Piccole truffe di doloroso occidentalismo

(Per un certo periodo ho accettato su Facebook le richieste di amicizia di fantomatici militari americani o affini, mi sono molto divertita e ne ho fatto uno studio personale. Eccolo qua, nella versione integrale. Se vorreste invece leggerne una versione relativamente più corta, potete godervi l’articolo che è uscito su Marie Claire di novembre. In ogni caso, buona lettura)

Peter Ronald è un ufficiale dell’esercito americano, appare come un uomo deciso, di una certa età un po’ sovrappeso, ma come dire nel ruolo, nelle tre foto che appaiono nel suo profilo Facebook. Mi chiede il contatto e mi dice in un inglese approssimativo, che è militare dell’esercito americano, in missione di pace in Afghanistan, che è vedovo con una figlia. Fondamentalmente mi contatta perché cerca l’amore, e pensa di trovarlo con me dice, in base alla mia bellezza sfolgorante.

Medesimi propositi e giudizi estetici condivide Paul Brown anche lui militare dell’esercito e pur esso vedovo però stanziale in Corea, dove si trova a controllare nebulose questioni atomiche. Anche l’inglese di Paul è piuttosto creativo, e se è possibile riguardo le sue attività in Corea è ancora più evasivo. In compenso è bastata la mia foto di signora quarantenne poco celatamente sovrappeso, castana e con gli occhiali a farlo innamorare perdutamente di me.
Ma ci sono anche Eric, e Donald. Ammiragli di flotte navali, anche loro innamorati di me, tutti poveri vedovi, che cercano moglie e chiedono credenziali: sei sposata? Hai bambini? Vivono con te? Si? No? E bisogna dire che, siccome amor vincit omnia, che io risponda di essere sposata o meno è assolutamente irrilevante, come risulta altrettanto irrilevante che io risponda sono artigiana del legno oppure, faccio la psicoanalista e la scrittrice, collaboro con dei giornali. John Eric e Donald quasi tutti seguiranno imperterriti il loro copione amoroso, senza apporre alcuna variazione. Ti amo, voglio fare per te tutto quello che vuoi. Voglio vivere con te il resto della mia vita.

Comprami un clinica residenziale per il trattamento dei disturbi bipolari – ho detto io, che soffro tanto del ritiro del pubblico dall’investimento nella salute mentale.

Certo – mi ha detto John, senza fare una piega, te la compro – per te tutto!

 

Quella volta, per un’ora mi sono beata del fatto che John mi comprasse la clinica dei disturbi bipolari, ma a stretto giro è arrivata la doccia fredda. Infatti pare che la banca di John non liberasse certi suoi fondi liquidi e avesse bisogno di avere una garanzia. Devi scrivere tu alla banca! – Mi ha detto John – scrivi che ti servono i soldi! Ah ok buona idea, a chi scrivo? Scrivi a Deutschbank@yahoo.com .

Io, che sostanzialmente avevo già in mente questo articolo l’ho fatto, e come era presumibile mi ha risposto qualcuno, probabilmente il solito John, che diceva – guarda non li possiamo liberare questi soldi.
Comunicato l’esito, il mio promesso sposo mi ha detto che non mi avrebbe potuto raggiungere, e che aveva bisogno di soldi, mannaggia. Non è che gli potevo alzare 5000 dollari? Da dare a quelli Della Deutsch Bank?
Li il nostro amore è finito.

Si tratta di una truffa che va per la maggiore da qualche anno, in diverse declinazioni, che passano tutte dai social network. Piccoli criminali, sparpagliati nel globo terraqueo, ma spesso nell’Africa orientale o nell’Europa dell’est, moltissimi in Nigeria e Ghana – probabilmente eterodiretti, sfruttano identità fittizie appartenenti a veri membri dell’esercito americano. E’ una truffa conveniente perché non ha costi vivi come si dice nelle aziende, perché per quanto dalle mail si possa anche rintracciare l’ip, o la storia della creazione dell’indirizzo, nove volte su dieci si approda a un internet caffè, ma non a un nominativo reale, e quand’anche ciò accadesse, e si riuscisse a capire chi è il reale autore del raggiro, quello sarebbe sottoposto alla giustizia del paese in cui opera. Certo, c’è stato il caso due anni fa di due signore del Colorado madre e figlia, 63 e 42 anni che nel 2013 erano riuscite a incassare svariate centinaia di migliaia di dollari, di cui però avrebbero trattenuto solo il dieci per cento, per poi inviare denaro al altre destinazioni – soprattutto nord Africa. In effetti, un numero impressionante di volte la truffa ha dato risultati elettrizzanti. Una donna inglese pare abbia sborsato 60’000 sterline nel 2011, e molte molte donne si sono lamentate con l’esercito americano chiedendo un risarcimento. La questione avviene talmente frequentemente che attualmente il sito dell’esercito ha una pagina ad essa dedicata in cui declina ogni responsabilità, e parimenti da un po’ di consigli di base per aiutare le donne a non caderci.

Questi militari americani hanno profili molto spogli e spesso poco usati. Non hanno contatti,   le poche foto che postano non sono state laikate da nessuno, e non scrivono niente sui loro profili. La loro tecnica di abbordaggio, salvo rarissimi casi, prevede un copione in cui si chiede età, stato civile, se ci sono figli, se una lavora. Ottenute queste informazioni anche con uno scambio piuttosto asciutto, il milite dichiara il suo stato civile – in prima battuta sono sempre vedovi – e di essere anche molto innamorato della bellezza che ha visto in foto, per cui vuole cominciare una relazione e se è il caso sposarsi. Tutto è di una brevità surreale – solo alcune volte, si verifica una variabile un po’ più decorata che inneggia alla bellezza e gentilezza e devozione della donna corteggiata. Ma anche questo secondo corteggiamento, prescinde dal qualsiasi caratteristica della sua persona e ha qualcosa di preconfezionato – le foto del profilo sono comunque ignorate. Segue un periodo piuttosto breve di corteggiamento e narrazione – che può riservare momenti di buon intrattenimento e dura un due o tre giorni. I militari americani sono tutti in zone esotiche come l’Afghanistan, la Siria, e possono succedere delle cose emozionanti, il capitano Paul per esempio mi ha mandato la foto di un suo soldato maciullato nel pomeriggio – intravedendo in me segni di incredulità. Altri indugiano in momenti narrativi come l’ammiraglio Eric, che vorrebbe lasciare la marina canadese per darsi al commercio del petrolio, però purtroppo mentre era a largo dell’oceano indiano sono arrivati i Pirati, e dal suo smartphone mi ha scritto che è in grande difficoltà perché gli stanno prendendo tutti i risparmi – una storia, effettivamente deliziosa. Mi ha chiesto quindi, se poteva recapitarmi 500’000 sterline in contanti a casa – opzione che io ho considerato azzardata.
Questa comunque è la fase cruciale della cosa: si chiede di ricevere dei soldi per mascherare la truffa che arriverà poco, dopo con una seconda richiesta.

Colpiscono delle cose. Per esempio il fatto che l’inglese è spesso pieno di errori, e che la conoscenza della rete sembra essere piuttosto sommaria, anche dello stesso mezzo facebook. E questo è affascinante, perché siccome la truffa spesso riesce, da delle indicazioni anche sul tipo di donna che vi cade più facilmente: qualcuna che non sa usare i social allo stesso modo, che ne ignora la loro intrinseca natura sociale. Una donna che non si insospettisce se uno ci ha un profilo senza amici e senza relazioni e che inoltre ha un’idea delle grandi istituzioni piuttosto grossolana.
Scrivi a Deutschbank@yahoo.com!

E ancora. Lo stilema relazionale dell’abbordaggio di questi truffatori, prescinde a piè pari dell’identità dell’interlocutrice, salvo qualche raro caso come l’ammiraglio Eric – di gran lunga il più talentuoso, che avendo saputo che sono psicoterapeuta mi ha raccontato di essere figlio di un padre alcolizzato e abusante, e che è cresciuto leggendo manuali di auto aiuto – un’allusione questa forse, al titolo del mio ultimo libro.
Altrimenti arrivano domande come – qual è il tuo hobby e il tuo colore preferito? Dopo di che a testimonianza delle loro serie intenzioni mandano foto di un gusto raccapricciante – cuori contornati di spine, anelli di diamanti stilizzati, e foto di maschi e femmine che si corteggiano e si baciano. Queste cose, insieme alla frequenza con cui ritorna nei dialoghi con loro Dio, l’importanza di una donna timorata di Dio, religiosa e attenta, “onesta” confermano il sospetto secondo cui si tratti di persone per lo più africane, lontane dalla cultura occidentale, che non la masticano e non la capiscono – la idealizzano la stilizzano in un’immagine loro. Mi ha colpito per esempio constatare come il copione seduttivo, non cambiasse di una virgola nei casi in cui io ho dato informazioni reali sul mio curriculum, come se il fatto che io scriva libri, collabori con giornali, faccia la psicoterapeuta non aggiungesse niente – come se questa variabile sociologica fosse per molti non includibile nel panorama, non implicasse variazioni di piano. Anche quando ho esternato tutto il mio cotè intellettuale, o cinico , invariabilmente mi è stato recapitata l’immagine di un signore in ginocchio che porge dei fiori a una damina, e poi un messaggio di gioia per aver trovato una donna gentile e timorata di Dio.

In tutto quindi si tratta di un tentativo di simulazione di relazione tra soggetti competenti occidentali, che si muovono però in un occidente stereotipico e immaginato e poco dominato una sorta di Occidentalismo. Se sull’Oriente del nostro mondo intellettuale Edward Said metteva l’esotismo, la seduzione erotica, il magico e il misterico, lo strano – il lunare e il femminile del mondo, i finti militari finti americani sono gli araldi di un immaginario testosteronico e avventuroso, ma anche vecchio e potente: sono scelti profili di generali over 50 qualche volta anche over 60, quasi mai con un fisico atletico e un bell’aspetto, pancia invece e capelli bianchi, che più spesso emanano un’idea di potere incarnata dal superiore del protagonista nei film di guerra, mai dal protagonista bello. Sono l’incarnazione dell’Occidente che ancora solca i mari del mondo, combatte le guerre, conquista il territorio, e che a sua volta corteggia un femminile archetipico e remoto, secondo un’idea della dama bianca che ricalca immaginari di culture ancora rurali, e dove vige ancora una forte discriminazione di genere. Lei sarà contenta perché definita pura, virtuosa, gentile, modesta, e per qualsiasi dama, secondo l’immaginario occidentalista, però permeato di oriente, lei sarà contenta. Si sentirà gratificata. Tutto è estremamente archetipico e poco codificato sul piano dell’io, poco individualizzato – tutto si gioca sul piano dell’uomo e della donna immaginari, che sul piano dell’uomo e della donna reali, diversi l’uno dall’altra. Il che nel nostro contesto comunicativo procura un oggettivo effetto straniante e comico. Come quando questi corteggiatori inviano le foto di due ragazzi che si baciano sulla spiaggia, come a dimostrare l’intenzione baciatoria e romantica. Una donna moderatamente sana dice: scusa è, ma a me di questi che mi frega?

E le donne che ci cadono?
Spesso sono donne single, e spesso di ceto sociale mediobasso, o comunque con pochi strumenti per decodificare le proposte on line. Più frequentemente divorziate, o mai sposate, il desiderio di relazione deve far loro abbassare molto le difese e un livello di autostima molto basso deve far loro accogliere quei generici complimenti come qualcosa di autentico e credibile, desiderato. Alla percezione di se come poco differenziata deve corrispondere quel corteggiamento poco curato, deve risultare riempitivo e soddisfacente. Ma sicuramente devono essere anche donne molto povere di strumenti culturali per non riuscire a decodificare per tempo segni lampanti di raggiro, perché le storie raccontate sono incredibili e poco aderenti la realtà. L’ammiraglio Eric per esempio voleva mandarmi per posta, 500’000 sterline in contanti – Roba che manco 007 Dalla Russia con Amore. All’Ammiraglio Eric ho dato allora un indirizzo fittizio e lui hai dichiarato di aver mandato li i soldi. Di li a poco mi è arrivata la ricevuta di una presunta ditta di trasporti che mi chiedeva di sganciare 1700 euro per avere il pacco dell’ammiraglio.
La ditta di trasporti mi scriveva in un italiano pieno di errori, diceva di aver ricevuto un pacco “dall’oceano indiano” da parte di mio marito Eric (sic) e tutto era qualcosa di più simile al monopoli dei miei bambini che a un traffico internazionale. Donne quindi che non hanno strumenti culturali a sufficienza per discriminare tra gioco e realtà laddove le stimmate del gioco sono lampanti.

Si tratta dunque di un curioso fenomeno ellittico, una scarsa conoscenza del mondo e della rete dal sul del mondo parte alla volta della rapina del nord del mondo – la dama bianca! – intrecciandosi in forme di ignoranza che gli osno omogenee. Dietro c’è il sapore di una dolorosa rivalsa segreta. Tutti i militari a cui ho rivelato alla fine che non ho mai creduto a niente di quello che mi avessero detto, che non solo ero davvero felicemente sposata con figli ma anche proprio interessata alla comprensione scientifica della questione, mi hanno coperta di terribili insulti, qualcuno però mi ha detto – devi stare attenta, un giorno conoscerai questo buco del culo del mondo, e allora vedrai.

 

 

 

 

 

 

Psichico dentro facebook

In una recente conferenza stampa Zuckerberg ha dichiarato che presto ci sarà, disponibile su Facebook il tasto non mi piace, con il pollice verso. Servirebbe a comunicare – pare abbia detto – il dispiacere e l’empatia per post che riguardano un fatto brutto – come un lutto, una malattia, un problema sul lavoro – per i quali la possibilità del like era considerata piuttosto stridente. Mi pare un’operazione fulgidamente americana, che risponde cioè a una certa idea che abbiamo noi della priorità che ha il marketing negli USA e di come questa priorità venga dissimulata da un apparentemente lodevole e disinteressato buonismo. Per quanto Zuckerberg dichiari una funzione gentile del tasto non mi piace, non potrà certamente controllarne l’uso che ne verrà fatto sui social, e il suo potenziale oggettivamente conflittuale. Il mio sospetto è che questo potenziale conflittuale sia stato anticipatamente calcolato e anzi auspicato in quanto remunerativo: Facebook è un servizio gratuito che si mantiene grazie alla pubblicità – la quale ha maggiore ragione di esistere in virtù dei tempi di permanenza dell’utenza. La conflittualità e la polemica aumentano i tempi di permanenza, e io immagino una serie di conseguenze al già alto tasso di scambi aggressivi in rete.
Il tasto non mi piace è una istigazione al coming aut del dissenso. Ci saranno quelli che diranno semplicemente che un certo contenuto a loro non piace, e ci saranno quelli a cui, per la gioia degli sponsor, non parrà vero di spiegare perché.
A scanso equivoci – io potrei essere una di quelli.

Le persone che frequentano quotidianamente Facebook e che lo usano molto, si diversificano nello stile di relazione, con differenze che prendono origine dalla loro struttura psichica. In molte hanno delle specifiche modalità aggressive che sono rispondenti a certe loro forme del carattere – in alcuni casi non del tutto esplicitate nella vita quotidiana, anzi addirittura insospettabili. Con aggressività qui intendo un concetto molto vasto che copre non solo le persone che si esprimono aggressivamente con attacchi verbali plateali, ma anche altre forme più sottili di prevaricazione invadenza e attacco, magari non immediatamente individuabili. Per esempio ci sono contatti che non partecipano mai ad alcuna cosa che dici, ma proprio mai, quando ridi, quando sei contento di qualcosa, quando hai scritto qualcosa che potrebbe trovarli d’accordo – ma compaiono esclusivamente quando posso manifestare un amaro dissenso. Si ha la sensazione che ci sia una forma di insicurezza dietro, perché quando arriva questo dissenso si ammanta della convinzione di una superiorità morale. E certo salta agli occhi il travestimento di un’aggressività trattenuta.
Altri, fanno arrivare un comportamento aggressivo e invasivo reiterando fino alla nausea il dissenso, quando è ormai chiaro che le posizioni sono distanti e non c’è molto da aggiungere – una sorta di accanimento terapeutico che rinvia forse alla difficoltà di tollerare una mancata egemonia sull’altro, che forse viene tenuto in eccessiva considerazione. Altri ancora per esempio criticano qualcosa di scritto non già per i contenuti ma per l’apprezzamento che ha ottenuto presso altri. Molti infine, se non si controllano, sentono che un’aggressività sia legittima perché sono state toccate con malagrazia delle corde delicate – anche nei casi in cui l’interlocutore non aveva intenzioni realmente aggressive. Altri ancora sono aggressivi per tagliare le gambe all’interlocutore.
Posso immaginare che questa vasta compagine di gente con una parte di se diciamo litigiosa e animosa, possa trovarsi maggiormente imbrigliata nell’opzione non mi piace, e nella reazioni alle spiegazioni del suo uso.
L’aggressività è un gioco di palleggi.

A cui non giocano tutti – va detto. In tanti sanno difendersi con poco sforzo, per struttura caratteriale per gioco di strategie difensive e adattive, per grado di immersione nelle dinamiche della rete. Per momento di vita.
In primo luogo incide semplicemente la frequenza con cui si usa Facebook. Se ci si viene ogni tanto durante la settimane o la giornata, ci si autopercepisce come separati, le relazioni vengono avvertite come oggetti scritti, testi, letture. Cose provvisorie. Molti però fanno di Facebook una seconda stanza esistenziale, sia per una maggiore familiarità con la comunicazione scritta, una sorta di intimità, che per la vita quotidiana che hanno: non so se per affinità con me, che sono grafomane in senso stretto, ma io sono in contatto con molti giornalisti e scrittori e traduttori, o giornalisti scientifici e professionisti della parola scritta. Gente che ama la parola e che lavora molto in solitudine. Comunque ci sono tante persone che tengono Facebook aperto mentre fanno altro e ci scrivono frequentemente con naturalezza: ci scambiano opinioni e cronache quotidiane. Più il tempo trascorso sul social è lungo, meno le interazioni vengono percepite come scritte e lette e mediate, rappresentate, più vengono vissute come reali e coinvolgenti. Quindi molto inciderà il secondo fattore, ossia come questa o quella personalità interagisce nelle sue relazioni, quanto si spende, il suo grado di estroversione e di reattività, l’investimento emotivo che mette nelle cose. Soggetti riservati e distaccati nel quotidiano o molto freddi lo saranno anche in rete, e forse saranno più resistenti sulla lunga durata, soggetti più estroversi immediatamente emotivi, con forti investimenti libidici sulle relazioni potrebbero più facilmente sentirsi imbrigliati e imbrigliabili.

Ci sono poi, ho notato, situazioni esistenziali che espongono a una maggiore fragilità e a un grado maggiore di dipendenza dalle relazioni di rete. Il primo amico che ha chiuso il suo account era un uomo che stava molto in rete al tempo della sua separazione, e tendeva a raccontare molto della sua dimensione privata. E’ un uomo estroverso, solido benché sensibile, ma mi rendevo conto come lo stato di recente separazione e solitudine gli lasciasse come un contenitore emotivo cronicamente insaturo che veniva saturato dai dialoghi on line. Questo lo portava a rivelarsi troppo, a darsi in pasto a un’opinione pubblica sconosciuta, a essere oggetto di dibattiti, e certo aggressività e colpi bassi. Lo stato di bisogno relazionale – nienti più bimbi per casa, niente moglie a cena – lo metteva in una condizione come dire, di maggiore ricattabilità. Questa cosa capita anche con altri stati di crisi, addosso a certo tipo di personalità: per esempio le malattie. Che rendono bisognosi degli altri e portano certi lati oscuri del carattere a emergere con più frequenza.
Tutto questo vuol dire che negli stati di crisi, di insaturazione relazionale, o di malattia, l’aggressività è prodotta più facilmente e percepita come più efficace, e le relazioni scritte come più salienti di quanto accada in altre circostanze.

Questo post è nato per riflettere sulla decisione che alcuni miei contatti cari hanno preso e che ogni tanto valuto anche io – ossia, di lasciare il social network più importante. Credo che la difficoltà a negoziare con i propri bisogni di dipendenza, con i nostri modi di gestire le relazioni, anche le idee stesse di relazione, sia alla base di alcune defezioni. Come se di fronte a un compito emotivamente troppo arduo, che sarebbe quello di ricalibrare le proporzione e di sdoppiare nuovamente, scindendo tra relazione di rete e scritta e narrata e relazione di vita vissuta e incontrata, fosse troppo complicato e lungo e faticoso, sentimentalmente difficile. Siccome però trovo non troppo salubre questo schiacciamento tra reale e virtuale, la decisione per quanto drastica e per quanto comporti delle rinunce mi pare saggia. Forse una via rapida, forse brusca, ma perché no.
Che cosa ci raccontiamo se prima non viviamo? Se non siamo capaci di vivere prima di narrarci – ben venga una brusca inversione – che sospenda la narrazione.

borghesia 2.0

Episodio uno: qualche giorno fa L’Isis ha fatto circolare l’ultimo dei suoi video più impressionanti, in cui un pilota giordano era arso vivo. E’ l’ultima produzione cinematograficamente macabra di quelli di IS. Prima di questo video sono circolati quelli delle donne uccise a sassate per adulterio, dei prigionieri sgozzati, degli omosessuali lanciati dall’ultimo piano di un palazzo, e altri ancora altrettanto orripilanti. La rete, come emotivamente prevedibile – ha risuonato, si è scossa e indignata in buona fede: su tutti i social network le immagini sono riverberate seguite da commenti e riflessioni molto preoccupate e arrabbiate.

Episodio due: qualche giorno fa ero in rete e discutevo di vaccini: molte persone ad oggi stanno mettendo in discussione l’opportunità di vaccinare i propri bambini e io, con un certo scoramento, discutevo con alcune di queste persone. Erano interlocutori laureati, con un modo di disquisire sintatticamente e logicamente strutturato, che avevano accesso a una larga fetta di informazioni – superiori a quelle che avevano i nostri genitori quando siamo nati noi – ma che mi sembravano dimostrare l’assenza di alcune difese importanti diciamo per non uscir di metafora – mancavano delle difese immunitarie del soggetto politico e del cittadino medio. Difese che abbiamo fino ad ora applicato in maniera talmente automatica, da renderle oggi difficili da individuare.

Il punto di convergenza di questi due episodi e degli argomenti di cui sono al centro, è la cittadinanza due punto zero, ossia quella fascia della popolazione mediamente istruita e non angariata dal digital divide che accomuna geografie e storie diverse. Questa popolazione nuova, mi si dispiega come una sorta di nuova borghesia, che a prescindere da delle condizioni economiche di partenza che possono anche essere svantaggiose o al contrario molto avvantaggiate, ha una buona istruzione, ha curiosità intellettuali e fascinazioni politiche, e dispone grazie all’effetto di un’istruzione di buon livello di un arsenale di medio raggio di strumenti per affrontare la realtà e forse, sempre in virtù di quella qualità della scuola pubblica che oggi si vuole prendere allegramente a sprangate, rivela una relativa compattezza ideologica, su ciò che è bene fare e ciò che non è bene fare.

Ma la caratteristica che ancora più contraddistingue questa nuova cittadinanza è l’uso della comunicazione tramite social, perché l’ingresso dei blog prima, di Facebook e Twitter dopo nella quotidianità della comunicazione ha trasformato i figli dei cittadini semplici di un tempo, in cittadini di diverso tipo. Perché succede questo: chiudono i quotidiani, reggono le versioni on line, scende il prestigio del giornalismo titolato, che si ritrova ad essere diffuso in rete sugli stessi media che usano i singoli cittadini per le loro comunicazioni, mentre questi ultimi abbandonano le conversazioni verbali con cui esprimevano i loro pareri e scrivono quello che pensano. Alla fine succede qualcosa che smette di essere un effetto ottico: i giornalisti esperti di questo o quell’argomento hanno un prestigio o una credibilità di poco superiori ai cittadini che esprimono pareri molto circostanziati e che magari a causa della loro estroversione e competenza relazionale hanno tanti contatti capaci di mettere in evidenza sui social network le loro posizioni.
La rete è democratica, la rete annulla le distanze! L’esperto di mediooriente ha tanti like quanto il ciccio formaggio, e il ciccio formaggio a sua volta – assume una rilevanza inedita rispetto a suo padre.
La questione ha implicazioni anche politiche: il tal parlamentare che magari è marginale rispetto al dibattito pubblico potrebbe avere in rete minore risonanza, per la sua magari non spiccata capacità a dominare il mezzo di quanta ne abbia invece il cittadino ics il quale, passando la giornata su internet dalla mattina alla sera è capace di diventare un opinion leader.
Questa cosa ha delle conseguenze importanti sullo statuto delle opinioni di questa cittadinanza, perché queste nuove opinioni sono infatti come dire, di grandezza fisica diversa. Non hanno la volubilità e la fatuità della parola detta, che oggi c’è e domani non si sa. Non sono pulviscolari come quelle di un elettorato anonimo la cui identità si indovinava incrociando dati percentuali e variabili sociologiche – quelli che votavano dc, quelli di sinistra quelli che. Sono opinioni grandi come messaggi scritti, piccoli mondi che diventano costellazioni di consenso, nebulose di like che rimandano la risonanza, diventano un oggetto culturale la cui manipolazione comincia a far gola e le cui reazioni diventano il termometro di un mondo di appartenenza.
Di questa cosa, si accorgono quelli di Is. Sognano di attaccare l’occidente, sognano di sconvolgerlo, e vogliono sentirsi potenti nel terrore che procurano, il loro gesto omicida conquista una postmoderna rigenerazione mediatica, la loro legittimazione arriva dal nostro scandalo. Sia detto a mo’ di inciso, nostro non tanto come occidentali, ma nostro come altri rispetto a loro, un’alterità che ci accomuna a molto mondo islamico, che oggi deve essere ancora più terrorizzato da quella minaccia, che ha visto ben più morti, e che però ha raggiunto un uso della rete non dissimile dal nostro.
La nuova borghesia globale 2.0.

L’accorciarsi delle distanze in termini di prestigio tra divulgazione di personale qualificato o rilevante per, e cittadinanza comune che esprime un’opinione – provoca però nuovi effetti anche in termini di qualità delle informazioni assorbite, e a cui si decide di accordare credibilità. Le vecchie e antidemocratiche gerarchie dell’informazione si configuravano per la loro diversa accessibilità come oggetti ultimi e come fonti citate, e la loro diversa possibilità di acquisizione: il giornale buono lo dovevi pagare, il libro ben fatto anche, posto che avevi i soldi per pagarlo lo dovevi capire, e non sempre potevi farlo nella tua lingua madre e senza altri strumenti suupportivi: c’erano meno mezzi di divulgazione e la decodifica di una nozione complessa aveva bisogno di enciclopedie, e dizionari e manuali di consultazione. La cultura era classista ma in una misura, non totale ma relativa anche più onesta.
Ora c’è la rete. L’informazione dell’alto approda insieme a quella del basso, delle volte ampiamente rimaneggiata, ossia decodificata per l’utenza, delle volte ampiamente travisata, molto spesso affiancata da baggianate di diametro inusitato, ma le decodifiche di affidabilità sono perdute, e tutta una serie di agghiaccianti e pericolose bufale si fa largo presso la nuova borghesia 2.0 che non sa più trovare strumenti per valutare ciò che la rete importa come veridico, sfruttando processi che anno anche a che fare con la psicologia cognitiva. E dunque, animalisti che credono che Spielberg abbia fatto guori un triceratopo, antivaccinisti che seguono con lo stesso gradiente di affidabilità il medico disconosciuto dalla comunità scientifica che parla di vaccini e autismo e il medico riconosciuto dalla comunità scientifica che nega la relazione. L’elemento determinante è la cornice della rete che fa da qualifica per se, oppure da squalifica altrettanto irrazionale – donde i complottismi di vario ordine e grado. Non ci credere, non è mai così.

La democrazia della rete ci piace tanto, l’annullamento delle differenze ci fa sentire più forti, più importanti. E infatti che bello! Su Facebook facciamo amicizia con scrittori famosi e personaggi televisivi che ci dicono cosa mangiano a pranzo e qualche volta diciamo qualcosa di davvero brillante e siamo veramente fichi! Che grazioso vantaggio narcisistico, quest’ascesa sociale in poltrona.
Ma intanto – nel mondo reale non cambia niente: politicamente rimaniamo complementi oggetti senza scavalcare alcunché per essere soggetti. I diritti vengono sempre più erosi, le condizioni economiche rimangono identiche e in ambito internazionale o meno – il nostro opinionismo altro non è che un oggetto usato a fini manipolatori – una cartina tornasole sulle cui reazioni basare le scelte future (per il momento in quale modo particolarmente glamour ammazzare il prossimo bambino – domani, chi sa). Allo stesso tempo diventiamo preda del truffatore e del ciarlatano abituati come siamo a considerare ciò che viene dalla rete ipso facto credibile solo per il fatto che viene dalla rete, e ci intortiamo in campagne di opinione che procurano il nostro danno certo – come la faccenda dei vaccini. La quale delegittima un sapere ufficiale proponendone la sostituzione con un altro che diventi altrettanto ufficiale senza avere le credenziali del precedente.
Forse occorre fare qualcosa.