Giulia, i bambini, le madri, i padri la legge e la coerenza.

Da molto tempo a questa parte la PAS, la sindrome di alienazione parentale, proposta di Gardner e rifiutata da qualsiasi contesto psicologico e psichiatrico è oggetto di grandi e calorosi dibattiti.   Nelle intenzioni di Gardner la sindrome doveva servire a individuare minorenni manipolati dal genitore affidatario e indotti a credere di provare sentimenti ostili verso il genitore non affidatario, effetto che sarebbe garantito tramite una sorta di campagna di allontanamento e di denigrazione.
Questo tipo di circostanze è moderatamente frequente, e gli psicologi che lavorano con i minori ne fanno una costante esperienza – tuttavia la formulazione di Gardner aveva molte lacune, tali da rendere il costrutto auspicabilmente, inutilizzabile. Ora non mi va di ripetere cose di cui ho già parlato a lungo – qui per esempio. Per brevità ricordo solo che il clouster diagnostico di Gardner non propone una lista di sintomi ma un insieme di comportamenti a volte semplicemente adattivi, non rileva elementi di sofferenza del minore che invece sono tipici di questo ordine di circostanze, pensa il sistema familiare in termini di mezzo sistema sano e mezzo sistema funzionante, e lo pensa in termini fondamentalmente sessisti. Il mezzo sistema malfunzionante secondo Gardner è sempre materno – come si evince più che altro da alcune sue dichiarazioni. Infine manca del tutto una corretta diagnosi differenziale con le diagnosi con cui può confinare: l’abuso reale e l’abuso assistito. Ossia: in quali comportamenti il bambino che ha una PAS è diverso dal bambino che è vittima di un abuso? Quando un bambino che dice che la madre è stata picchiata sta mentendo? O che lui è stato picchiato? Esistono sintomatologie diverse? Questo quesito è importante.
La cultura psicologica italiana –ai minimi termini- unita a un sostanziale sessismo di fondo, non di rado ravvisabile nei tribunali, ha portato a un uso avventato della PAS soprattutto in molto processi in cui al centro della questione c’era l’accusa di violenza di genere del padre sulla madre e di violenza assistita verso il minore. Il concetto di alienazione parentale è stato chiamato in causa dagli avvocati di parte come grimaldello per screditare la violenza sulla donna, e a far passare come invenzioni le denunce di aggressioni e percosse. E dunque, è abbastanza comprensibile e plausibile che oggi solo a sentirne parlare, soprattutto considerando che al di la delle etichette generiche sono le madri ad essere accusate di istillare delle menzogne nei figli, la maggior parte delle donne si arrabbi terribilmente. E nella complicata situazione di un paese con l’economia di un primo mondo e l’ideologia di un quarto la maggior parte delle femministe – che vanno lottando per abitare per lo meno il secondo – rimanga sconcertata di fronte a chi combatte per un ingresso a pieno titolo della pas nelle cause di diritto di famiglia. I mariti picchiano, non pagano gli alimenti, si rifanno con gesti violenti sui figli in percentuale preponderante nelle cause di separazione, ci possiamo davvero stare a occupare di PAS? Non ci sarebbe una lista di cose prioritarie prima?

In mezzo a questi interrogativi Hunziker e Bongiorno, insieme già in una fondazione per la lotta allo stalking e alla violenza di genere, hanno deciso di patrocinare una nuova proposta di legge che sanzioni la PAS financo con la galera. Si era appreso qualche giorno fa con un’intervista da Fazio, in cui la showgirl aveva alluso al fenomeno e parlato della diagnosi, e ne era sorto un risentito dibattito, con tutte le associazioni femministe pronte a negare l’esistenza stessa del costrutto e delle circostanze che lo producono, mentre psicologi e psichiatri cadevano in un silenzio imbarazzato dinnanzi a una protesta di legge che a proposito di un sistema familiare nella sua interezza abusante e compromesso sancisce IL BUONO e IL CATTIVO proponendo IL GABBIO per il cattivo utilizzando una diagnosi che, pur individuando qualcosa di riconosciuto clinicamente, è al momento inutilizzabile per come è operazionalizzata. A correggere il tiro poi, arriva l’intervista di Susanna Turco a Giulia Bongiorno, che paraculescamente cerca di mettere una pezza sull’evocazione della pas dicendo cose come no, ma mica parliamo di quello eh – quando ci sono gli psicologi non ci si capisce mai niente! E allora noi parliamo delle circostanze oggettive, capito come.

Dice l’intervistatrice – scusa ma ci hai fatto caso al fatto che allo stato attuale dell’arte, di pas si parla sempre nei processi di abuso?
Si ma a me, che me frega. Se va così va così.
Un’intervista istruttiva, leggetela.

Ora. Bongiorno si occupa da sempre anche con una certa serietà e buona fede di violenza di genere, e probabilmente si sente protetta dal suo stesso curriculum. E ha certamente ragione a occuparsi di un fenomeno che esiste, e a indicare la necessità di offrire giuridicamente degli strumenti di intervento perché è vero che esiste il fenomeno, è vero che non di rado molti padri, sono allontanati ingiustamente dai figli, e soprattutto è vero questo io credo- che la vita un padre ci da, quel padre, non un altro, con quello dobbiamo fare i nostri conti belli e brutti di figli, e per quanto è possibile quel padre li che è nostro, non ci deve essere tolto. I bambini hanno davvero questo diritto ed è giusto che sia rispettato. E penso come ho scritto nel post linkato che in un figlio questa questione crei dei conflitti inconsci e quindi mi dissocio da tutte quelle correnti femministe che vogliono cassare la PAS tout court.

Ma certa supponenza e goffaggine sono imperdonabili. Si percepisce l’occhio fisso su un femminismo che è anche corretto, e che come vuole più accesso per le donne nel mondo del lavoro chiede il riconoscimento degli uomini nel mondo del privato e quindi si propone di sanzionare quei casi in cui il femminile usa il privato come forma di potere. Tuttavia lascia sbigottiti da una parte la malagrazia con cui ci si avventura in un dibattito ampiamente avviato, fino a raggiungere vertici inusitati di becera ignoranza: ah le femministe non hanno letto la legge mia, (ma dovevano? Ma a che serve avere una showgirl a comunicare se alla prima critica su quella comunicazione si rinfaccia la legge? Ma correggi la comunicazione prima) ah si la pas non esiste vabbeh io non ne parlo mica, ma però mi serve parlarne, ah tanto gli psicologi confondono le acque sebbene sia del benessere psicologico dei bambini nevvero che si dovrebbe parlare – e per quanto alla fine la questione sia un giochino di potere tra le parti e una patologia del potere quello dovrebbe essere il vertice di osservazione.

Dall’altra anche la stessa proposta di legge rende perplessi perché è ispirata sul principio della sanzione come efficacia detrattiva su un certo comportamento – la minaccia del gabbio! – e pone l’accento sull’idea di un comportamento colpevole contro uno invece non colpevole quando se fossero chiamati in causa le persone competenti le cose sarebbero impostate in ben altro modo. E il sistema familiare ad essere rotto. Posso capire il sanzionare una ex coniuge che non faccia rispettare il ritmo di visite all’ex marito, o l’esercizio della funzione paterna. Ma la sanzione di un’opinione sull’ex marito mi pare una forma di delirio istituzionalizzato oltre che ridicolmente controproducente.
Al di la delle mie perplessità sul testo della legge, non credo che si possa risolvere il problema della comunicazione su questi temi mettendo in mezzo una signorona di successo nello spettacolo che odora di superficialità e privilegio ogni volta che sorride e ciancia di un mondo materiale che non sarà mai costretta a sfiorare, e forse sarebbe un atto di coerenza oltre che la risposta a una necessità tanto sentita, proporre degli strumenti anche giuridici e richiederne di psicologici per aiutare quelle stesse avvocate femministe e periti di parte a discriminare la PAS dai casi di abuso – sia nel caso in cui l’abuso sia violenza subita direttamente dal minore che sia invece violenza assistita sulla madre. Per quanto alla Bongiorno l’intervento degli psicologi appaia come confusivo, forse non se ne può prescindere tanto, considerando il fatto che in questo genere di processi la testimonianza del minore è dirimente. Non solo come diretto interessato nei casi di affido ma anche come teste per appurare l’eventuale violenza sulla madre la quale come si diceva spesso è screditata invocando la pas. Va ricordato infatti che spesso quando gli uomini compiono violenza si mettono nelle circostanze opportune a che la vittima abbia come unica testimonianza proprio i figli, e attuano processi intimidatori allo scopo di non far produrre alla vittima prove che possano poi essere usate contro di loro. Per esempio prima le accoltellano poi le portano al pronto soccorso e in loro presenza le donne aggredite non parleranno di aggressione ma di incidenti e l’ospedale non potrà scrivere niente di utile in un processo futuro. Allora capire da altri e più adeguati sintomi se un bambino racconta di un abuso per non perdere la vicinanza con la madre, o invece lo fa perché ne ha memoria diventa un compito ineliminabile e una nuova riformulazione della PAS quanto mai auspicabile. Io ho la sensazione che certe sintomatologie molto franche e invalidanti – bambini che hanno appetito disturbato, che non dormono la notte. Oppure che sono precocemente portati a fare giochi in cui al centro c’è la violenza e un contenuto pesantemente sessuale, in maniera reiterata e ossessiva siano più probabilmente vicini all’esperienza di abuso reale che presi da una narrazione dell’abuso. L’abuso rompe, disorganizza crea un disagio esperienziale. Il suo racconto allo scopo di tenere vicino un materno avvertito come importante forse non comporta le grandi fratture psichiche della grave violenza assistita o subita e se ci dovesse essere una sintomatologia comparirebbe più tardi, con connotazioni più sottili. Ma su questo mi piacerebbe che intervenissero colleghi che lavorano con bambini.

Quello che posso dire con certezza è che coerenza vuole che – se ti occupi di violenza domestica il lunedì, non te ne puoi fottere il martedì perché il nuovo argomento ti attizza di più.

Dal vecchio blog : Psicodinamica delle coppie violente. (Aprile 2012)

E’ nota a tutti, verrebbe da dire, famigeratamente nota, la teoria dell’invidia del pene, secondo cui sarebbe fisiologica per la crescita delle bambine un’età in cui invidiano i maschi e il loro organo sessuale per il potere che essi hanno nella loro quotidianità, di cui il fallo è simbolo. Ai riflettori dell’industria culturale però è molto meno nota la teoria dell’invidia dei maschi per le donne, per la loro capacità irriducibile di generare e di nutrire allattando. Questa teoria, descritta già nei lontani anni trenta da una importante analista kleiniana Joan Riviere, oggi è tenuta dai clinici in grande considerazione, perché capace di rendere conto della radice di aggressività che molti uomini hanno verso le donne, perché spiega bene un comportamento denigratorio e disprezzante che hanno certi compagni verso le compagne, la cui esagerazione non può che rinviare all’invidia di un femminile vissuto originariamente come onnipotente.
L’inferiorità politica, la mancanza di autodeterminazione sociale, in cambio del sostanziale obnubilamento della categoria del volere, hanno garantito almeno parzialmente alle donne la protezione da questa viscerale invidia dovuta all’asimmetrica distribuzione del potere di generare che distribuisce la natura, perché tutto sommato ne diminuiva la portata e costringeva le donne alla masquerade della civetteria verso l’uomo, tranquillizzandolo così con la propria certa acquiescenza. La liberazione delle donne, l’essersi esse appropriate tecnologicamente e giuridicamente della loro sfera riproduttiva, l’essersi loro addentrate nel mondo del lavoro e delle professioni, l’essere rientrate nel regno della volizione, le ha rese esposte a questa invidia maschile alimentando le possibilità di conflitto fra i generi. Non è un caso che, analizzando la spesso citata indagine istat 2006 sulla violenza intrafamiliare contro le donne, l’incidenza delle aggressioni alle donne, nel nostro paese sia più alta nel centro nord, e nelle zone urbane.

Questa invidia del femminile però, anche se ha una specie di alone culturale di fondo, una continua rappresentazione possibile, si sostanzializza in modo da arrivare a compromettere la qualità della vita e delle relazioni soltanto in certe condizioni, francamente patogene, che risalgono alle prime fasi della vita del bambino – in una delle situazioni più frequenti, di un bambino che per coppia genitoriale ha una madre e un padre che saranno molto simili a lui quando sarà adulto con sua moglie: si può parlare cioè in questi casi, di una trasmissione intergenerazionale della patologia, constatando come dai nonni a i nipoti un’organizzazione patologica della coppia si riproponga in forme simili.

In una delle trame più frequenti (anche se certamente non l’unica) la situazione che si ricrea infatti vede – una madre profondamente depressa, rancorosa che si autosvaluta e che si infligge una relazione con un compagno genericamente assente, genericamente di alcun aiuto in casa, assolutamente incapace di assolvere una funzione paterna, che la svaluta e la denigra, un compagno cioè che latita anche dalla rappresentazione conservatrice dell’uomo. Quando una coppia del genere fa un figlio – l’invidia della capacità di generare del nuovo padre psicologicamente malato, può raggiungere soglie inusitate di espressione e renderlo particolarmente ostile e violento e la donna per parte sua, il cui assetto mentale altrettanto patologico ha trovato nel compagno il lucchetto della collusione – sarà per un verso animata da un fortissimo rancore, e ostilità nei suoi confronti, per l’altro animata da una sordida forma di autoflagellazione. Si crea un conflitto aperto, di grande violenza, spesso fisica e che in qualche modo è anche erotizzata, vissuta come un canale di comunicazione vivo tra le due parti, che polarizza i due membri nei ruoli fissi patologici e opposti della vittima e del carnefice. In mezzo però c’è il bambino piccolo, che da questo gioco è escluso e che non sembra essere l’oggetto di interesse di nessuno, pur vivendo un momento di inevitabile dipendenza dal materno. Il padre è defilato, e la madre è depressa e svalutata non si rende emotivamente accessibile alla sua ricerca, anche se gli è fisicamente vicina. E’ per esempio una madre che la depressione rende inerte, anaffettiva, difficilmente raggiungibile, o in altri casi è una madre che proietta immediatamente sul figlio maschio la relazione sadomasochistica che ha con il maschile, e si comporta come se ne avesse paura, diventando la madre schiava e esageratamente buona – il che insegna Winnicott, è a un passo dall’essere una madre cattiva. In questi casi la madre, si adopera per sostituire il figlio al padre, lo allatta appena quello lo richiede, lo svezza molto più tardi di quando sarebbe opportuno, diventa una sua suddita, pur rimanendo pericolosamente incerta e sottilmente ma percepibilmente incapace di sintonizzarsi con il figlio – una contraddizione terribilmente saliente. In tutti i casi, il padre non sarà capace di far interrompere alla madre il suo rapporto continuo con il figlio, e di far vedere al figlio che essa può distaccarsi per venire da lui. Con la scusa ideologica del maschile lontano dalla famiglia, saboterà il tradizionale ruolo maschile del padre. Arriverà un momento per cui il bambino comincerà a percepire il materno come qualcosa di fondamentale di vitale, di potentissimo da cui dipende, che gli procura frustrazione, ma da cui paradossalmente e simultaneamente non può sopportare di separarsi –e nel frattempo vedrà il paterno latitante come oggetto con cui desidera profondamente identificarsi, e perciò ne rincorrerà i comportamenti distruttivi per sentirsi adulto. Nascono così, o meglio, si tramandano così, i pericolosi germi del rancore misogino.

Probabilmente la donna che sposa un uomo con questo assetto mentale, ha un assetto mentale complementare, non di rado con una storia familiare simile. Se quella stessa coppia avesse infatti avuto una figlia femmina, la madre avrebbe avuto con lei un comportamento sottilmente diverso rispetto al figlio maschio, con una remota delusione, identificandosi in lei come soggetto esistenziale destinato alla sconfitta, non meritorio di cure e di grande attenzione, che si sovrappongono al masochismo di lei e che lo rende come dire, endemico contagioso alla figlia. Anche da questa figlia il padre resterà comunque distante, probabilmente ancora più distante perché è femmina e la sente meno come erede, la bambina crescerà con questa percezione di poter essere nella relazione soltanto come soggetto che subisce un destino, piuttosto che lo agisce, soggetto in preda al complicato senso di impotenza e rancore, che è proprio quel modo di stare nel mondo lamentoso livoroso quanto inefficace che i clinici più conservatori chiamano proprio con il termine – invidia del pene. Questi due figli rappresentano i partner ideali di una relazione violenta, la loro unione è una delle storie possibili, anche se non l’unica ma certo tra le più frequenti. Non a caso però nel narrarla si allude a una tradizionale attribuzione dei ruoli, senza grandi variazioni e senza i contributi di elementi terzi, la rete parentale per esempio, oppure la presenza di altri elementi come asili nido o scuole materne. Proprio perché questi assetti sono psicopatologie familiari e culturali insieme, esse emergono sempre in contesti in cui i ruoli sociali sono estremizzati e anzi collassati, e lasciati per altro in completo isolamento. Gli attori di questo teatro spesso non hanno a disposizione fattori protettivi – che per esempio attutiscano la forza patologizzante della coppia genitoriale sui figli. Una zia buona e dedita, un maestro elementare capace di fornire un maschile positivo e non violento, possono fare moltissimo per migliorare le condizioni di crescita di un bambino o di una bambina. Ma queste vicende psichiche, queste costruzioni patologiche si concretizzano e si tramandano con maggiore frequenza in aree socioeconomiche disastrate, dove lo Stato è assente, e dove non c’è rete sociale, e dove si possono aggiungere i grandi detonatori delle forze inconsce non negoziate – che sono gli alcolici e le droghe.

Può essere interessante, per concludere questa discussione sulle relazioni sadomasochistiche che possono esitare anche in gesti violenti irreversibili, anche per capire un po’ come mai si risolvano in situazioni tragiche, riflettere sul funzionamento di queste coppie, paragonandolo a quello di relazioni relativamente normali, funzionanti e moderatamente conflittuali.
Innanzitutto, come connotazione generale – nelle coppie relativamente sane e funzionanti – circola certamente l’aggressività (che è un sentimento naturale e necessario dell’agire e della relazione affettiva) ma essa rimane sempre al servizio della relazione. Negli scambi verbali ci può essere dell’aggressività, e nel rapporto sessuale c’è sempre una necessaria e salubre proporzione di aggressività da parte di entrambe le parti in causa. Come sottolinea Kernberg, c’è sempre un desiderio di violare le pareti dell’altro, di superare la barriera della differenza, di sfidarlo nella sua integrità nel gesto sessuale, con intenzioni che hanno una loro carica aggressiva, ma in cui l’aggressività è giocata al fine della relazione. In queste coppie invece si assiste a una inversione. Siccome sono composte da persone che hanno esordito nella vita misurandosi con una potente frustrazione e un forte risentimento, l’aggressività è la moneta primaria del loro linguaggio psichico, il loro canale di comunicazione che non può essere mai messo in secondo piano per cui è la relazione a obbedire all’impulso aggressivo, cercata per elicitarlo. Inoltre altre grandi differenze lasciano l’aggressività completamente libera di agire, completamente incontrollata e inarginata.

Nelle relazioni relativamente normali, anche con un range piuttosto vasto di variazioni possibili, esiste sempre una capacità di preoccuparsi per l’altro, una capacità di intenerirsi per l’altro, una capacità di identificarsi con l’altro. I partner delle coppie normali hanno cioè due caratteristiche seppur in forme e grandezze variabili: una forma di super io solida e interiorizzata che normativizza l’agire e lo rende forte per pensare all’altro moralmente, proteggendolo dalle intemperie delle proprie forze inconsce, e in secondo luogo una identità di genere abbastanza forte da poter reggere il paradosso della sfida relazionale, che implica una sua flessibilità. Sempre Kernberg scrive una cosa molto interessante sull’erotismo delle coppie normali: esso funziona perché nel momento stesso dell’orgasmo il partner fantastica una bisessualità possibile, si identifica con il partner che ora vede godere. Tutta la sessualità funzionante implica un identificarsi con l’altro un riattivare momenti passati della propria storia psichica, bisessualità latenti e omosessualità immaginate – perché la sessualità che funziona passa per il viaggiare implicito lungo le strade battute nella crescita – meglio ancora, passa per la capacità di sapersi muovere avanti e indietro nella storia delle esperienze passate. Questa flessibilità di posizioni identitarie noi la registriamo in molte situazioni anche quotidiane quando osserviamo certe coppie che solitamente assestate su un certo regime un certe occasioni mostrano un’organizzazione opposta. Quello strano rovesciamento delle identità consolidate che ai più sembra una stranezza, è segno di una flessibile vitalità della coppia, di due identità singolari e relazionali abbastanza forti da essere suonate – diciamo cosi – in diversi modi (ma la vediamo anche nella capacità salubre di stare con i bambini, nel saper oscillare per esempio tra il ritornare piccoli per giocare coi piccoli, e nell’essere adulti per proteggerli dai pericoli).

In queste coppie invece, la flessibilità identitaria è assente, e le due parti stanno irrigidite in una posizione stantia e immodificabile, nessuno riesce a essere un po’ di qualcosa di diverso dallo stereotipo che si trova a recitare, sono caricature di maschile e di femminile che non a caso possono avere di frequente una vita sessuale povera e insoddisfacente. Gli analisti che decodificano questi comportamenti con una griglia psicodinamica, li spiegano come un mancato cimento nella sfida edipica – come simbolicamente rappresenta sempre l’atto di conquista di un compagno o di una compagna, e come può essere interpretato l’atto erotico stesso con un uomo o una donna. Il complesso edipico narra infatti di un bambino che si innamora della madre e per questo deve simbolicamente uccidere il padre, ma qui la madre è colpita, e il padre è quello da rincorrere. Lo si vede anche nell’ultima grande differenza tra le coppie con violenza interna, e le coppie relativamente funzionanti, e che riguarda il rapporto con il contesto e le alleanze di genere. La coppia che funziona nella sua nascita esplora un momento di radicale rottura con le provenienze delle parti, e uno dei grandi passaggi dell’adolescenza è rappresentato da questa improvvisa frizione con gli amici pari sesso, con la comitiva di appartenenza, per andare a scoprire la nuova e possibile micro cultura della coppia. Poi si cresce, anche le coppie crescono e nella loro naturalezza ritornano in un rapporto dialettico rispetto al gruppo sociale di appartenenza, ma appunto i fratelli e le sorelle smettono di avere la necessità prioritaria della sussistenza, e la situazione cambia. Queste coppie invece, non riescono a gestire affatto questa dialettica con il gruppo sociale di riferimento, mantengono legami protettivi, oppure li frantumano proponendo invece assetti totalmente falsi e apparenti.

Tutto questo, costituisce per quanto strano possa sembrare, un equilibro funzionante e piuttosto stabile, che può durare anni e anche decenni, addirittura vite intere. In contesti sociali dove alla patologia della coppia corrisponde la patologia della cultura, sono particolarmente frequenti e in numero maggiore, che in altri, perché la trasmissione del comportamento psicopatologico, si propaga in maniera virale, senza che vi sia anticorpo alcuno. La rigidità assoluta dei comportamenti tenuti mantiene un livello costante, che è naturalmente disumano – ma che precariamente garantisce dall’omicidio. Il gesto omicida, sopravviene quando l’equilibrio viene alterato – in genere per decisione della parte debole, la quale potrebbe scegliere di andarsene per la violenza, ma molto più frequentemente anche per altre cose – scoprire per esempio che il marito ha un’amante di troppo, oppure che ha sommerso la casa di debiti di gioco. A quel punto, il partner che già ha un assetto mentale in cui la violenza sostituisce la relazione, viene messo a confronto non solo con l’invidia che gli provocava il femminile, ma con l’urgenza della dipendenza inelaborata e il gesto fatale diventa la soluzione presa da un io debole, pervaso da forze inconsce ferine, che non hanno nessun superio capace di controllarle.

Cosa fare per aiutare una donna vittima di violenza di genere

Premessa:

Qualche giorno fa a una mia amica capitava un incidente purtroppo non molto raro. Era per strada e a un tratto si era trovata ad assistere a una scenata in pubblico dove un uomo maltrattava con molta violenza la sua compagna, strattonandola e lamentandosi a gran voce del fatto che lei si fosse azzardata a scappare di casa quando lui si era distratto. Una scena molto forte, con tutto il quartiere che cercava di calmarlo, e qualche donna che ha provato a parlare con la donna molto giovane, sfiancata. L’uomo era italiano e più grande di lei, lei era una poco più che adolescente dalla pelle scura, forse somala forse eritrea. Chi sa.
La mia amica è tornata a casa con una grande sensazione di impotenza.

Come ci si deve comportare in questi casi? Cosa bisogna sapere?

Sono situazioni infatti che capitano con grandissima frequenza – la vicina di casa sempre con occhi neri e segni oscuri sulle braccia, la donna percossa per strada, l’amica che si sente al telefono – e che cortocircuitano emotivamente con delle emozioni importanti. Sono vicende platealmente narrative, iconografiche quasi filmiche, muovono immagini archetipiche: L’Uomo Cattivo Che Picchia la Giovane Buona. La Forza che attacca La Gentilezza. Il Maschio rappresentante del Maschilismo che attacca la Donna che deve essere difesa dal Femminismo. L’Avanzo di Barbarie che deve essere redento dall’Intervento della Civiltà. Sempre tenendo da parte quell’altra parrocchia di reazione psichiche, di marca più reazionaria, che la mia amica ha potuto osservare: la Femmina Infida e Libertina, Che Non Rispetta La Relazione Con Il Suo Uomo. Tutte queste cose però sono narrazioni nostre, riflessi condizionati che vengono dalla nostra psicologia prima che dalla nostra cultura, identificazioni lampo, che scattano prima ancora del ragionamento. Quella ragazzina sono io ragazzina! Quella ragazzina è mia figlia grande! Quell’uomo è il padre che ho detestato! Quell’uomo è il maschio che ho paura di essere ma non voglio! In ragione di questo possiamo essere tentati di ignorare l’accaduto oppure, di intervenire in modo invece grossolano.
Ora intervenire secondo me è d’obbligo, ma forse ci sono delle cose da fare e sapere per farlo nel miglior modo possibile.

Proviamo
La prima cosa da fare è sospendere il Pavlov dello scacco emotivo e ricordarsi che dinnanzi a se si ha un romanzo che nonostante le apparenze non abbiamo letto.
(Lei per esempio, potrebbe essere più presente a se stessa, di quanto sembri, lui meno o più aggressivo non lo sappiamo, ci saranno altre storie si o no? Che equilibri si giocano? Che ruolo ha la rete familiare di lui? E di lei? La trama non letta a che si collega? ) E quello che invece sappiamo è un capitolo centrale, per quanto nevralgico di una trama. Non possiamo io credo, per motivi etici, girarci dall’altra parte, ma neanche possiamo intervenire in modo incongruo quindi, non possiamo dare subito pareri affrettati che potrebbero portare anche a consigli pericolosi.

Questa premessa serve anche a essere preparati dinnanzi alla possibilità di essere giudicati invadenti. E in effetti, quando si interviene in una vita che non è la nostra, si è sempre invadenti, si calpesta sempre qualcosa di indebito, di ignoto, e non c’è tragedia che annulli questo dato di fatto. Due settimane fa io ho sentito una donna per strada parlare al telefonino con la madre piangendo, perché il marito l’aveva cacciata di casa, aveva un occhio nero, dei graffi, e quando ho provato ad avvicinarla quella mi ha mandato a quel paese. E’ giusto, è la sua vita è il suo romanzo, sono i suoi tempi psicologici e io intervenendo e dicendo – signora se le serve chiami qua – ho imposto i miei tempi. E quindi, prepararsi a prendersi un vaffanculo ben assestato credetemi aiuta. Aiuta anche ricordarsi la delicatezza di una relazione – quella tra voi e la donna che intendete aiutare, ipso facto asimmetrica: voi state bene state li ben vestiti e sorridenti a confrontarvi con una donna che sta come dire in un momento di assenza estetica, di umiliazione, di minorità. Voi state in un quotidiano apparentemente sereno e magari poco penetrabile mentre lei che sta richiamando il vostro intervento è in una posizione di trasparenza, inferiorità in una costrizione di impudicizia. Vale per la donna che si vuole soccorrere per strada, come per l’amica che si conosce da diverso tempo.
Quindi, si possono verificare due possibilità: che l’asimmetria sia accettata psicologicamente, per cui la persona aiutata si cali nella parte della vittima e della figlia, oppure che l’asimmetria sia rifiutata e quindi che la persona che riceve aiuto si indisponga. Questo ordine di effetti, giacchè l’asimmetria è reale e oggettiva, non si può evitare, ma si può cercare di attutire piuttosto che amplificare – soprattutto nei casi in cui si superi il momento eclatante di quando si assiste lui che le molla uno schiaffo, di quando le si parla un’ora dopo che ha preso lo schiaffo.

.Poniamo che capiti di essere in flagranza di reato: di assistere a una violenta percossa, o in quanto vicini di casa di sentire voci di pianto e avere la sensazione che ci sia una violenza in atto. Se si ha la possibilità di contattare la vittima in quel frangente, ed essa appare molto provata come purtroppo è normale che sia, un modo di fare gentile, anche accudente e genitoriale ci sta – perché tutti noi quando siamo colpiti nel corpo o semplicemente gravemente ammalati diventiamo un po’ figli del prossimo, regrediamo a uno stato in cui si invoca l’altro a prendersi cura. Non sempre, ma certo è più probabile. Ma questo è un modo di fare che va bene al momento dello stremo, all’acme di una crisi, non in un momento in cui si sta dialogando e si cerca di passare un consiglio utile – per esempio contatta un centro antiviolenza, telefona a questo numero. Questo atteggiamento diventa infatti nefasto sia che la persona si lasci aiutare, che nel caso in cui non lo permetta.
Se infatti se ne sentirà insultata, perché si vede come sottovalutata trattata come non capace, vede negli occhi dell’altro la propria responsabilità nella sua infelicità vi manderà a quel paese, e ritornerà nel suo inferno domestico. Ma ecco, se accetta il ruolo di povera vittima, di figliola senza armi che ora voi brave madri e bravi padri state soccorrendo, beh la zuppa non cambierà, in quanto figlia lei non rintraccerà dentro di se le forze e la soggettività adulta per prendere la sua vita in mano, e ritornerà nel suo inferno.

Per quanto è possibile dunque, bisogna parlare sempre tra pari.

E cosa dire?
Quando è possibile bisogna capire la situazione della persona, ascoltare la storia se è disposta a raccontarla. Tante cose non è facile saperle subito e probabilmente specie se il contatto è occasionale, non si sapranno allora. Ma alle volte chi vive in queste situazioni protratte nel tempo si tiene delle cose infernali dentro per tanto tempo, è intimidita dal partner a parlare con chiunque per cui una volta che trova un canale magari si sfogherà. In tal caso, non è il momento per esprimere scandalo o sanzioni, ma soltanto di capre bene come stanno le cose, quanto la signora è coinvolta nella sua vita di coppia e di quali risorse può usufruire dovesse decidere di lasciare il compagno, specie se ci vive insieme e specie se ha fatto dei figli con lui. Poi ognuno e ognuna troverà il suo modo per confortare e vedere, ma sempre in base a una realtà cruda dei fatti. Se una donna è molto coinvolta sul piano personale, molto innamorata molto dentro a una relazione violenta, beh è inutile dirle di lasciare il compagno è quasi più opportuno alludere a una psicoterapia se l’intimità raggiunta lo consente. Se una donna è immigrata e sola in Italia, non si può dirle con disinvoltura di andarsene senza ragionare insieme sul dove e sui rischi.
Quello che si può fare però è metterla in contatto con un centro antiviolenza della sua città o regione, che l’aiuti in un percorso o che addirittura – ce ne sono diversi – le possa offrire ospitalità. Io credo che questo vada fatto sempre, anche quando la psiche dell’interlocutrice non dovesse essere pronta. Solo il fatto di dire, guarda c’è questo posto con cui puoi parlare con cui puoi confrontarti, magari dando un numero di telefono, è un seme, che può germogliare subito, che può germogliare dopo – ma che rimane. Anche se voi date il numero e lei se lo perde un domani lo ricercherà. E’ importante comunque che la prendiate sul serio, le parliate tra pari, magari nel dialogo diate risalto alle sue risorse a cosa ha saputo fare per difendersi, ma non vi facciate prendere dal raptus genitoriale pestilenziale. Ha bisogno di sentirsi una donna forte, non una bambina debole.

Chi scrive ha avuto una buona esperienza con i centri antiviolenza, anche se da quella esperienza ha drenato delle forti perplessità. Ma rimangono, per questo tipo di assistenza l’aggancio più utile e sicuro, perché probabilmente più preparato a ragionare su tutta una serie di difficoltà pratiche che noi non sappiamo a cui non sempre polizia e servizi sociali soprattutto rispondono in maniera adeguata. In ogni caso, bisogna stare molto attenti al proprio zelo, e se si decide di aiutare una donna vittima di violenza intervenire anche con una certa cautela. Per quanto infatti molte coppie violente siano tali per una sorta di erotizzazione distorta della relazione, non dobbiamo pensare che questa sia la maggioranza dei casi e non dobbiamo sottovalutare una serie di problematiche davvero concrete – come il grado di psicopatologia del compagno violento e le difficoltà materiali della vittima. Tante volte le donne non escono da certe situazioni per una paura che purtroppo è persino saggia, perché sanno che se osassero scappare quello le ammazzerebbe. In questo senso consigliare di andare alla polizia senza consigliare simultaneamente di lasciare la casa è scellerato, così come consigliare di minacciare di andarsene senza che lo si faccia veramente. Dire perché non te ne vai a una ragazzina di 21 anni extracomunitaria sequestrata da un antisociale italiano o del suo stesso paese, è semplicemente ridicolo. Fare la parte della pasionaria davanti all’uomo che malmena magari altrettanto pericoloso. Certe volte, può essere utile giocare d’astuzia, e offrire alla donna un alibi – per esempio parlando di vestiti da regalare per i suoi bambini, di un certo luogo dove le cose da mangiare costano meno, e cose così, oppure qualcosa di più adeguato al ceto sociale della persona con cui stiamo parlando perché è vero che la violenza di genere abbonda nelle aree di marginalità sociale, ma non disdegna anche le elites. E le donne delle elite, sono sole quanto le altre, perché il patto dei maschi capobranco è fortissimo (l’avvocato che conosce il questore, etc. etc.) e la sanzione delle signore altrettanto potente.

Attenzione poi a non rivolgersi ad altre entità a casaccio, tipo polizia e servizi sociali, se non si conosce qualcuno della cui preparazioni si è certi. Entrambi i contesti professionali sono ricchi di persone dedite attente e spesso preparate alla violenza di genere con corsi di aggiornamento. Ma queste formazioni avvengono non sistematicamente ma a macchia di leopardo, e quindi la persona che volete assistere potrebbe non trovare l’adeguato intervento. Infine, ricordate sempre alla donna che riuscisse davvero a lasciare la casa dove convive con l’uomo che la perseguita, di denunciare all’organo deputato se ha deciso di portare il figlio con se. Se non lo facesse in un’eventuale causa futura, il padre potrebbe usare questo comportamento per toglierle il figlio e dinnanzi allo Stato la donna sarebbe giudicato inaffidabile.

qui un elenco dei centri antiviolenza, divisi per regione, dove le donne possono rivolgersi