Premessa.
Nei giorni scorsi, una ragazza minorenne di Trieste ha partorito una bimba, e l’ha abbandonata al freddo, dopo di che la neonata è morta subito. Secondo la prima e piuttosto approssimativa ricostruzione dei fatti, la giovane non aveva capito di essere incinta né l’aveva capito sua madre. Ha dichiarato di aver portato la bambina fuori, credendo che fosse morta. Mettendola in una busta.
Per il momento, e io spero il più a lungo possibile. La stampa mi pare non stia indugiando in informazioni, nomi, circostanze vita delle persone implicate in questa vicenda. La quale, tocca corde talmente profonde, e particolarmente profonde per il nostro contesto culturale, che elicitano commenti viscerali e inutilmente aggressivi. Di contro però proprio per l’accecante aspetto emotivo dell’uccisione di un bambino, dell’infanticidio in una maniera un po’ approfondita non si riesce a parlare mai, l’opinione pubblica non ha la più vaga idea della vita e dei pensieri e degli stati d’animo delle donne che sopravvivono ai figli che uccidono. Fuori dalla ristretta cerchia non solo degli addetti ai lavori, ma addirittura degli addetti ai lavori che si occupano di questo argomento – non si pone né il quesito delle eventuali variabili socioeconomiche che favoriscano il fenomeno, né dell’eventuali psicopatologie che possano essere correlate all’atto. Si rimane in una protettiva posizione emotiva, che in realtà però su questo come su molti altri argomenti, rende tutti subalterni. Se l’atto cattivo è l’esito del maligno, non ci sta un cazzo da fare. Siamo alla mercé del male, e possiamo solo consolarci con la gogna e la sanzione.
Allora in questo post, più che parlare di un caso specifico di cui non sappiamo niente, e che non sarebbe etico trattare superficialmente vorrei porre, in modo molto schematico alcune riflessioni e direzioni di approfondimento, non necessariamente tutte con delle risposte pronte, il che non esclude che qualcuna di queste riflessioni possa dire qualcosa del caso di cronaca da cui siamo partiti.
1
La prima questione di fondo su cui non mi stancherò mai di insistere, fino a essere noiosa, perché è un’acquisizione che ha conseguenze sulla domanda politica, riguarda la circolarità tra condizioni socioeconomiche e patologie gravi legate a questo ordine di agiti e (come altri: tipo le stragi di massa, il femminicidio lo stalking ed altri esempi si potrebbero fare). In una misura incisiva – anche se non sempre – l’infanticidio è legato a un disturbo di personalità di asse due, nelle sue diverse diramazioni, in qualche altro caso a una depressione post partum che porta alla luce vicende private sommerse, ma in entrambi i casi rappresenta l’ultima tappa di un processo di costruzione del comportamento che potrebbe essere arginato da un intervento tempestivo e da importanti variabili contestuali. Per fare un esempio molto materiale: esistono famiglie disfunzionali dove madri inadeguate sono sposate a padri inadeguati, che mettono al mondo bambini, o come in questi casi bambine delle cui emozioni e bisogni non sono in grado di occuparsi. In particolare in bambine e bambini che hanno una predisposizione biologica a un certo tipo di sofferenza, questa incapacità di cura da parte dei genitori è anche una incapacità di insegnare ai bambini ad amministrare le proprie emozioni e a tollerarle. Se una madre non prende mai in braccio un bambino che piange, non insegnerà mai a quel bambino a smettere di piangere, e ci sono consistenti probabilità che quello sarà un adulto che non potrà tollerare un motivo di pianto o di angoscia. Se a una famiglia così caratterizzata però dai un asilo nido, la bambina di quella famiglia, per almeno 8 ore della sua giornata, potrà fare esperienza di relazione con qualcuno che gli insegna come fare quando ti viene da piangere a dirotto. Che gli regalerà come dire, un modo di abbracciarsi di prendersi cura di se. Il nido prima l’asilo poi non negheranno tout court le criticità di un sistema familiare disfunzionale, ma certamente introdurranno un campo relazionale alternativo, a cui crescendo questi bambini e bambine potrebbero far ritorno con la mente. Per esempio diventando in grado di essere adulte e adulti che chiedono aiuto prima di commettere un reato.
Ugualmente, uno stato sociale efficiente, e che non chiama in causa i saperi della psicologia solo a posteriori, ogni volta che c’è un infanticidio, ogni volta che s’ammazza un adolescente giù per un balcone, istituisce dei presidi psicologici di defoult nelle scuole, e magari fa anche fare degli screening per vedere se c’è qualche giovane che è più a rischio di quanto si possa indovinare con la semplice osservazione. Per fare un esempio. Se un’adolescente è in stato interessante e non lo dice a nessuno, quest’adolescente a prescindere dalla gravidanza ha un problema, vuoi al livello personale vuoi a livello relazionale: è qualcuno che ha un gran problema e che non è in grado di attivare nessuna relazione di sostegno, è qualcuno che in questa circostanza come in altre non è in grado di attivare delle risorse. (Ma anche se un giovane che va molto bene a scuola ma desidera essere una ragazza, oppure, rifiuta una coppia di genitori adottivi, è molto isolato, non parla con nessuno non attiva un minimo di rete con i pari quello non è un ragazzo introverso quello porca miseria, è qualcuno che non sa attivare delle risorse – qualcuno deve andare decisamente verso di lui).
2.
In realtà anche tra colleghi e anche sulle diagnosi, può esserci una concordanza relativa. Per esempio secondo alcuni la depressione post partum è una condizione di stravolgimento notevole che ha una solida base organica nelle variazioni dei tassi ormonali che possono vivere un reale terremoto con la gravidanza e modificare in maniera consistente gli stati d’animo della donna. Altri pur riconoscendo questo sommovimento di ordine biologico, lo correlano alle vicissitudini private di chi vi passa attraverso e ritiene molto importante sia la storia recente e remota della neo madre, che la situazione ambientale, il sostegno della rete familiare e del partner nel periodo immediatamente successivo alla nascita. Questa divisione di orientamenti oggi è molto più sfumata di un tempo le discussioni sono più pacate e si arriva a una condivisione di area in cui si decide su cosa mettere l’accento, sul biologico o sullo psichico, ma ritorna in molte altre questioni ivi compresi gli agiti psicotici e le varie sintomatologie di patologie gravi. Il vecchio concetto di raptus, sempre più in dismissione per fortuna, era in realtà un vessillo della posizione iperbiologicista, secondo cui un normale funzionamento organico celebrale a un certo punto andava incontro a una improvvisa disfunzione che poi esitava in un gesto aggressivo. In astratto non è una cosa da rifiutare del tutto (pensiamo per esempio alle alterazioni che è capace di generare nel pensiero una normale ischemia, improvviso versamento ematico in una ics area cerebrale) tuttavia col tempo si è rivelata più agile e costruttiva l’idea di un agito che risponde a una lunga storia pregressa e che risulta coerente con difficoltà di vario ordine e grado nel gestire, nominare, sopportare, e trasformare emozioni e relazioni.
Questa osservazione può essere particolarmente congrua nei casi di infanticidio e di femminicidio. A tal punto congrua che entrambi i casi sono correlati a un alto tasso suicidario.
3.
Va però osservato, che nell’infanticidio accade qualcosa di complicato e fuorviante, e ora vi devo chiedere di leggere con serietà delle cose che risultano molto respingenti.
Noi abbiamo infatti due ordini di vicissitudini psichiche – che fanno entrambe capo agli aspetti d’ombra del materno. Da una parte abbiamo una madre che uccide il proprio bambino. La categoria della morte, dell’uccisione, della soppressione, di una creatura che è in primo luogo piccola, e in secondo luogo erede del proprio codice genetico, propria continuazione nel mondo, introduce un salto qualitativo che fa capire come con ogni probabilità ci deve essere qualcosa di grave dietro, un’impossibilità forte, patologica di sostenere emotivamente quello che il figlio incarna. Per esempio il ricordo di se stessa bambina e terribilmente sofferente. Il bisogno. Questa impossibilità è una impossibilità che non ha retto un solo parlare, l’atto di dire e basta di essere agghiacciata dalla domanda. Le vie del malessere sono narrativamente tante, ci sono storie esistenziali e diagnostiche diverse l’una dall’altra, eppure a me pare che ci sia questa cosa forte, il trasversale delle patologie gravi: il non reggere un piano narrativo, il doverlo materializzare. Il non poter solo dire: questo bambino che piange e chiede di me che mi rinfaccia la tragedia della vulnerabilità e della dipendenza io non lo sopporto, ma il materializzare la non sopportazione, il trasformarla in atto.
Quando si lavora con patologie gravi, per esempio con le schizofrenie, o con i disturbi borderline che sono più vicini alla psicosi che alla nevrosi, si osserva questa cosa, l’incapacità di tollerare il piano metaforico, di tenerlo a mente come oggetto parallelo separato dal reale, che lo spiega. Per cui si ha la sensazione di avere a che fare con persone che o vivono esclusivamente in un mondo di metafore, o in un mondo che ne è totalmente privo.
D’altra parte però l’ombra della maternità esiste per tutte. Nel nostro paese si fanno troppi pochi figli, è un paese vecchio e nevrotico che non sa curarsi per cui, onde evitare di confrontarsi con la necessità di una terapia, le ombre del materno sono debitamente negate oppure esaltate, il tutto per giustificare il fatto che non si fanno figli. Per cui eh, ci ho l’ombra non li fo li odio i bambini io, oppure eh quella ci ha l’ombra è cattiva e orribile, la maternità sono tutte rose e fiori. Eppure la maternità non è assolutamente solo rose e fiori, soprattutto considerando che richiede una prestazione esistenziale in direzione ostinata e contraria agli obblighi culturali e ideologici del capitalismo occidentale. Devi fare soldi e invece non produci, deve essere figa e bella e invece ingrassi, devi saperti divertire, consumare, e invece stai a casa a da la sisa al regazzino, devi occuparti di te, perché tu sei al centro, la tua individualità è importante e tu invece mo ci hai sto coso che detta legge. Le donne di oggi passano i primi trent’anni a condividere un’idea di vita coerente con il loro sistema culturale, poi arriva qualcosa che le costringe a fare i salti mortali per poter mantenere il patto psichico coi valori di un tempo.
Questo in aggiunta alle sfide emotive che un figlio pone. Tutto sommato si ha la possibilità di scegliere una totale indipendenza dai genitori, ma l’indipendenza dai figli è una cosa che non esiste. Mettere al mondo un figlio equivale a confrontarsi con il proprio rapporto con la dipendenza, il bisogno, la subalternità.
Però attenzione – la differenza sostanziale è tra il tollerare un dire, un piano metaforico, il poter accedere a un discorso che rappresenti il possibile (se non mi fa dormire l’ammazzo, se non posso lavorare l’ammazzo) e il lavorare su quella rappresentazione nella mera parola, e il non poterlo fare materialmente e psicologicamente fare. Lo dico perché il guaio grosso del pensare l’infanticidio è che si riconosce a tratti la continuità ma non si vede la discontinuità, il qualitativo dell’agito.
Mi fermo qui. Se ci sono riflessioni continuiamo volentieri nei commenti.