Una volta, sul mio vecchio blog, scrissi un post che parlava di diverse cose e in particolare di antisemitismo, e dei sentimenti con cui gli ebrei solitamente affrontano la questione. Quel blog era, molto più di questo, intriso di riflessioni personali, e il post riportava i miei sentimenti sulla questione: il mio modo di viverla più che di pensarla, i gradi di rabbia e di allarme. Era un tema quello, su cui mi è capitato di tornare spesso, e non è affatto escluso che mi ricapiti di farlo: l’argomento suona in effetti come un conto in sospeso che non si riesce a saldare mai. Tuttavia è un tema che ingenera una serie di reazioni e di scambi che, trattandosi di un nervo scoperto, mi chiedono più energia di altri – e per questo motivo, per il momento se ne sta accantonato.
Oggi lo tiro fuori infatti, per parlare d’altro. A quel post risposero molti commenti, tutti molto affettuosi empatici e gentili. Mi fecero nel complesso molto piacere, e pensai quante care persone comprensive girassero per la rete. Intervenne però anche un mio collega con cui ci infilammo in una discussione sgradevole: il collega ridimensionava l’impatto della discriminazione ma rivendicava di sapere come ci si sentisse qualora capitasse. Rivendicava di condividere il vissuto di chi magari aveva dei parenti morti nei forni o dei genitori che non guarivano dal passato. Fu una situazione moderatamente sgradevole – perché molto mediata dal mezzo – che esemplificava però una questione molto frequente.
Cosa vuol dire capire l’altro? Vuol dire immaginare? Vuol dire immedesimarsi? Vuol dire rivivere? Vuol dire saper inventare? E ancora, cosa possiamo trasmettere all’altro? Comunicare? E quando ci si imbatte nell’esperienza del tragico, che cosa succede? Dove dobbiamo andare?
Il tragico unisce – ma il tragico può dividere inesorabilmente nostro malgrado, e questo ordine di domande sono molto importanti per tutti, ma per gli psicologi e gli psicoterapeuti sono qualcosa di imprescindibile – il modo con cui la loro equazione personale li porterà a reagire e ad approcciarsi alla questione sarà dirimente.
Indubbiamente la questione dell’ebraismo è un ottimo trampolino di lancio per spiegare questa area delicata della comunicazione, perché soprattutto con l’Olocausto, satura tanti aspetti importanti della questione che si ripropongono regolarmente anche con spettri di narrazione del tragico molto lontani, e in più è un tema collettivamente affrontato talora persino inflazionato, ma dalle variabili divulgate con film, libri e lezioni a scuola.
In primo luogo c’è il dispiegamento dell’evento tragico, il trauma della violenza dell’uomo sull’uomo, la cosa che procura orrore morale. In secondo luogo c’è il modo in cui quell’evento continua a vivere nel modo di pensare e di categorizzare la realtà di chi vi è sopravvissuto o ha raccolto il trauma dei suoi genitori e l’ha portato addosso – per gli ebrei, come per gli eredi di altre popolazioni perseguitate i clinici parlano di trasmissione intergenerazionale del trauma. In terzo luogo c’è il fantasma del ritorno dell’esperienza traumatica, a volte per gli ebrei sostenuta non tanto da una patologia interna ma dalle prove esterne che l’antisemitismo è una patologia culturale che non passa mai. In quarto luogo c’è l’unico amaro vantaggio della potente storia traumatica, vantaggio spesso invidiato da chi è in una posizione di debolezza psicologica, o di narcisismo clinicamente inteso, per cui il trauma performa identità, dice qualcosa dell’io, diventa oggetto di una sorta di orgoglio.
Se trasferite tutti questi gradi dell’effetto traumatico in questo caso dell’olocausto e della discriminazione ad altre esperienze del tragico – vedere i propri genitori sparire sotto i colpi di militari in Siria, scoprirsi titolare di una diagnosi infausta e cattiva, sopravviversi a una dipendenza da droghe diventata pericolosa per se e per gli altri – farete caso alla persistenza di tutte queste variabili, che potrebbero essere pensate in una specie di ordine graduale: 1.La narrazione, 2.la struttura in personalità, 3.la persistenza di paure, 4. la rivendicazione identitaria. Sarà interessante vedere a quale grado di comprensione dell’altro tendete a portarvi spontaneamente, o tendevate – prima della lettura di questo post – perché più ci si ferma in basso, più la comunicazione sul tema del tragico diventa minata. Moltissime persone infatti a dire il vero non di rado quelle che per tanti aspetti sono migliori di altre, per intenzione, buona fede, qualità morale dei pensieri, credono di coprire tutti e quattro i punti ma sono fermi al punto uno, o si allungano solo celebralmente al punto due, sottovalutando il punto tre, e ignorando il quattro, facendo invariabilmente arrabbiare l’interlocutore. Soprattutto cadendo nel tranello per cui capire intellettualmente e provare sentimenti analoghi sia la stessa cosa. Ma capire intellettualmente, e immaginare cosa prova l’altro, non può equivalere a vivere e provare le stesse cose, e non equivalendo rimane una zona d’ombra emotiva, la zona d’ombra che cercano di coprire le arti, e che riguarda l’esperienza del dolore.
Possiamo noi davvero dire all’altro cosa si prova quando fa male un dente?
Figuriamoci quando fa male la vita.
La capacità di immaginare l’esperienza dolorosa dell’altro è una sorta di paio di occhiali che riesce a correggere la miopia strutturale dell’umano. Porta addosso una sorta di errore di sistema di misurazione però, ossia la capacità di capire e immaginare è un paio di occhiali che produce una visione dell’altro più nitida, ma non combacerà mai con l’altro, se non altro perché gli occhiali te li puoi togliere, mentre quello è costretto allo sguardo perfetto su di se. Si sottovaluta molto quando si ascolta il tragico la differenza strutturale che c’è tra il poter scegliere di stare dentro una storia e il non poter scegliere. E nelle situazioni in cui si crea una – sempre pregevole – indignazione collettiva, si scambia quel calore politico per il trauma, con l’esperienza traumatica stessa: siccome non si parla d’altro che di Schoah e io ho scoperto che cose bruttissime hanno fatto io guarda sto come te, uguale uguale! Ma non è vero, perché tu puoi smettere, mentre una persona che per esempio abbia i figli alla scuola ebraica, non può. Nella stessa misura non starai come quel tuo amico che fra sei mesi deve controllare se gli torna il carcinoma.
Portarsi avanti nella comprensione dell’esperienza traumatica, implica dunque l’arrivo a una soglia di equilibrio che stia un passo dentro a tutta la storia, e un passo fuori, un’appropriazione che sia come dire quasi totale ma che sappia di non essere mai completa, almeno come statuto teorico, come bussola orientativa. E’ utile lasciarsi sempre uno spazio che possa essere coperto da quell’in più che l’altro cercherà di trasmettere, senza mai riuscirci del tutto. Questa cosa, è particolarmente utile a noi che facciamo il nostro mestiere, o a quelle figure professionali che vanno in contro a situazioni di più probabile contatto col trauma, gli insegnanti, i medici e gli assistenti sociali, ma spiega anche molto bene perché gli psicoterapeuti che hanno qualcosa di rotto nella storia personale sono facilitati nel loro lavoro più di quanto siano le persone che non abbiano avuto nessun problema.