Rimasi molto perplessa, e anzi anche altre cose come arrabbiata, per strano che possa sembrare, ma di più addolorata e dispiaciuta quando, all’indomani dell’attentato a Charlie Hebdo, i sopravvissuti alla strage avevano deciso di far continuare a uscire il giornale. Comprendevo una serie di ragioni che oscillavano dalla psicologia sociale, a quella individuale, dalla pressione economica a quella politica.
Il giornale doveva uscire, per dimostrare al cosmo tutto che l’attentato non era riuscito. L’umorismo iconoclasta di Charlie non doveva proprio ora, smettere di incarnare la tradizione di certa Francia, che brucia i nobili, che mangia i preti, che sputa la correttezza politica insieme ai chador fuori dalle scuole. Charlie era l’incarnazione novecentesca del settecento francese e la comune, di Voltaire e l’anticristo… e che si andava a rassegnare proprio quando c’era più bisogno? E che l’esile anarchia dell’umorismo cede alla dittatura del ricatto mortale? Noi Charlie abbiamo paura! E se tu cedi dobbiamo avere ragione di averla! Imploravano a gran voce Francesi ed Europei.
Non farci avere paura Charlie dunque e ingoia i tuoi morti con il solito sorriso.
Senza contare la valanga di quattrini che comporta il business tutto postmoderno del battutista martire.
Postmoderno. Il regno cioè dove ciò che per un’epoca e un mondo e una storia ha la lettera maiuscola – prende la lettera minuscola e cade tra le virgolette. Il luogo culturale mentale e psicologico dove gli oggetti vengono messi alla distanza di sicurezza della detrazione di sacro, in modo da poter godere leziosamente di essi senza sbattere le corna sul dolore. E’ un luogo, il postmoderno di gentilezza, di clima temperato, di kitch e umorismo infantile. Un luogo di democrazia e di pace. Dove il sacro è la rappresentazione di un mondo lontano, dove la morte è qualcosa di cui si può parlare, che si può evocare e ricordare. Nella dolce patria del postmoderno, il sangue è pomodoro, i cadaveri sono gli scheletri dei cartoni animati, le guerre di religione sono vignette e la povertà è la sua rappresentazione. L’amore postmoderno, come la sua amarezza, ha sempre qualcosa di diluito. Di sbiadito.
Ora ero perplessa, di fronte al tentativo di una sorta di postmodernizzazione lampo della morte – e dunque dell’ennnesima prova dell’irriducibile del sacro. Vedi il tuo amico di una vita insieme ai tuoi colleghi di sempre stramazzare davanti ai tuoi occhi di lunedi, e martedì pretendi da te stesso di poter subito narrare l’accaduto. Hai la prova emotiva della totalmente premoderna sacralità dell’ironia, ora devastata dalla violenza, e cerchi immediatamente di tornare a utilizzarla e a rinarrarla come se la ferita fosse soltanto un disegno brutto che rimane sulla pelle.
Ma la ferita mortale dell’ironia non è un segno in una rete di segni. E’ una contraddizione in termini destinata ad esplodere. E secondo me Charlie Hebdo non poteva continuare. E se da una parte capisco il disperato tentativo di combattere la sconfitta della propria ragion d’essere, per quanto riesca a indovinare e sentirmi anche vicina emotivamente a chi ha tentato il tentabile, non posso non considerare con perplessità la richiesta grave e patogena di un contesto culturale che ha imposto di non abdicare e che su quella fallace sopravvivenza estrema ha strutturato persino una fonte di lucro. Vai in edicola! Compra il numero della speranza!
A settembre Renè Luzier -lascerà Charlie Hebdo. Vignettista di punta, sopravvissuto alla strage per miracolo, aveva preso la direzione del giornale dopo Charb, ma non regge il tentativo e dopo qualche mese dalla strage si allontana dal periodico. Parlando disperatamente, dell’ossessione a ricostruirsi una vita. Non si può fare a meno di fargli tutti gli auguri di questo mondo, a lui e ai suoi colleghi, e non si può fare a meno di capirlo ora come forse allora, quando ha tentato con tutto se stesso di tenere in piedi ciò che ha amato, l’eredità di colleghi ora sentiti come sacri, e l’importanza tutta premoderna e terribilmente ineludibile di tutto quello che c’era di etico e di politico nella scelta linguistica di un settimanale satirico. Non ce l’ha fatta, come dubito ce la possano fare i sopravvissuti alla strage di gennaio, perché mantenere l’ironia dopo una strage è una contraddizione in termini psicologicamente poco sostenibile.
L’ironia è una difesa nobile, matura, adatta a prove in cui però, forze ben più determinate, potenti della psiche sono già entrate in campo hanno fatto il loro lavoro, e hanno vinto. Entra in scena quando la negoziazione è possibile, quando varie manovre di raffreddamento dell’aggressione sono state rese possibili, oppure semplicemente non sono state necessarie. Il problema epistemico di Charlie era questo, il credere che le manovre precedenti potessero essere sempre sostituibili quando erano in realtà ineludibili. Per vivere quella satira aveva bisogno di quegli altri che non la facevano, aveva bisogno dei giornalisti che facevano i reportage, e dei ricercatori che facevano le inchieste, e del sindacato che faceva le proteste, e dei politici che facevano la politica, e di tutte quelle agenzie psichiche del collettivo che svolgevano le funzioni psichiche del collettivo allo scopo di dominare il nemico di turno. Dall’aggressione della rivolta all’intellettualizzazione degli scrittori, c’era un mondo psichico e operativo necessario prima di difendersi nel sapido lusso della distanza ironica. Il piatto era già addomesticato.
O meglio, si è creduto che il nemico fosse addomesticato. Che il mortale era riconfigurabile in una narrazione possibile.
Invece la morte è entrata saltando tutti i passaggi in un contesto strutturalmente impreparato a negoziarci, almeno con questa sintassi. Se Charlie Hebdo fosse stato un giornale di inchiesta o politico, per dire, le persone che ci lavoravano trovavano nella scrittura una possibilità di negoziazione, un linguaggio psichico, una classe di azioni che le avrebbe un pochino aiutate, piuttosto che imporre loro cortocircuiti mentali a dir poco intollerabili. Con ogni battuta che chiede di compiere immediatamente un passo lontano da un passato che sta addosso, con un compito comunicativo che impone qualcosa che è contraddetta dallo stesso stato d’animo.
Io penso che la scelta di Luz sia più che comprensibile. E spero che lui e i suoi cari colleghi ancora forti e vivi e con tante cose da dire, comincino a farlo. Trattenenendo tutto il politico e sacro che non ritenevano opportuno manifestare in quanto tale, e lavorandoci con altri linguaggi altre difese, altre strutture mentali e stilistiche. Più adatte al loro momento di vita. E di cui possiamo ancora avere grande bisogno.