul disastro, si il PD per me promette poco bene per cose reali visibili, irrisolte: spazzatura, strade, reti fognarie – la cosa dei romani che non lavorano la trovo, banalmente, semplicemente, falsa. Io mi faccio un mazzo, aiuto gente che si fa un mazzo, ho amici che si fanno un mazzo, ci ho parenti che si fanno un mazzo. La città è piena di gente che si fa il mazzo – e tutto sommato  – si vede facilmente. Ma ci torniamo dopo.

Infine, c’è un parlar male di Roma che però dice, eh ma è molto bella. Però questo molto bella si concentra su alcune questioni postmoderne e monumentali, gli scorci pittoreschi, i tramonti sul tevere, san pietro, e qualche altro quadruccio da ristorante.  Anche agli occhi di questi Roma sfugge completamente.
Io ora vorrei dire come è secondo me la città, cosa ha davvero e cosa non ha. Cosa ha in più che spesso non si vede, e che spesso non vedono manco i romani, per nevrosi personale, per nevrosi collettiva, per una oscura nevrosi della città da cui dovremmo liberarci e che come tutte le nevrosi non ci fa usare le doti che abbiamo. Naturalmente questa mia, è una visione a sua volta parziale determinata da privilegi, primo fra tutti la casa di proprietà, ma non pochi di natura caratteriale – un mio0 amico da poco mi ha detto, dove stai devi trovare il bene,  ma anche da una missione esistenziale, in generale per aiutare la gente a stare meglio li aiuto a vedere dove c’è da prendere. I miei pazienti, stanno, per buona parte, a Roma.

Alcuni dei tanti problemi

Il primo problema che dobbiamo riscontrare a Roma, e che è analogo alla politica nazionale, che sicuramente c’è in altre amministrazioni locali ma non nella misura così paralizzante che si osserva nell’Urbe, riguarda l’equilibrio di potentati locali, che sono numerosi, e che riguardano molto illecito, ma moltissimo il lecito, molto il presente e molto il passato. Esattamente come in Italia non si riesce a imprimere un cambiamento di sorta ma tutto quello che si riesce a ottenere è un mantenimento della baracca così com’è – a Roma non c’è sindaco, di nessun colore, che riesca a scardinare l’equilibrio dei sottopoteri, che strozza la città e che la rende di fatto, difficile da vivere, piuttosto cara, con servizi carenti.  C’è anche una corruzione diffusa che con piccole macchie continue investe molti funzionamenti parziali e paralizza ulteriormente settori e distretti, provocando un’emorragia di fondi.  

 L’immaginario collettivo è colpito per esempio dalla difficoltà a gestire la questione della spazzatura, che è effettivamente impressionante, e  spesso deprimente, prioritaria se non altro per la siua visibilità, ma ci sono anche altre questioni, come per esempio il caro degli affitti, il fiorire di b & b e strutture per il turismo che sfrattano dalla città i suoi legittimi abitanti depotenziando il suo capitale creativo, il titanico problema della gestione delle cose pubbliche nei distretti periferici, e l’altrettanto titanico problema dei mezzi pubblici – anche se in realtà – per come è la città, e per gli investimenti che si fanno – riescono anche a funzionare abbastanza. Dal mio vertice di osservazione posso anche aggiungere che il tanto amato Zingaretti ha aggiunto devastazione alla devastazione nel campo della salute mentale, specie per quel che riguarda la gestione dei fondi per le case famiglia e per i pazienti psichiatrici. C’è una gravissima emergenza nel campo della psichiatria, pochi concorsi nel lazio, un disastro totale. E’ stato indetto un concorso l’anno scorso, dopo vent’anni di assenza di concorsi, per una trentina di posti come psicologo, il che stante la domanda è semplicemente ridicolo. In generale, il comparto sanità nel Lazio mi pare soffra una carenza di investimenti, e più volte ho sentito con le mie orecchie di medici che fanno straordinari gratuiti per far fare certe analisi a pazienti gravi, o coprire un servizio. Anche nella sanità comunque, l’utente romano mediamente, ha questa esperienza curiosa del funzionamento maculare. Ci sono realtà ospedaliere dove appare di più una salute intrinseca dell’istituzione, e strutture dove è altrettanto evidente una grave sofferenza, tutto questo al netto delle competenze del personale medico. 

Ci sono poi altri problemi, che riguardano i contratti di lavoro, a volte non fatti quando si dovrebbe a volte fatti per metà, e con diverse soluzioni fiscalmente bislacche, ma devo dire, recentemente trovandomi per lavoro e non, a seguire storie di persone che hanno lasciato la capitale per andare in altre città italiane a lavorare, ho notato con un certo raccapriccio, che certe abitudini che credevo più squisitamente romane, sono molto gettonate anche a Milano, Torino e città del nord. 

La città nel complesso porta sulle spalle un macigno che si infiltra nelle cose, e che spesso – non sempre, e non spessissimo, si infiltra in funzionamenti di uffici e distretti. Queste infiltrazioni sono per un verso non uniformi, ma dove ci sono, sono sclerotizzate e difficili da combattere, perché sono oggetti tridimensionali: sono accordi contrattuali, iter burocratici, tradizioni che si passano da generazioni, accordi tra parti.Allo stesso tempo non sono omogenee. La città per chi ha molti contatti con il settore pubblico, è una specie di leopardo dove ci sono luoghi che continuano a funzionare bene e a tramandare buone prassi, dove le persone al loro interno sono mediamente contente di lavorare, e luoghi che sono una dannazione eterna, dove le persone provano enormi frustrazioni, dove si ha la sensazione di un lavorare inutile e sporco. Possono esserci differenze veramente plateali tra un ufficio del comune e un altro, tra un ospedale e un altro, tra una scuola e un’altra e via di seguito. 

Una città complicata 
Con queste premesse, vivere a Roma bene, senza soffrirne troppo, implica alcune fortune. Una sono i soldi. Roma da ricco la vivi chiaramente molto meglio, meglio se non devi spostarti molto per procurarti da mangiare, meglio se ci hai una casa di proprietà. Ma spesso anche i quattrini non ti salvano dall’arrabbiarti: perché solo attraversare la città per arrivare al lavoro ti sfianca, così come ti può provocare la cirrosi epatica facilmente il dirigere una cosa, dall’ufficetto all’istituto e non poter raggiungere degli obbiettivi per una serie di ostacoli. Se non sei ricco, devi avere una tua capacità adattiva, una capacità di godimento, un saper stare e stanare, stanare, stanare.  Devi dedicare il tuo tempo a saperti pensare la vita. Se hai queste competenze qui, se te la sai inventare, Roma da ancora moltissime cose. E te la tieni anche da poraccio. 
Roma in sostanza è una città per forti.

E questo chiaramente è un grave difetto.

Però Roma dicevo, ha delle cose, ed è per questo che ci si vive, alcuni rimangono, certi ci vengono, molti ci tornano. Queste cose sono moltissime, sono intrecciate, e ora cerco di restituirle.

Roma è per la sua storia, innanzitutto, una sorta di confederazione di paesotti. Molti paesotti! Sopra la ventina! Sopra la trentina! Questa cosa personalmente la adoro, mi sembra davvero la cosa che la rende pazzescamente unica, e qualche volta le domeniche di inverno, vado all’esplorazione di paesotti che non sono il mio. Ossia c’è questa cosa di una città con comparti architettonici diversi, e quartieri che hanno le loro piazze e i loro luoghi di riferimento, i loro caffè e le loro chiese, le loro atmosfere e le loro estetiche e anche le loro diverse variabili dialettali – romaneschi diversi, paesaggi diversi, scorci fascinosi diversi. Ci sono pezzi di Roma molto bella molto al di fuori dal consueto e bisunto circuito del centro storico. Ci sono cose interessanti in posti insensati. Anche cose non pazzescamente belle, ma si molto belle, o semplicemente pazze, o comunque dotate della capacità di essere mondo, e che si fanno a estetiche e periodi storici tra più svariati -che so la piazza davanti ponte Milvio, o la cascata di case di Torpignattara, ma volendo pure certe arrampicate alla sinistra di Corso Trieste, o anche al di la della magnifica Garbatella i paesaggi introno a San Paolo Fuori le Mura, il villaggio olimpico, o un certo gruppo di vie al Quarticciolo.Potrei continuare all’infinito. Sostanzialmente a Roma sono passate tutte le architetture possibili.  La stratificazione di domini politici e di momenti storici in cui si è continuato a costruire, ha reso Roma un inventario di codici urbani.

Questa cosa della confederazione di paesotti ha secondo me due conseguenze, una umana e una intellettuale. 

La conseguenza umana è che vivere in un quartiere romano, è semplicemente bello e caldo. Ndo stai stai, hai la tua rete. Mia madre di ottantasei anni oggi mi diceva, a me in questi anni terribili del covid mi ha salvato una cosa sola: il quartiere. Il quartiere ha sostenuto mia madre anziana, e sostiene anche me con i miei figli nel mio. Esiste una modalità interclassista di appartenenza al quartiere a Roma, per cui se io cerco i miei figli, una prostituta a casa mia mi aiuterà, se la prostituta avrà un problema io aiuterò lei, se mia mamma non può uscire il quartiere le porterà la spesa. Il ruolo del bar del quartiere a Roma funge da capitale culturale e politica, e ci sono molti bei bar, molto peculiari, molto definiti. Io ho un bar stupendo dove si vende vinile, il bar Brunori, ma so di bar che vendono libri fasci di contrabbando, o bar che ci hanno la fissa della pittura etc, o anche molti bar semplicemente adorabili, amati e bruttissimi che però creano un’appartenenza. In ogni caso, la vita relazionale del romano, mediamente è molto sostenuta dalla vita del quartiere, specie se il romano, o quello che è appena arrivato, abbassa le difese ed entra in relazione. E questa cosa a Roma succede con agio: all’università ho avuto amici studenti fuori sede, amici che venivano nelle nostre case di romani, mentre i miei amici che sono andati in altre città, hanno frequentato solo altri studenti fuori sede – spero che questo esempio illumini un po’ quello che voglio dire.

Questa pluralità di villaggi, che è appunto pluralità di atmosfere, di regie cinematografiche radicalmente diverse e tutte spendibili, si riversa in una cosa che si dice poco, ma Roma è ancora esteticamente molto creativa. Si parla moltissimo della moda a Milano, ed è giusto che si faccia, un posto tutto sommato piccolo che fa tutte quelle cose fantastiche dai vestiti al design, ma la quantità di negozi dove si pensando vendono e fanno cose interessanti a Roma è grandemente sottovalutata come di piccole imprese. A Roma, secondo me, si fa ancora molto ottimo artigianato, e c’è davvero molta molta creatività, molto plurale e che si discosta con molta fantasia dalle mode dominanti,  che secondo me sostiene la città in una misura che è sottovalutata e poco sostenuta ma che mette in campo delle cose interessanti. A Roma sono nati marchi e realtà economiche che sono il frutto di questa miscela creativa. Il grandissimo Castroni, o per quel che mi compete il marchio Ballerette, che ora vende scarpe in mezzo mondo, con i nomi delle vie della città. Ma al di la di grandi esempi,  è’ pieno di buchetti che fanno cose belle col pellame, cose belle con la plastica, cose belle coi tessuti, cose belle riciclate etc . C’è molto buon gusto e molta sperimentazione di livello, più eccentrica e meno mainstream di altri grandi distretti.  Questa roba sta nel centro storico ma è in realtà pulviscolarmente diffusa in tante zone di media centralità. E’ molto bello scoprirla, e quando si può bisognerebbe incoraggiarla. 

In secondo luogo Roma faticosamente, pragmaticamente, affannosamente lavora. Lavora spesso con grandi bestemmie e perdite di tempo, ma lavora, questo mediamente allevia lo stato d’animo di chi si cala nella città. Cioè ti accorgi sempre, che tra mille bestemmie quello a cui ti rivolgi fa quello che può. Quindi nel casino capitano delle belle cose. Un’esperienza frequente è interfacciarsi con quello che ti risolve il problema. La capacità di risolvere problemi è uno specifico talento dell’intelligenza meridionale, che mi affascina persino professionalmente, perché diciamo gestalticamente è un modo diverso di guardare le cose. Il romano lavoratore, di solito, quello in gamba e di successo, coniuga due caratteristiche, uno stacanovismo molto poco celebrato quanto diffuso (e criminale, perché compartecipe della teoresi degli straordinari non pagati) unito a un modo di osservare i dati standone fuori come dall’esterno. Questo tipo di romani sono molti, e mandano faticosamente avanti il comparto pubblico della città, ti dicono cosa fare, trovano strade con te producono beni e servizi. Le mostre che la gente vede, per esempio, i servizi che utilizzano di prenotazione negli ospedali, i progetti nelle perferie, e scusate i premi nei dipartimenti universitari e via di seguito, in generale la reale vita culturale della città, è uno degli effetti di questo lavorare. 

La seconda esperienza che capita sono romani che si mettono insieme e fanno cose, fanno cose pazzesche e grandi che hanno un notevole impatto sul territorio, nonostante gli ostacoli di una burocrazia disperante. Nel mio ambito ho colleghi che hanno costruito realtà molto significative sul territorio, persone che hanno preso degli spazi, ci hanno fatto dei centri con tariffe calmierate per l’utenza, progetti per persone che hanno problematiche specifiche. Ma c’è un fiorire di progetti dal basso che sono pazzi, che fanno cose, rete, cultura dal basso. Di questi non sa niente mai nessuno fino a che magari non succede qualcosa di brutto, tipo la triste vicenda della pecora elettrica, la bella libreria in borgata, a cui è stato dato fuoco. Ma in città ci sono molte pecore elettriche, fanno cultura, fanno dibattito, fanno mondo e offerta culturale, fanno le nozze coi fichi secchi. Fanno cose belle. (potevo fare come esempi i miei amici che hanno messo lo sportello per i pazienti LGBT, la mia amica che ha fatto un centro psichiatrico fantastico per i disturbi alimentari. Invece faccio il nome di Stefano Persico, il portiere di borgata che fa le presentazioni di libri ai condomini, con la pizza compresa. A cento metri da Stefano Persico, per capirsi, hanno dato fuoco a dei palazzi per via degli abitanti extracomunitari)

Infine, forse in virtù dei punti precedenti, la città ha diversi presidi, tra pubblico e privato che sono agenzie di lavoro, e di economia, e di produzione culturale in senso vasto. Mi soffermo sul settore che conosco meglio, ma di fatto Roma è un polo culturale, molto forte, molto attivo, che produce una enorme quantità di servizi. Molti nomi stimati del nostro dibattito culturale, insegnano o hanno insegnato nelle università romane. CI sono tre università pubbliche, ci sono molte belle e funzionanti biblioteche, ci sono musei e teatri, e ci sono moltissime attività culturali transitorie. Per cui esiste una reale offerta culturale.  Anche in questo ambito molte persone, dal basso si inventano cose. Di fatto, è un po’ azzardato e riduttivo dire che Roma non abbia proprio occasioni, le ha in certi ambiti più che in altri e questo al di la della cannibalesco comparto della ristorazione – che invece personalmente ritengo un pericoloso cancro della città, che fa finta di promuoverne lo sviluppo ma in realtà è uno dei principali colpevoli della paralisi. Ossia c’è una Roma che produce soldi, e c’è una Roma che produce cultura. Dove nelle accademia si è fatta e si fa molta “scuola”. Entrambe faticano molto, entrambe fanno meno di quel che altri forse riuscirebbero a fare? non lo so, di fatto io ho una città che da cose di cui non capisco bene perché non fa molto fico parlarne. 

In ultima analisi non deve stupire, senza stanare chi sa che masochismo o rassegnazione, che arrivi quello che a Roma stia bene e la ami, ci faccia l’amore, ci faccia amicizie, ci lavori tra bestemmie ed entusiasmi, prendendosi le cene all’aperto in cambio delle file negli uffici, godendosi quel che può se ci riesce, dal momento che di godibile c’è ancora molto. Non è solo un fatto di bellezza è un fatto di cose che ci sono di benesseri materiali possibili con poco, diciamo è un fatto ecco di vivacità dello spazio, e di qualità degli scambi. A Roma, come mi disse una editor di einaudi dopo aver lasciato la capitale per andare a lavorare a Torino, succedono le cose, si fanno le cose, il mondo accade. E questa cosa me la diceva, con una comprensibile nostalgia, nonostante entrambe riconoscessimo insieme gli adorabili pregi della sua nuova città.

Modesta conclusione

Io non so bene cosa proporre per migliorare le cose che rendono la città così faticosa. In primissimo luogo non ne ho le competenze, in secondo luogo non ho una storia di attivismo politico tale da consentirmi di fare delle proposte davvero sensate. Vincere la battaglia dal lato dell’amministrazione mi pare un compito titanico e mi chiedo cosa serva. Non lo so davvero. Mi pare che il tema della spazzatura sia prioritario,  perché questo sporco è davvero un modo di intendere la città, e ci fa credere che noi la pensiamo così dì sporca, che noi stiamo comodi nello sporco, e questo è veramente malsano e nevrotico, nessuno sta bene nello sporco, non dobbiamo starci manco noi romani. Anche qui ci sono complicati equilibri di potere, sia tra lecito e illecito, ma anche nelle stesse aree del lecito, a forse questi equilibri sono tali, perché gli investimenti narcisistici nel modo di parlare della spazzatura, rimangono più importanti del disagio che procura la spazzatura, e che ho la sensazione, la nevrosi cittadina non faccia prendere sul serio.

Così come mi sembra prioritario un ripensamento della ristorazione e dell’offerta turistica perché queste due cose, mi pare stiano sostenendo  la città in modo falso, cannibalizzando spazi pubblici e creativi, togliendo spazi ad altre modalità di beni e servizi, e distorcendo in modo molto grave il costo delle abitazioni per i romani e per le persone che lavorano nella città – è un problema che Roma condivide con altre città d’arte, è fortissimo anche a Firenze e Venezia. Il turismo è un’imprenditoria facile, ma oltre a una certa soglia ha qualcosa di tumorale, di falsificante, perché alla fine, fa cambiare il modo di vivere la città proprio ai cittadini stessi. Molti alberghi e b&b alzano gli affitti, e infine ci si ritrova con una città in cui in ventottennne ha un lavoro, ma non può pagarcisi una casa, e userà lo stipendio per andare solo ed esclusivamente nei posti per turisti,a mangiare,  mentre molta progettualità è sabotata, di vita privata ma anche diciamo, di vita imprenditoriale. Di concerto, le maglie dei piccoli poteri e delle burocrazie fanno il loro per sabotare la creazione di nuovi progetti. Si faranno lo stesso, ma con enorme fatica. E allora succede che, i fortissimi, per censo o anche per tigna e carattere, ce la faranno, altri soccomberanno.

Io posso solo parlare però di un aspetto non so quanto secondario, che è il modo di noi romani di pensarci e di pensare quello che facciamo, e di guardarci parlarne, e di guardarci fare le cose. 

Apprezzo moltissimo nei romani, o almeno nei miei, la consapevolezza del limite, l’autoironia. Perché in realtà, mediamente, al di la di uno stereotipo collettivo, no il romano non è affatto borioso, presuntuoso, la teoresi di roma caput mundi è tramontata da un pezzo. Ed è uno dei motivi per cui, mi perdonino i miei amici milanesi, per quanto io consideri l’orgoglio milanese comprensibile, io quel senso di facile giudizio su se stessi e sul reale, lo trovo poco interessante, poco attraente, poco gradevole, e appoggiato su cose che non sono le linee rette delle loro vie urbane poco utile. Mi rendo conto che questa consapevolezza di grandezza tramontata, di lotta quotidiana per portare a casa il risultato normalmente non vista, di tutti quelli che lavorano a roma, rende spesso i romani piacevoli. Ma è una simpatia autolesionista. Abbiamo smesso di vantarci da cinquant’anni a questa parte e tutti i mediocri del mondo sono molto contenti. Ma è una simpatia tafazziana.

Questo autolesionismo poi scivola in molte persone, è un fatto e va detto, in una pigrizia rassegnata piena di malagrazia. Un problema di attitudine mentale che parte di Roma condivide con molte persone di altre città meridionali: Napoli, Palermo – anche quelle ricche di risorse e di gente che fa il suo. Non si pulisce perché tanto, non si fanno cose perché tanto, si lavora proprio se, non ci si spreca perché. Ci si racconta anche una città più povera di quello che è, con meno risorse di quelle che ha, allo scopo di imbellettare un alibi mentale rinunciatario e vittimista. Questa cosa ci impaluda e ci deresposanbilizza, soprattutto questa cosa mi sembra il terzo polo su cui si poggia l’equilibrio di poteri sclerotizzati, l’inerzia che non fa spostare la bilancia: per i tassisti o contro i tassisti, per l’inceneritore o per l’impianto di riciclaggio, per lo sveltimento dei cavilli burocratici che ingabbiano i municipi o per la riorganizzazione radicale degli uffici. La battaglia politica a Roma è lasciata solo a chi sente l’odore del potere, con pregi e difetti. I poteri si agganciano tra di loro si immobilizzano e molte cose che possono andare bene a Roma si fermano.

Non ovunque. Dal basso della mia esperienza di cittadina che usufruisce: di ospedali, scuole pubbliche, mostre, università, offerta culturale, in rete con altri soggetti che vivono la città dal basso, mi pare che ci siano delle aree dove la miscela tra inerzie e poteri sclerotizzati non sia entrata. Tra lo sciovinismo di marca milanese, o per fare un altro esempio di stereotipo popolare  – parigino e francese – e il disfattismo di ispirazione meridionale, penso che dovremmo cominciare a considerare noi romani come un oggetto di un nostro saper fare, quelle buone prassi, quelle buone scuole, quei buoni ospedali, quelle buone aziende, quei posti creativi ben gestiti dove si fanno cose belle, cose che funzionano, cose utili, cose che fanno la qualità della vita in città. Io penso che questo filo sottile (dall’Angelo Mai allo Spallanzani, dalla libreria Tuba alla facoltà di Fisica, dalla scuola di musica popolare di Testaccio a Facile Ristrutturare, e sinceramente potrei continuare per ore) andrebbe riconosciuto come proprio, per un orgoglio di medio raggio, e una assunzione di responsabilità, dal basso di quello che non funziona. In effetti, la responsabilità senza orgoglio va spesso poco lontano.

3 pensieri su “Su Roma

  1. Grazie per questi excursus ché racconta Roma ma soprattutto l’igiene mentale con la quale guardare la realtà. Come sempre un’occasione di riflessione e crescita

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  2. Un’immagine di Roma reale, dove si valutano le qualità ma non si omettono i difetti nelle varie gestioni .Uno squilibrio fra passione, creatività, amore per la città, impegno civico e un malgoverno che subisce malcostume , baratti, ricatti ….una soluzione? Difficile trovarla in breve

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